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  • I cristiani senza Cristo

I cristiani senza Cristo

  • Data 16 Maggio 2021

 

di Matteo Matzuzzi

da Il Foglio – 1 maggio 2021 

Fino a qualche anno fa l’Italia era – o sembrava, forse è più corretto dire – un’isola felice nel grande mare dell’Europa secolarizzata. Altrove, sia a nord delle Alpi sia nella un tempo cattolicissima Spagna, le cattedrali erano ormai trasformate in musei, reminiscenza dello splendore andato, di una fede viva e mostrata, cantata e testimoniata. Quando i vescovi olandesi, tedeschi e francesi accorpavano parrocchie e sprangavano i portali delle chiese, dicendo che non alternative non c’erano e che il fiume in piena del laicismo aveva ormai rotto argini non più ripristinabili, e a Vienna il cardinale arcivescovo Christoph Schönborn era costretto a vendere le meravigliose chiese agli ortodossi, quaggiù le cose andavano meglio: la routine della messa domenicale, l’oratorio, il catechismo, le mille e più attività parrocchiali, i gruppi e i gruppetti affaccendati in riunioni e ritrovi, le grigliate di mezza estate tra un’adorazione e una liturgia, le processioni, le prove del coro (non quelle, che servirebbero davvero, di lettura delle Sacre scritture) . Poi, il crollo. Le chiese sono vuote oggi perché qualcosa si è spezzato più di mezzo secolo fa, quando erano stracolme. Una crisi profonda che non può essere risolta applicando ricette che poco hanno a che fare con il divino. Basta uscire da Roma e parlare con qualche vescovo o sacerdote per capire che quel fiume che ha invaso le strade e le piazze dell’Europa centrale è arrivato anche qua. Preti che non ci sono più – e quelli che ci sono spesso sono anziani o “d’importazione” – e fedeli sempre più scarsi. Salvo, come è ovvio, eccezioni rare. Scenario perfetto per le marce funebri, con il dolore chissà quanto sincero sulle chiese vuote e i cristiani che pensano ad altro, sulla fine di un’epoca e sulle campane che non suonano più, sul raccoglimento che non è più come quello di una volta, i canti sempre più scialbi, gli smartphone che squillano interrompendo prediche e consacrazioni. E’ un ritornello ormai classico, un pianto corale che però resta per lo più in superficie; esibizione di un rammarico per un impianto culturale irrimediabilmente mutato, non certo da ieri. E se il problema, però, non fossero tanto le chiese vuote oggi ma le chiese piene e stracolme di cinquanta-sessant’anni fa? Ragionamento paradossale, se si vuole perno provocatorio, ma che ha le sue fondamenta. Lucio Brunelli ne ha scritto sull’Osservatore Romano del 10 aprile, quando osservava che “era, quella negli anni Cinquanta, una chiesa militante, tosta nella dottrina, influente sulla vita politica. Eppure, salvo un ancora rispetto esteriore di forme e convenzioni sociali, non catturava più il cuore e le menti di larga parte delle giovani generazioni. La pratica religiosa ancora teneva, ma era una tenuta simile a quella di un’impalcatura priva di agganci solidi sul terreno”. Bastava poco per farla crollare, in un fracasso udibile a distanza. Qualcosa stava mutando, o forse era già mutato senza che troppi se ne accorgessero e che divenne evidente già al termine della Seconda guerra mondiale, con le grandi domande sul “silenzio di Dio” e sul perché fosse accaduto tutto quello che si era visto e vissuto. Ma la struttura – almeno quella esteriore e visibile – reggeva, ci sono le fotografie in bianco e nero a testimoniarlo, le adunate oceaniche in piazza San Pietro con il Papa benedicente dalla loggia centrale, le lunghe teorie oranti nelle città dietro alla statua del santo locale.

Altrove la crisi era già palese, come ha ricordato lo scorso ottobre sul Foglio il cardinale Wim Eijk, arcivescovo di Utrecht: “Avevamo un surplus di sacerdoti, ordini religiosi congregazioni. Molti missionari nel mondo provenivano dalla piccola Olanda. Ma presto si è capito che le fondamenta di quella orgogliosa colonna cattolica erano molto meno solide di quanto sembrasse”. Alle nostre latitudini, no. Erano piene le chiese e le piazze, i preti erano pure troppi, anche i più piccoli paesi di montagna avevano parroco e cappellano, ché c’erano da officiare messe e vespri, catechismo e sacramenti. La trasmissione per così dire “naturale” del cristianesimo era garantita, di generazione in generazione, come sempre era accaduto nell’alternarsi delle stagioni e dei secoli. Si trattava solo di apparenza, di una mera rappresentazione routinaria, estetica e perno teatrale o dietro c’era qualcos’altro? Secondo Massimo Borghesi – è da poco uscito in libreria il suo Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e “ospedale da campo” (Jaca Book) – negli anni Cinquanta “c’erano ancora un ethos e una sensibilità morale permeati dalla fede, anche quando questa non veniva esplicitamente professata. La sensibilità morale era quella”. Il problema, aggiungeva Borghesi, “è che la chiesa non si dimostrò all’altezza di quella partecipazione”. Il mondo cambiava, il modello americano si stava incuneando nella tradizionale società italiana, prima con il frigorifero e poi con il televisore che impresse una svolta sociale radicale che la chiesa non comprese o comprese in ritardo: “Si limitò a un messaggio di tipo morale e a una morale di tipo moralista, tralasciando così una proposta cristiana che arrivasse al cuore delle persone e che, soprattutto, potesse diventare proposta di vita capace di accogliere i laici nella vita normale, non solo in quella domenicale”. Una tradizione popolare, quella appunto delle grandi adunate di massa, che si è persa irrimediabilmente. La chiesa, sosteneva ancora Borghesi in un colloquio con il Foglio di qualche tempo fa, “non è stata all’altezza del momento storico”.

