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La gioia di vivere e il dispotismo dell’intrattenimento

  • Data 15 Gennaio 2023

Conversazione radiofonica alla BBC di Gilbert Keith Chesterton
Mercoledì 31 gennaio 1934 – dal libro Radio Chesterton (ed. Rubbettino)

VI STUPIRÒ FACENDOVI VEDERE quanto posso assomigliare al diavolo, visto che ho solo quindici minuti per parlarvi di quel che è successo in sette giorni e sono molto in collera perché ho così poco tempo. Ovviamente ci sono svariati modi di proporre un’analisi della settimana, anzi a dire il vero ci sono due modi. Potrei fare quella che si definisce una carrellata degli eventi pubblici, che significa fare un’analisi dei pochissimi eventi che sono stati resi pubblici. In altre parole, potrei parlarvi di ciò che avete già letto sui giornali, perché c’è ancora l’abitudine di pubblicare sui giornali eventi sociali del tutto insignificanti. Ma sarebbe molto più divertente raccontarvi le cose che non compaiono sui giornali. (…)
Stando così le cose, potrei solo dirvi ciò che voi avete già letto e dimenticato; l’alternativa altrettanto ovvia sarebbe che vi descrivessi quel che è accaduto a me questa settimana, e che io stesso ho già dimenticato. Resta qualche vago ricordo, che riuscirei a proporvi in un modo che suonerebbe vivace, grazie a una ricostruzione tendenziosa. Ad esempio, sarebbe assolutamente verosimile dire che ho trascorso quasi tutta la scorsa domenica, dopo essere andato a messa, a fare piani e preparativi per un omicidio. In realtà, si trattava di duplice omicidio ed entrambe le vittime erano milionari; sono profondamente addolorato nel comunicarvi che quei piani non sono stati messi in pratica. Non era, infatti, un omicidio vero e proprio, ma un subdolo, confuso e ipotetico omicidio immaginato come trama di una storia poliziesca per una rivista. Nel complesso, penso che un diario delle mie giornate sarebbe molto noioso da leggere e da scrivere, e probabilmente è il motivo per cui non l’ho mai scritto.

Ora, però, vi chiedo di prestarmi attenzione per considerare un terzo aspetto della questione, che non ha niente a che vedere con quella rumorosa sciocchezza che chiamiamo «vita pubblica», o con quella pigra sciocchezza che solitamente intendiamo quando pensiamo alla vita privata. Questo terzo aspetto non riguarda né la vita pubblica né quella privata, ma la Vita. E mi pare che la Vita sia l’unica a cosa a cui gli uomini moderni non pensano mai in tutta la loro vita. Mi è stato chiesto di analizzare cos’è accaduto in questi sette giorni. Ad alcuni tra i più vecchi di voi è stato detto, molto tempo fa, che il mondo fu creato in sei giorni. E oggi alla maggior parte voi viene detto che la scienza moderna contraddice quella storia; un’affermazione che è senz’altro molto più simile a una bugia dell’affermazione che vuole contraddire. Dimostra anche che ciò che questa gente definisce «scienza moderna» è una cosa molto moderna. La scienza antica, la scienza di epoca vittoriana dei giorni di Charles Darwin, sosteneva quella bizzarra intuizione in base a cui tutto è credibile se avviene molto lentamente. Che è come dire che si può credere all’ippogrifo, a patto che a un cavallo sia cresciuta una piuma alla volta; o che si può credere all’unicorno, solo se il corno non salta fuori all’improvviso, ma comincia a svilupparsi come un piccolo brufolo. Ma, qualsiasi cosa sia, questa non è scienza moderna. La vera scienza moderna, la nuova scienza, per quel che può valere, tende sempre più ad avvicinarsi alla visione mistica di un disegno matematico, che potrebbe benissimo essere fuori dal tempo. In base alle ultime teorie scientifiche, il cosmo sarebbe potuto nascere in sei giorni, o in sei secondi, o più probabilmente in meno sei secondi o forse nella radice quadrata di meno sei secondi. Io però non voglio mettermi a insistere sulla verità letterale dei sei giorni, perché la mia fede non lo richiede e qui non sto parlando della fede di nessuno. Voglio parlare delle grandi idee che quel simbolo suggerisce, ovvero il fatto che il potere creativo è stato tale per sei giorni e il settimo è stato contemplativo. Perché il vero fine di tutta la creazione è il compimento, e il vero fine del compimento è la contemplazione. Dio mi guardi dal mettermi a parlare di teologia in un mondo attualmente tutt’altro che illuminato. Ma perché i moderni hanno mandato alle ortiche anche la maestà della mitologia? Consideriamo pure la storia della Genesi come un mito, ma trattiamola al modo in cui la gente acculturata tratta gli altri miti! Quando leggiamo che il titano Prometeo rubò il fuoco alle divinità celesti per donarlo all’umanità, non intendiamo che un gigante è stato un ladro che ha rubato una scatola di fiammiferi a Giove sul monte Olimpo. Quando leggiamo che la terra intera precipitò in un inverno di dolore perché la dea Terra perse sua figlia, non intendiamo che quei superstiziosi dei greci credevano che una vecchia strega potesse far appassire il grano.

