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Don Milani oltre i luoghi comuni

  • Data 10 Giugno 2023

di Antonio Socci 

da Libero – 5 giugno 2023

 

Spesso don Lorenzo Milani dovette difendersi da coloro – in genere laici e di sinistra – che volevano mettergli la loro casacca, tirarlo dalla propria parte e magari strumentalizzarlo contro la Chiesa. La rappresentazione di don Milani ad uso e consumo dei progressisti è continuata dopo la sua morte, avvenuta nel 1967, specialmente negli anni Settanta. Era dunque prevedibile che, nel centenario della nascita (2023), si sarebbe riproposta. Fra i giornali che oggi ripetono le solite cose va segnalato L’Espresso che, nel suo ultimo numero uscito ieri, ha dedicato dodici pagine di apertura alle foto che il giovane Oliviero Toscani fece al sacerdote con i ragazzi di Barbiana. Immagini corredate dalle frasi più note e citate di don Milani. Tutto banale e scontato. Ma la cosa interessante è quella che non c’è. Infatti L’Espresso fu una testata giornalistica contro cui don Milani polemizzò duramente e – guarda caso – il settimanale, nelle sue dodici pagine su don Milani, si è dimenticato di citare proprio ciò che il prete di Barbiana diceva dell’Espresso che – ricordiamolo – fu fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari ed era a quel tempo la bandiera del laicismo di sinistra. Sfogliando il bel libro che Neera Fallaci, sorella di Oriana, dedicò al sacerdote – Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani – è possibile capire i motivi dello scontro fra il parroco di Barbiana e il potente settimanale.

LA CONVERSIONE

La Fallaci si interroga sui motivi della conversione del giovane Lorenzo e della sua immediata decisione di farsi sacerdote e ipotizza che «la conversione si sia stabilita sui sacramenti della confessione e dell’eucaristia: punto focale dello stesso suo sacerdozio». A prova di ciò riporta il contenuto di un nastro «su cui venne registrata una polemica del priore di Barbiana con gli intellettuali».

Ecco le parole di don Milani: «…per me che l’ho accettata questa Chiesa è quella che possiede i sacramenti. L’assoluzione dei peccati non me la dà mica L’Espresso. L’assoluzione dei peccati me la dà un prete. Se uno vuole il perdono dei suoi peccati si rivolge al più stupido, arretrato dei preti pur di averla. (…) E in questa religione c’è fra le tante cose, importantissimo, fondamentale, il sacramento della confessione dei peccati. Per il quale, quasi solo per quello solo, sono cattolico. Per avere continuamente il perdono dei miei peccati. Averlo e darlo. Il più piccolo litigio che io avessi con la Chiesa» proseguiva don Milani «io perdo questo potere di togliere i peccati agli altri e di farli togliere a me. E chi me lo rende questo potere? Arrigo Benedetti [fondatore dell’Espresso, ndr]? Oppure…come si chiama quello là dell’Espresso… Falconi? Me lo rende Falconi il potere di togliere i peccati agli altri e di farmeli togliere? O la comunione e la messa me la danno loro? Sicché devono rendersi conto che non sono… che loro non sono nella condizione di poter giudicare e criticare queste cose. Non sono qualificati per dare il giudizio su una cosa in cui il fondamentale è credere o no nel potere di questa Chiesa di togliere i peccati, di salvare l’anima o insegnare la Verità».