Restavano insomma la storia, la dottrina e la tradizione, che però non riuscivano più a muovere l’uomo che aveva patito le miserie e l’orrore della guerra e che ora stava vivendo il boom economico. Le forme non erano più sufficienti, la cristianità non poteva più sovrapporsi al cristianesimo, che ovviamente è ben altro rispetto al mero portato valoriale. Lo ricomprende, ma va oltre, è – o dovrebbe essere – qualcosa di vivo, non orpello antico da confinare in una teca museale. Da un sessantennio, il discorso sulle chiese svuotate dell’Europa occidentale si è soffermato su quest’aspetto, sull’osservazione della for ma in crisi, con il rimpianto per i tempi andati e per la gloria che fu. L’esempio olandese è utile perché spiega molto di quanto poi s’è visto a casa nostra, benché con tutte le differenze – soprattutto socioculturali – del caso. Diceva il cardinale Eijk che “subito dopo la Seconda guerra mondiale la vita della chiesa in Olanda si è rivelata essere basata soprattutto su costumi sociali e poco su un rapporto personale tra le persone e Cristo. Questo problema era stato avvertito già prima, anche negli anni Venti e Trenta alcuni preti erano preoccupati dalla limitata profondità che aveva la vita religiosa in molti loro parrocchiani (…) I cattolici olandesi si sono trovati senza difese contro l’individualismo che iniziava a emergere negli anni Sessanta. La gente voleva adattare Dio e la chiesa ai propri desideri e alle proprie idee”. E’ la tentazione, sempre presente, del cristianesimo-fai-da-te, con la messa domenicale ridotta a puro rito, appuntamento settimanale di routine da incastrare tra le mille e più attività che segnano la giornata e con la corsa sfrenata a comunicarsi quasi fosse il biglietto del tram da convalidare prima che salga il controllore. Manca solo la tessera del buon cristiano da esibire assieme a quella del supermercato o a quella dell’hobby prediletto. Non può durare, così, perché è solo forma. La chiesa, diceva Borghesi, non è stata in grado di capire che qualcosa di grosso – come mai prima d’ora – stava cambiando: la trasmissione della fede non era più qualcosa di così scontato e naturale. Charles Péguy l’aveva scritto nel Dialogo della storia e dell’anima carnale: “Per la prima volta, per la prima volta dopo Gesù, abbiamo visto, sotto i nostri occhi, abbiamo visto sorgere un mondo nuovo, se non una città; una società nuova formarsi, se non una città; la società moderna, il mondo moderno; un mondo, una società costituirsi, o almeno assemblarsi, (nascere e) crescere, dopo Gesù, senza Gesù”. Era il 1912. “In queste parole si trova una definizione della modernità” , ha commentato il filosofo Fabrice Hadjadj: “La modernità è un tempo che si situa dopo la venuta di Gesù” , e “la modernità rappresenta una società senza Gesù”. Il problema è che per Péguy, la modernità è riuscita a costituirsi senza Gesù “e quindi possiamo dire che l’assenza di Dio e di redenzione costituisce la sua ipotesi di lavoro”. E quali sono i criteri essenziali per la modernità? Sono, stando ad Hajadj, “l’efficienza, la performance, il progresso”. E’, dice Péguy, un mondo prospero, che sta bene. E’ la prima volta nella storia che esiste una società senza Gesù dopo Gesù e questa società sta bene. E questo è il risultato della “più grande eresia”, l’aver negato “quell’incontro meraviglioso, unico, del temporale nell’eterno, e reciprocamente dell’eterno nel temporale, del divino nell’umano e mutualmente dell’umano nel divino”.