Comprendiamo il senso dietro queste grandi allegorie naturali, e perché allora ci sfugge la grandezza dell’idea che c’è dietro l’immagine della settimana, che diventa una cosa meravigliosa e mistica, in cui l’uomo imita Dio nella sua opera e nel suo riposo? Voglio dirvi qualcosa che è la più difficile da esprimere a parole, qualcosa che è più privato della vita privata. È il fatto che siamo vivi, e che la vita è la cosa di gran lunga più stupefacente di qualsiasi gioia o sofferenza che può capitarci durante la vita. Cos’è davvero successo negli ultimi sette giorni e notti? Per sette volte ci siamo dissolti nel buio, come quando ci dissolveremo nella polvere; il nostro stesso essere, per quanto ne sappiamo, è stato spazzato via dal mondo delle cose viventi, e per sette volte ci siamo risvegliati vivi come Lazzaro, ritrovando tutte le nostre membra e i sensi inalterati allo spuntar del giorno. Il semplice fatto del sonno è quasi il perfetto esempio di ciò a cui mi riferisco. È qualcosa di gran lunga più sensazionale di tutti i fatti e le bugie che leggiamo sui giornali. È qualcosa di gran lunga più sensazionale di ogni scandaloso segreto che potrei svelare alle vostre orecchie curiose riguardo alla mia vita privata. Se cercate eventi davvero importanti, come quelli di cui si suppone che il giornalismo si occupi, ecco: sono quelli che vi ho appena detto. Se volete sapere le ultime novità, vi dico che l’ultima novità è che la scorsa notte sono morto e che questa mattina sono miracolosamente rinato, per vostra non piccola sfortuna; perché temo che, per quanto il mio ritorno dai morti sia senz’altro una notizia, non è affatto detto che sia una buona notizia. Ciò che intende ricordarci questo susseguirsi di settimane, date, domeniche e sabati e antiche ricorrenze rituali è proprio l’enorme importanza della vita quotidiana, per come ogni individuo la vive; per il fatto che riguarda la morte e il giorno e tutta la misteriosa truppa che è l’umanità. Raccontarvi che ho fatto questa o quella sciocchezza, come ad esempio dirvi che ho tenuto una conferenza pubblica, gratificherebbe la mia vanità. Raccontarvi che certi personaggi pubblici, che controllano il nostro destino, hanno fatto questa o quella sciocchezza, accrescerebbe la mia irritazione. Ma, in entrambi i casi, si tratta di cose che non hanno molto a che fare con la mia vita e niente di tutto ciò ha a che fare con quella grande inesausta ruota di buio e luce che chiamiamo «settimana». E naturalmente adesso voi ribatterete dicendo che tutte queste chiacchiere sono estremamente vaghe e trascendentali e astratte. Rispondo, con una certa veemenza, che ciò che ho detto è in questo momento il problema di gran lunga più concreto che esista al mondo. Se non siamo capaci di riportare gli uomini a godere della vita quotidiana, che i moderni definiscono una vita noiosa, la nostra intera civiltà andrà in rovina nell’arco di quindici anni. Tutte le volte che qualcuno propone delle soluzioni pratiche per risolvere il male economico che attualmente ci stringe, la risposta è sempre che la cosa non funzionerà, perché il popolo continuerà a pensare che la vita sia noiosa. E questo accade perché tutti sono assolutamente ignari di cosa sia la vita. Non conoscono altro che distrazioni dalla vita; sogni, che possono vedere al cinema e che sono brevi momenti di dimenticanza della vita.

Non mi metterò a parlare dei vantaggi che procurerebbe questa o quella soluzione sociale, ma è vero che ciò che ho detto resta la permanente difficoltà di tutte le soluzioni sociali. (…) Un altro modo di esporre la medesima verità è dire che gli uomini moderni hanno completamente perso la gioia di vivere. Devono accontentarsi di miseri sostituti alla gioia di vivere. E anche con questi, pare che riescano a gioire sempre meno. Finché non saremo in grado di far sì che l’uomo comune provi interesse per la vita quotidiana, rimarremo sotto il dispotismo volgare di quelli che non sono capaci di interessarli, ma se non altro li intrattengono. Se non saremo in grado di rendere interessanti per gli uomini l’alba, il pane e i segreti creativi del lavoro, piomberà su tutta la nostra civiltà un affaticamento che è l’unica malattia da cui le civiltà non guariscono. Così morì la grande civiltà pagana: tra cibo e circhi e dimenticanza dei lari domestici. Dunque, qualunque cosa scegliate di fare, non beffatevi del libro della Genesi.

Sarebbe molto meglio per voi, sarebbe molto meglio per tutti noi, se rimanessimo così legati al libro della Genesi da considerare la settimana come una serie di azioni simboliche, che ci ricordano i passi della creazione. Sarebbe molto meglio se ogni lunedì, anziché essere un lunedì nero, fosse un lunedì luminoso, per celebrare la creazione della luce. Sarebbe molto meglio se il martedì, parola che attualmente suona molto scialba, rappresentasse un tripudio di fontane, fiumi e ruscelli scroscianti, perché fu il giorno della divisione delle acque. Sarebbe bello se ogni mercoledì fosse l’occasione di appendere in casa rami verdi e fiori, perché queste cose spuntarono nel terzo giorno della creazione; o se il giovedì fosse consacrato al sole e alla luna e il venerdì consacrato ai pesci e ai polli, e così via. Allora cominceremmo a intuire l’importanza della settimana e quali grandi cose una civiltà dalla grande immaginazione potrebbe fare in una settimana. Se avessimo la capacità creativa di allestire una simile festa settimanale della creazione, non c’interesserebbe andare al cinema.

Tag:Chesterton

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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