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Beethoven, i libri, un dialogo continuo, ricordo di don Giussani

  • Data 16 Ottobre 2022

di Eugenio Borgna

da Il Foglio – 14 ottobre 2022

https://www.ilfoglio.it/cultura/2022/10/14/news/beethoven-i-libri-un-dialogo-senza-fine-in-ricordo-di-don-giussani-4545125/

Dalla mia memoria interiore, così la definisce sant’Agostino nel suo splendido libro, Le confessioni, che tutti dovremmo leggere e rileggere, rinascono luminosi i miei ricordi di don Luigi Giussani, che hanno dato un senso alla mia vita. A Novara, sono stato il direttore di un ospedale psichiatrico, e poi, dal 1978, l’anno della sua chiusura, il direttore di un reparto di psichiatria, collocato all’interno dell’ospedale civile della città. Questo mi ha consentito di avere, come assistenti, alcuni giovani medici, che si specializzavano in psichiatria alla Università di Milano, e venivano a lavorare da noi a Novara. La vita è imprevedibile nei suoi svolgimenti: alcuni di questi giovani assistenti facevano parte di Comunione e liberazione, e mi hanno fatto incontrare don Luigi Giussani. Ne ho un ricordo vivo, e nitidissimo: le sue parole, il suo sorriso, la sua attenzione e la sua tenerezza, la sua testimonianza di un ascolto dell’anima e di una luminosa speranza contro ogni speranza, come la definisce san Paolo, continuano a rivivere nella mia memoria e nel mio cuore.

Il mio primo incontro è stato questo, ne sono seguiti altri, e in particolare quello che ho avuto a Corvara in Badia qualche tempo dopo. Nulla ho dimenticato di quella lontanissima radiosa giornata: la musica, la quinta sinfonia di Beethoven, apriva e accompagnava lo snodarsi dell’incontro in una sala immensa, ricolma di giovani, e non più giovani, affascinati e commossi dalle parole di indicibile bellezza spirituale di don Giussani. Ci sono stati altri incontri, nutriti della sua straordinaria ricchezza umana e cristiana, che ogni volta lasciavano nel mio cuore scie indelebili di emozioni, e di commozioni. La mia vita spirituale è cambiata dal giorno in cui ho potuto conoscerne la sua testimonianza così vasta e così palpitante di ascolto e di accoglienza. Una delle sue parole, la loro eco continua a risuonare nella mia memoria, è stata quella che la vita di ogni giorno, e quella della nostra preghiera, non possono mai se non essere comunione che unisce la nostra fede e la nostra speranza a quelle delle persone giovani, e delle persone non più giovani, con cui ci incontriamo in vita. Non rimanere mai prigionieri della nostra vita spirituale, ma essere aperti nella speranza alla comunione e alla trascendenza,

La cultura, le parole, che la animavano, la luce della fede e della speranza, si associavano alla sua intelligenza e alla sua gentilezza, alla sua generosità e alla sua fierezza, alla sua carità e alla sua testimonianza di preghiera e di verità. Sono qualità umane, trasfigurate dalla luce della Grazia, che le rendeva ancora più splendenti, immergendomi negli sconfinati orizzonti della interiorità: della sua e della mia interiorità: là dove, come dice ancora sant’agostino, abita la verità.

La sua capacità di ascolto era straordinaria, animata dalle parole e dai gesti, dal sorriso e dalla accoglienza, che sapeva donare alle espressioni della gioia e della sofferenza: a quelle degli altri, e alla sua. Ma, anche quando la malattia è scesa sulla sua vita, nulla è cambiato nel suo modo di ascoltare, di partecipare al dolore degli altri, dimenticando il suo dolore, e testimoniando senza fine di un modo solo suo di essere nella preghiera, nella luce dello sguardo e nel silenzio presago del cuore, nella accoglienza mistica della sofferenza. La sua vita si confrontava con la sofferenza sulla scia di una luminosa e indicibile testimonianza di fede e di speranza, di carità e di donazione di sé, che davano un senso al vivere, e al morire.

La sua presenza radiosa e indelebile mi ha accompagnato nel cammino della mia vita, e continua a fare parte della mia memoria, e della mia preghiera. Non potrei non dire ancora come ogni nostro incontro si svolgeva in un clima di ascolto e di attenzione, della attenzione che Simone Weil diceva essere preghiera, allargando il mio cuore alla speranza. Da ogni incontro, potrei ricordarne il tempo e i luoghi, si usciva interiormente rianimati, e più sereni, così da vivere con più coraggio, e con più fiducia, anche nelle notti oscure dell’anima: come le chiamava san Giovanni della Croce.

A queste mie esperienze di vita interiore non potrei non aggiungere la importanza della lettura dei libri di don Giussani, nei quali le sue straordinarie doti umane e cristiane si intrecciano alle sue conoscenze teologiche e filosofiche, letterarie e psicologiche, ridestando nell’anima arcane meditazioni, che continuano nel silenzio, e nella preghiera, a dare un senso ad ogni sua parola ascoltata, o letta. Le parole sono creature viventi, e in Comunione e liberazione ci sono i germi di ogni forma di vita, che voglia trascendere i confini del nostro io, estendendoli alla interiorità, che è in noi, e liberandoci dalle prigioni dell’egoismo, e della chiusura in noi stessi. Solo così la nostra vita si realizza alla luce di quella che è stata la testimonianza profetica di don Giussani.

Gli anni scorrono velocissimi e nondimeno la presenza di don Giussani, le sue parole e i suoi sguardi, che mi accoglievano con dolcezza e con indicibile speranza, continuano a risplendere nel mio cuore, e nella mia preghiera. Non potrei concludere queste mie fragili considerazioni sul mio dialogo senza fine con don Giussani, senza ricordare la mirabile testimonianza di luce interiore e di speranza nel tempo delle sofferenze che lo hanno accompagnato negli ultimi anni della sua vita. Il mio dolore, il nostro dolore, la mia angoscia, e la nostra angoscia, erano nel nostro cuore, ma non venivano mai meno le parole, le sue parole, il suo sorriso, e la sua preghiera, che fanno parte della mia vita, e non si cancelleranno mai, rinascendo nelle ore serene dell’anima, e in quelle incrinate dal dolore, e dalle inquietudini dell’anima, ma sempre rischiarate dalla speranza.

Tag:Don Giussani

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
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«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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