All’educazione non basta un ragazzo «spezzettato»
di Graziano Tarantini
presidente Fondazione San Benedetto
dal Giornale di Brescia – 16 aprile 2023
Condivido pienamente quanto ha scritto don Fabio Corazzina nei giorni scorsi a proposito della questione educativa e della condizione dei nostri adolescenti. Le sue non sono parole scontate, si percepisce che vengono da esperienze vissute sul campo e sono quindi da prendere sul serio. Leggerle mi spinge ad alcune osservazioni che partono esclusivamente dalla mia esperienza personale. Ho imparato da don Giussani che l’educazione è l’introduzione alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori. E proprio qui sta la questione cruciale. Dopo gli anni della pandemia si è infatti accentuata la tendenza a guardare ai giovani riducendoli anzitutto a una serie di problemi, come sottolinea anche don Fabio nel suo intervento. Che si tratti di sicurezza, di disagio psicologico, di rapporto difficile con la scuola, di dipendenza dai social, ecco belle e pronte le analisi degli esperti che ci spiegano la situazione e le relative ricette da applicare. Credo invece che la prima cosa da ribaltare sia proprio questo approccio che «spezzetta» la personalità dei ragazzi a secondo dei problemi emergenti o dei contesti in cui ci si trova (la scuola, il tempo libero, la relazione con gli adulti, ecc.), anziché avere il coraggio di guardarli almeno una volta negli occhi per quello che sono: persone con desideri e attese che non accettano di essere ridotte o incasellate dentro uno schema funzionale. Un sintomo su tutti di questo approccio da cambiare è il successo scolastico che serve il più delle volte solo ad alimentare l’orgoglio dei genitori.
Mi hanno sempre colpito le osservazioni di Edgar Morin sul tema dell’educazione e, in particolare, sul rischio di «parcellizzare» la persona. «L’intelligenza che sa solo separare – sottolinea – spezza il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi». In questo modo l’adolescenza diventa quasi una condizione patologica da affrontare, a secondo dei casi, con il ricorso allo psicologo (ormai invocato in qualunque situazione) piuttosto che alle forze dell’ordine quando le cose degenerano. Oggi, per esempio, dopo averlo ignorato per tanto tempo, si parla molto di calo demografico, ma questo non è forse prima di tutto un sintomo grave, per alcuni irreversibile, dell’aver illuso i giovani che da soli si vive meglio?
Va perciò cambiato il punto di vista con cui gli adulti, a cominciare dai genitori, guardano ai ragazzi, consapevoli che l’educazione è un processo molto lungo che richiede tempo e fatica, che coinvolge l’insieme della persona e non solo alcuni ambiti del vivere. Il vero lavoro è accompagnare i più giovani alla scoperta del senso della vita e a lasciarsi sorprendere dalla realtà che è sempre più grande di ogni nostra programmazione e dei nostri progetti. Sottoscrivo quanto ha detto Natalia Ginzburg: «Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore per la vita. Esso può prendere diverse forme, e a volte un ragazzo svogliato, solitario e schivo non è senza amore per la vita, né oppresso dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato di attesa, intento a preparare se stesso alla propria vocazione. E che cos’è la vocazione di un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita? Noi dobbiamo allora aspettare, accanto a lui, che la sua vocazione si svegli, e prenda corpo».
In questo percorso ai ragazzi serve poter avere accanto a loro testimoni che non impartiscono regole o fanno analisi, ma che incarnano nel loro modo di essere un gusto della vita che diventa di per sé attrattivo prima ancora di ogni parola o discorso. Diceva Pasolini, sulla scorta della sua esperienza di maestro, che «può educare solo chi sa cosa significa amare». Ecco se manca questo l’educazione diventa solo una scatola vuota dalla quale è inutile pretendere risposte che non potrà mai dare.
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