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Feltri: «Ecco perché vale la pena ascoltare don Giussani»

  • Data 7 Maggio 2023

di Vittorio Feltri

da Libero – 30 aprile 2023

https://www.liberoquotidiano.it/news/piulibero/35667708/vittorio-feltri-don-giussani-risorto-perche-vale-pena-ascoltarlo.html


Torna in libreria, in una nuova edizione, il libro di don Luigi Giussani
(1922-2005) più famoso: Il senso religioso (Rizzoli, pagine 220, euro 10). Un successo durevole e internazionale: è stato tradotto in quasi tutte le lingue del globo, superato, per numero di stampe in vernacoli forestieri, appena da Giovannino Guareschi. Al quale il prete brianzolo sarebbe di sicuro piaciuto molto. Non che “il Gius”- com’era chiamato sin dal seminario e ancor oggi è noto tra i suoi figli spirituali sparsi in 80 Paesi del mondo – abbia i tratti fisici e caratteriali del don Camillo che nei racconti guareschiani era dotato di pugni marmorei e oliava mitragliatrici sotto la canonica, ma il tipo di fede sì, è quella lì, padana, terragna, per nulla bigotta né moralista. Don Luigi da Desio (Brianza) la viveva alla maniera del parroco di Brescello come rapporto personale con Dio, dialogo continuo con un Gesù molto inchiodato alla Croce, e soprattutto molto risorto: e non in divisa evanescente di fantasma, ma “presente qui e ora”. Nessuno spiritualismo svolazzante, ma guardava Dio negli occhi: “Tu, o Cristo, vita della mia vita”.

Viveva in una pace inquieta: un paradosso esistenziale che caratterizza i grandi dell’umanità, credenti o no. Da quello che ho letto e ascoltato di quest’uomo (uso la parola con cognizione preferendola a sacerdote: egli raccomandava ai preti di essere innanzitutto uomini per essere buoni preti) don Giussani era rasserenato dalla certezza di essere amato e voluto dal Creatore “ricco di misericordia” che ogni istante ci sottrae al nulla; eppure non sopportava l’idea ci fossero al mondo persone che non avessero avuto l’occasione di incontrare Dio che non si accontenta di esistere, come termine di un ragionamento filosofico, ma si fa amico, uno che dà la vita per te, trova sempre argomenti di difesa anche per il più brutale traditore.

INSEGNANTE AL LICEO

Non ha fatto carriera ecclesiastica, don Gius. Coltissimo, geniale, come compresero i suoi insegnanti che volevano studiasse e insegnasse teologia in seminario, facendo la spola tra biblioteca, sacrestia e stanze del vescovo, scelse di essere modesto prof di religione al liceo Berchet, il gotha degli istituti milanesi. Giganteggiò. Gli studenti in gran parte invasati di laicismo e marxismo, che accettavano come dogmi indiscutibili, furono sfidati da questo pretino smilzo non sul tema della fede ma su quello della ragione. Insegnava loro il metodo razionale (metodo etimologicamente vuol dire “strada”) per rispondere alle domande inesorabili per ciascuno di noi, e vivissime nella giovinezza, sul significato della vita. Lui chiamava biblicamente “cuore” o, appunto, “senso religioso”, i desideri profondi di bellezza, giustizia, verità, amore, felicità che cinicamente tendiamo a ridurre a faccende adolescenziali, e invece non andrebbero mai seppellite se si vuole restare uomini vivi e non mummie. A queste esigenze don Giussani non appiccica la fede come risposta sentimentale, con aggiunta di dogmi e di morale, poi tutti a messa. La prefazione di questo libro è di papa Bergoglio, che studiò questo volume quand’era vescovo. Scrive: «Il senso religioso non è un libro a uso esclusivo di coloro che fanno parte del movimento di Comunione e Liberazione; neppure è solo per i cristiani o per i credenti. È un libro per tutti gli uomini che prendono sul serio la propria umanità. Oso dire che oggi la questione che dobbiamo maggiormente affrontare non è tanto il problema di Dio – l’esistenza di Dio, la conoscenza di Dio -, ma il problema dell’uomo, la conoscenza dell’uomo e il trovare nell’uomo stesso l’impronta che Dio vi ha lasciato perché egli possa incontrarsi con Lui». Citato il Papa, mi taccio sui contenuti del volume. E aggiungo la mia trascurabile testimonianza.

DUE RIFLESSIONI

Quando sento il nome di questo sacerdote lombardo penso subito due cose: 1) era uomo di un’altra categoria, a prescindere da talare o clergyman; 2) se non ci fossero stati i ragazzi e le ragazze della “sua” Comunione e Liberazione a resistere, talvolta immolandosi, al dominio comunista nelle università e nelle scuole durante gli anni ‘70, la storia d’Italia si sarebbe tinta di rosso tenebra. È una constatazione da cronista. Nei giornali la divisa era l’eskimo, e le redazioni pretendevano che lo indossassero tutti i lettori. Fui tra i primi a scrivere sul Corriere della Sera difendendo questi strani cattolici, che li trovavo somiglianti a un mio collega, Walter Tobagi, e non mi stupii che insieme a don Giussani accogliessero come maestro Giovanni Testori, il quale davanti al prete di Desio si sentiva un pulcino che desiderava soltanto di mettersi sotto le sue ali tenere e rocciose. A me non è capitato di inchinarmi alla fede. Non me ne vanto. Ho avuto sin dall’infanzia dimestichezza con i preti. Meno con Dio. Non ho ancora deciso se sia colpa Sua o mia.

Tag:Don Giussani, Senso religioso

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
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«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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