Un declino iniziato ben prima del Concilio e che è andato di pari passo con il radicale cambiamento della società umana occidentale e che ha avuto nel 1968 il suo culmine, il colpo fatale o – se si vuole – l’alito di vento che ha fatto crollare il castello senza neanche troppa fatica. Il seguito è stato pura conservazione: parrocchie fortunate andate a parroci dinamici, altre destinate a morire venendo meno le forze che le tengono in vita. Giovanni Paolo II ha scommesso, vincendo, sui movimenti ecclesiali, che restano però isole nel grande mare. E’ in questo contesto che si moltiplicano le iniziative e le idee per rianimare un corpo acciaccato. Il problema è che spesso le soluzioni proposte sono paragonabili a quelle utilizzate da tecnici per tenere in piedi aziende in pre fallimento. Lo si vede bene nell’Europa centrale e in particolare in Germania, con il Sinodo biennale ormai avviato che punta a svoltare portando le donne a celebrare sull’altare, a rendere facoltativo il celibato sacerdotale e ad ammiccare al mondo che no a ieri vedeva la Chiesa come un residuato dell’antico regime con il suo impianto di norme morali severe e ormai inopportune se non incomprensibili. Non si tratta, relativamente al caso tedesco, di dibattiti interni alle burocrazie episcopali o a temi buoni per le dissertazioni di qualche teologo (maschio o femmina che sia, visto che lo scontro, qui, si è infiammato al punto che secondo la teologa Johanna Rahner i vescovi che si oppongono al sacerdozio femminile sono “razzisti”). No, il dibattito tocca anche la vita del popolo fedele. Il prossimo 10 maggio, in risposta alla Nota della congregazione per la Dottrina della fede che ha ribadito l’impossibilità di benedire le unioni gay in chiesa, decine di sacerdoti in Germania benediranno pubblicamente “centinaia di coppie omosessuali” perché “la benedizione di Dio non può essere negata a nessuno” , e pazienza se il Papa ha detto che non si può fare e la Conferenza episcopale locale, che pure è d’accordo, ha preso le distanze – “non è la soluzione” , ha detto il presidente e vescovo di Limburgo, mons. Georg Bätzing, che pure aveva fatto aggiornare con i colori dell’arcobaleno il logo diocesano in dissenso dal responsum dell’ex Sant’Uffizio.

E’ la tentazione della scorciatoia, ammiccante al mondo e molto politicamente corretta, che prevale sempre di più. Niente di inaudito, sia chiaro, Solovev l’aveva profetizzato più d’un secolo fa. Diceva a tal proposito il cardinale Giacomo Biffi: “Il cristianesimo ridotto a pura azione umanitaria nei vari campi dell’assistenza, della solidarietà, del filantropismo, della cultura; il messaggio evangelico identificato nell’impegno al dialogo tra i popoli e le religioni, nella ricerca del benessere e del progresso, nell’esortazione a rispettare la natura; la Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità, scambiata per un’organizzazione benefica, estetica, socializzatrice: questa è l’insidia mortale che oggi va profilandosi per la famiglia dei redenti dal sangue di Cristo”. Una tentazione contro la quale Francesco aveva messo in guardia già nell’estate di due anni fa, quando – preoccupato – aveva scritto al popolo di Dio in cammino in Germania. Scriveva il Pontefice che “gli interrogativi presenti, come pure le risposte che diamo, esigono, affinché ne possa derivare un sano aggiornamento, una lunga fermentazione della vita e la collaborazione di tutto un popolo per anni. Ciò porta a generare e mettere in atto processi che ci costruiscano come popolo di Dio, più che la ricerca di risultati immediati che generino conseguenze rapide e mediatiche, ma effimere per mancanza di maturazione o perché non rispondono alla vocazione alla quale siamo chiamati”. Ecco il punto, la vocazione. Qual è l’idea di Chiesa che anima i tentativi di renderla viva? Cos’è rimasto di quell’ethos di cui si parlava prima? Poco, verrebbe da dire. Soprattutto se tutto diventa relativo, se la messa la si può seguire bene anche a casa sul divano – lascito a quanto pare molto diffuso del lockdown del 2020 –, se il rapporto con Dio diventa personale e non necessitante più di mediazioni altre. Se basta poco, proprio come accaduto cinquant’anni fa, per spegnere o ridurre sensibilmente la fiammella della fede. Ha detto nei giorni scorsi il vescovo di Anversa, mons. Johann Bonny – favorevole a rivoluzionare l’impianto dottrinale e pastorale della Chiesa in fatto di morale, come dimostra la sua richiesta di archiviare il dettato dell’enciclica Humanae vitae di Paolo VI – che settecento persone, per lo più giovani, hanno abbandonato la Chiesa dopo la risposta del Vaticano contro la benedizione delle coppie omosessuali. Mons. Bonny ha aggiunto che il numero potrebbe essere più alto, raggiungendo quota duemila, in tutte le diocesi fiamminghe. Se basta una Nota di un ufficio curiale a produrre l’uscita dalla Chiesa di migliaia di persone, significa non solo che la tentazione ha prevalso, ma che anche il meccanismo di trasmissione della fede si è inceppato. Chissà quanto irrimediabilmente.

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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