Angela Merkel, un Churchill a Berlino
“Merita la libertà solo chi deve riconquistarla ogni giorno” J.W. Goethe, “Faust”
In quell’ormai lontano 2002 (distanza dilatata dagli enormi eventi successivi), l’America si stava appena riprendendo dallo choc dell’11 settembre, l’Europa introduceva una moneta senza stato chiamata euro e la Germania viveva un dilemma davvero poco drammatico, anche se foriero di inattese conseguenze: chi aveva tagliato i capelli a Frau Merkel? Ben due coifffeur di grido si dividevano l’onore: Martina Acht e Udo Walz che, da Marlene Dietrich a Claudia Schiffer, non si era fatto mancare nessuna delle più belle teste tedesche. Il quotidiano del popolo, fondato dal ricchissimo Axel Springer il principe nero degli editori, soffiava sul fuoco. E giù a criticare: il caschetto non le dona, l’ombra mascolina sul viso tondo e luminoso, non basta per farne un leader, tanto più dopo l’onta del parricidio, la rovinosa caduta del suo mentore, quella montagna (fisica e politica) chiamata Helmut Kohl da lei liquidato con fredda determinazione.
Lunedì scorso, quando la Germania è entrata in un semi lockdown che durerà per tutto novembre, Angela Merkel non ha taciuto la verità: “Abbiamo quattro lunghi mesi invernali davanti a noi. La luce alla fine del tunnel è abbastanza lontana. Se ci comporteremo secondo ragione, allora potremo permetterci più libertà. Non credo che ci potranno essere grandi e rumorose feste di Capodanno. Sarà invece un Natale condizionato dal coronavirus, ma non dovrà essere un Natale in solitudine. Ogni persona ha il potere di trasformare questo mese di novembre in un successo di tutti, un punto di svolta verso il tracciamento della pandemia”. La cancelliera può contare su una gestione del Covid19 senza dubbio più virtuosa di molti paesi. Grazie alla capienza degli ospedali, doppia della media europea, e alla disciplina che in realtà andrebbe tradotta come senso civico e spirito di collaborazione. In una Repubblica federale dove i Länder hanno poteri ben più forti delle regioni italiane, non sono mancate le divisioni, le polemiche, tra autorità locali e centrali, sono fioccate le critiche e le impennate autonomiste. Nulla di tutto questo, però, s’è trasformato in conflitto istituzionale, le divergenze sono state ricomposte secondo quella cultura cooperativa che è una delle componenti più importanti della nuova Germania. Mitbestimmung, compartecipazione, nelle aziende come in politica. Il conflitto non viene represso né evitato, ma gli opposti vengono condotti verso la loro sintesi trovando compromessi di volta in volta aggiustabili. Un luogo comune definisce pragmatici gli inglesi i quali, invece, si sono divisi per ragioni ideologiche (si pensi alla Brexit). I veri pragmatici del nuovo secolo, in realtà, sono proprio i tedeschi. Conseguenza delle laceranti ferite della storia, senza dubbio. Quando si parla di “sindrome di Weimar” non ci si riferisce solo all’iperinflazione, che venne domata in pochi anni, ma soprattutto alla instabilità politica e alle lotte intestine. L’economia sociale di mercato, la formula adottata con il ritorno della democrazia, partorita dalla classe dirigente cristiano conservatrice, ma fatta propria anche dai socialisti, è la risposta alle ferite del Novecento.
In molti, in troppi, avevano pensato che la Kanzlerin fosse un peso leggero, senza vere radici intellettuali oltre che politiche, vista la sua provenienza. E per molti versi si è rivelata un concentrato di contraddizioni: fragile e timida, pragmatica fino all’opportunismo, alla ricerca ostinata del consenso da perseguire anche prendendo tempo per smussare gli angoli e spegnere le passioni, eppure determinata, tenace, persino inflessibile una volta arrivata alla decisione finale, per quanto sofferta. Abituata ad analizzare, sperimentare, verificare senza lanciarsi in voli palingenetici, Angela Merkel è dotata di un talento che solo i grandi politici posseggono: intuire quando arrivano le svolte della storia per utilizzarle dopo aver capito dove conducono. Lo scandalo che travolse Kohl, il risanamento economico del suo paese, il salvataggio dell’euro appoggiando Draghi, l’occasione offerta dalla invasione russa in Ucraina per esercitare un ruolo diplomatico di primo piano che la Germania non aveva mai avuto, la crisi dei migranti che ha affrontato con un afflato etico prima rimasto tra le righe. Ora, la pandemia è un altro appuntamento al quale la Cancelliera non si è sottratta. “La Germania sotto la Merkel è diventata uno stato social liberale basato su valori ecumenici cristiani”, scrive Qvortrup. L’Europa ha una leader che, non dimentichiamolo, ha collocato al vertice della commissione un’altra donna, Ursula von der Leyen diversa da lei per cultura e lignaggio, ma con la quale condivide valori e scelte. Figlia di un politico tedesco che svolse un ruolo di primo piano in Europa, Ursula è una perfetta Wessie (come vengono chiamati i tedeschi occidentali), ha trascorso l’infanzia in Belgio e parla un ottimo francese. Angela resta per molti versi una Ossie, una donna dell’est, e la sua seconda lingua è il russo. Tra Parigi e Mosca ha oscillato per secoli la sorte dei tedeschi anche quando non erano uniti. E adesso? La cancelliera ha segnato con chiarezza la rotta all’interno dell’Unione, non per creare un’Europa tedesca, ma per una Germania pienamente e consapevolmente europea che non faccia né da maestra né da guida, ma dia sostegno e serva semmai da esempio. Se è così, dovremmo aiutarla, nel nostro interesse e in quello dell’Europa.
Stefano Cingolani
da Il Foglio – 7 novembre 2020