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Una scuola del merito… di chi insegna

  • Data 13 Novembre 2022

di Daniela Notarbartolo e Giorgio Vittadini

da ilsussidiario.net del 4 novembre 2022 

Nel dibattito di questi giorni sul tema del merito è emersa una certa ambiguità sul suo significato: se esso sia la conferma di un privilegio che si ha per nascita, e quindi strumento di perpetuazione delle disuguaglianze, o sia il risultato di un percorso che la scuola fa fare accompagnando lo studente verso la sua crescita e il miglioramento delle sue conoscenze e capacità, diventando così lo strumento fondamentale di ascensore sociale. Nella seconda accezione, il centro è il percorso che lo studente intraprende e che viene offerto dalla scuola perché possano essere coltivati e fatti fruttare i talenti di tutti, anche dei meno dotati o in condizione di partenza più critiche. In questo senso è evidente che chi parte da una condizione svantaggiata (per esempio, parla solo dialetto oppure, come accade attualmente, conosce solo 2000 parole) deve fare un percorso più arduo di chi parte da una condizione di vantaggio (per esempio, in famiglia sente parlare un buon italiano). Il problema appunto è il percorso che ciascuno è chiamato a fare: il che si fonda su due presupposti.

Il primo è che il percorso sia efficace: che ci siano cioè delle metodologie didattiche, un’impostazione della lezione, più semplicemente dei manuali scolastici, dei tipi di esercizio, delle attività, che siano in grado di produrre un miglioramento. Da questo punto di vista è assurdo continuare a prendersela con i test “Invalsi” o “PISA”, come fossero l’origine del male, mentre il loro scopo è di essere un termometro, non la soluzione al problema.

Purtroppo, a furia di attaccare gli strumenti di diagnosi, ci si dimentica di riflettere su quali soluzioni potrebbero essere messe in campo. Il fatto è che non basta proporre metodologie innovative, occorre interrogarsi sul cuore del sistema-scuola: gli insegnanti. Un insegnante efficace è colui che riesce a coinvolgere i suoi allievi ma anche a “spezzare il pane della conoscenza”, a dare feedback e valutazioni utili a proseguire la strada, a sostenere l’autostima e molto altro ancora.

Ci sono delle domande che riguardano la prassi scolastica e che emergono anche dai cambiamenti di mentalità di questi anni: la logica con cui si lavora sulle materie è ancora adeguata? Gli esercizi ripetitivi servono? Quali risultati danno pratiche consolidate, come per esempio l’insistenza sulla narratologia in italiano? Si sta mettendo in discussione la tendenza alla semplificazione dei manuali, che porta spesso a veri e propri errori concettuali? Come si tiene conto delle competenze non solo cognitive degli studenti? Si sta riflettendo su come risolvere i problemi di organizzazione rigida della scuola che crea orari frammentati, discontinuità, discriminazioni fra gli insegnanti stessi?

Il secondo presupposto è accettare il fatto che questo percorso non venga compiuto da tutti nello stesso modo. Ogni giovane deve arrivare alla propria eccellenza che è fatta da un mix di conoscenze e competenze teoriche e pratiche che devono esprimere e far crescere la singola personalità. Non tutti desiderano diventare quadri e dirigenti. Tanti trovano soddisfazione nel diventare sarti creativi nella moda, formaggiai esperti in slow food, tecnici che lavorano alla Ferrari, esperti di legnami e design che collaborano alla filiera del mobile e dell’arredamento, operai specializzati che, come i forbiciai di Premana in provincia di Lecco, partecipano a un’eccellenza nella produzione mondiale. In tutti i casi, anche chi fa un lavoro umile con dignità e senso di responsabilità non è da meno del presidente del Consiglio. Dopo aver cercato di fare di tutti gli italiani dei liceali centrati sulla cultura generalista, ci siamo accorti che gli istituti tecnici di una volta erano il meglio in termini di dignità del lavoro (producevano fior di specializzati) e in termini di sostegno all’economia (la spina dorsale di un Paese come il nostro è la produzione d’eccellenza). L’eccellenza va quindi coltivata attraverso percorsi di studio validi e mirati, che valorizzino la vocazione di ciascuno. La soluzione va cercata ancora nei percorsi didattici: più efficaci e differenziati.

Sarebbe tutto più facile se invece di affrontare tutto in modo teorico e dall’alto in basso si imparasse dall’esperienza: non mancano nella scuola tanti professori seri, stimati, amati, capaci di impegnare gli studenti e così lasciando a loro qualcosa di prezioso. Bisogna far conoscere queste esperienze e diffonderle.

Invece che giocare sull’ambiguità che suscita la parola merito, bisognerebbe tornare a parlare di come migliorare la qualità dell’insegnamento adeguandolo alla realtà di ieri (che non bisogna smettere di conoscere), di oggi e di domani.


Per approfondire 

Sul tema della scuola e del merito come approfondimento e contributo al dibattito segnaliamo anche i seguenti interventi di Ernesto Galli della Loggia, Angelo Panebianco e Paolo Giordano pubblicati nelle ultime settimane sul Corriere delle Sera

Ernesto Galli della Loggia https://www.corriere.it/editoriali/22_ottobre_26/scuola-svalutatae-merito-riscoprire-5b52d8d8-555c-11ed-9aa3-c0d791a13b03.shtml

Angelo Panebianco https://www.corriere.it/editoriali/22_ottobre_30/quel-silenzio-0b29b5ee-588a-11ed-9e79-0ca6cc80307a.shtml

Paolo Giordano https://www.corriere.it/opinioni/22_novembre_01/complessita-scuola-miraggi-merito-4361731e-5a0d-11ed-943f-15ed1af1dab5.shtml

Tag:merito, scuola

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piergiorgio

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In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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