Perché questa polemica di don Lorenzo? Come si spiega? Il fatto è che il mondo laico lo lodava e lo cercava per usarlo in polemica con la Chiesa: «Don Milani» scrive la Fallaci «lo capiva benissimo e ci si arrabbiava. Per esempio si ribellava al fatto che la sinistra intellettuale lo inquadrasse nei propri ranghi: “È dei nostri!”. “Ma che dei vostri! Io sono un prete e basta!”. Nella registrazione in cui afferma di stare nella Chiesa per i sacramenti, polemizza ironico proprio con certi amici radicali: “In che cosa la penso come voi? Ma in che cosa? In qualche piccolissimo particolare esterno della vita politica e sociale”. E subito dopo: “Al primo ordine che il vescovo mi dà, se mi sospendesse eccetera, io mi arrendo immediatamente. Rinuncio subito alle mie idee. Delle mie idee non m’importa nulla. Perché io nella Chiesa ci sto per i sacramenti e non per le mie idee”». In una lettera scrive: «Ci ho messo ventidue anni per uscire dalla classe sociale che scrive e legge L’Espresso e Il Mondo. Non devo farmene ricatturare neanche per un giorno solo. Devono snobbarmi, dire che sono ingenuo e demagogo, non onorarmi come uno di loro. Perché di loro non sono».

Secondo la Fallaci «era un “predicatore di Dio” e come tale voleva essere trattato». La biografa riporta quanto gli aveva riferito Giorgio Falossi: «Quando ormai stava morendo, ho passato tante ore vicino a lui, anche da solo. E tra le molte cose belle, tristi, disperate, ironiche che diceva, ricordo un discorso: “L’unica cosa che importa è Dio. L’unico compito dell’uomo è stare ad adorare Dio. Tutto il resto è sudiciume”». Commenta la Fallaci. «Non dimentichiamo (lo dimostrano documenti e testimonianze) che tutta la sua vita di sacerdote era stata accompagnata dalla ricorrente tentazione della clausura».

Si potrebbe aggiungere un aneddoto a proposito del citato Carlo Falconi, che si occupava di Chiesa sull’Espresso e sul Mondo e che aveva scritto con ammirazione di don Milani sostenendo che «ha finalmente iniziato la rivoluzione del clero in Italia».

I SACRAMENTI

Poi, nel 1965, Falconi andò a Barbiana e lì – riferisce la Fallaci – «nacque un attrito con parecchie scintille». Infatti, davanti ai ragazzi di don Lorenzo, «Falconi si era detto disposto a parlare di tutto. Allora gli fu chiesto: “Parli del perché ha perso la fede”. Falconi, ex prete, si risentì pensando che fosse una questione privata. Si irritò ancora di più a sentir chiedere: “Perché non si è messo a far scuola invece di mettersi a scrivere sui giornali borghesi?”».

Lo scontro fu duro «perché Falconi non condivideva affatto» spiega Mario Cartoni «il giudizio di don Lorenzo sui giornali come L’Espresso. Don Lorenzo diceva che erano giornali arroganti, scritti da una élite intellettuale per una élite intellettuale».

Naturalmente il risultato fu un articolo, non benevolo, di Falconi intitolato: «Il prete amaro di Barbiana». Il giornalista – sintetizza la Fallaci – attaccava don Milani «al carretto di La Pira» e poi «arrivava il servizio di barba e capelli per il priore, etichettato disinvoltamente “comunista”».

Ma comunista don Milani non lo era per niente e non capiva il complesso di inferiorità di certi cattolici: «La dottrina del comunismo non val nulla. Una dottrina senza amore. Una dottrina che non è degna di un cuore giovane. Avesse almeno realizzazioni avvincenti. Ma nulla. Un giornale infelice, una Russia che a difenderla ci vuol coraggio. E io dovrei farmi battere da così poco?»

La verità è che don Milani resta ancora da scoprire. Infatti Giuseppe Fornari ha appena pubblicato un libro su di lui con il titolo Al prete ignoto. L’ecclesiologia implicita di don Lorenzo Milani ( Studium). Una riflessione profonda che fa capire anche l’insistenza del prete di Barbiana sulla centralità dei sacramenti, tema così insolito e assente nel “cattoprogressimo”. E così radicalmente cattolico (addirittura tridentino).

https://www.antoniosocci.com/le-parole-di-don-lorenzo-milani-sulla-sua-fede-cattolica-e-quelle-sullespresso-che-lespresso-non-ha-citato/#more-11275

Tag:Antonio Socci, don Lorenzo Milani

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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