«L’umano proprio perché fallisce ha bisogno dell’altro»
Prefetto del dicastero vaticano per l’educazione e la cultura il cardinale portoghese Tolentino de Mendonça è saggista e poeta. Della Bibbia ama le parole più forti. E di Pasolini e Rilke la lezione che l’umano, proprio perché fallisce, ha bisogno dell’altro
di Antonio Gnoli
da la Repubblica – Robinson del 1 ottobre 2023
Dopo l’incruenta rivoluzione dell’aprile del 1974, che abbatté il regime di Salazar e instaurò la prima forma di democrazia, José Tolentino de Mendonça tornò alla sua isola, a Madeira. Da lì era partito, a un anno, per l’Angola con tutta la famiglia. Ora ne aveva 12. José era tornato sognando l’altrove. Nessuno – né fratelli e sorelle né la madre né il padre – sapeva dove fosse. Lui lo scoprì nel proprio cuore. Era lì da sempre, bastava solo prestargli attenzione per capire cosa avrebbe fatto della sua vita. Oggi che è stato nominato cardinale e vive per lo più a Roma ricorda con gratitudine da dove viene e quali sono le sue radici.
Papa Francesco lo ha nominato Prefetto del Dicastero per l’educazione e la cultura. José è un raffinato poeta (una sua raccolta sta per uscire per Crocetti) e un saggista attento alla contemporaneità. Ha appena pubblicato un libro dedicato al sentimento più difficile e al tempo stesso più agognato: l’Amicizia (così il titolo del suo libro per Piemme), che lui riconduce al gesto emblematico dell’abbraccio. Vasta è la tipologia degli abbracci: quello che suggella l’amicizia è umile, non si impossessa dell’altro, lo accoglie.
Ha molti amici?
«Ho quelli che nella mia storia ho faticosamente incontrato e da essi sono stato accolto. Un detto inglese dice: “vivere senza amici equivale a morire senza testimoni”. Non sono sicuro che si possa definire l’amicizia in modo soddisfacente, ma so che viverla contribuisce alla costruzione etica di noi stessi. Fin dall’infanzia l’amicizia si rende disponibile. Sta a noi riceverla come uno dei doni più belli».
La sua infanzia come è stata?
«Subito dopo la mia nascita la mia famiglia emigrò in Angola, quando ancora era una colonia portoghese. Ricordo le ampie distese, lo spazio a perdita d’occhio, le strade polverose. E il mare. Avevo cinque o sei anni quando mio padre, pescatore, mi portò per la prima volta in barca. Fui rapito dal colore dei fondali, dal profilo della costa, dal grande che si ritrova nel piccolo, in ciò che è trascurabile. Ma l’infanzia fu per me soprattutto la voce rivissuta nelle parole di mia nonna».
Perché lei?
«Mi narrava meravigliosamente alcuni romanzi che aveva appreso da voci altrui e che mi dischiusero la bellezza della letteratura. Non sapevo allora che una commozione altrettanto profonda l’avrei provata davanti a una signora che mi recitò a memoria il Cantico dei cantici ».
Un libro molto particolare rispetto al resto della Bibbia.
«Si staglia come una gemma insolita. La prima volta che ne udii le parole fu grazie a questa donna che prestava i suoi lavori in chiesa. Conosceva a memoria quei versi, sebbene non sapesse che appartenevano al Cantico. Era una donna semplice. Con candore confessò di non saper leggere e che aveva amato il Cantico attraverso altre voci. Fu per me un momento di straordinaria commozione».
So che ha tradotto il Cantico in portoghese.
«Avevo imparato l’ebraico, e dove mettere alla prova quella lingua antica se non nel libro che si apriva alla potenza della visione poetica? Grazie a quelle parole, a volte veementi a volte dolcissime, il mondo mi appariva più lento. E nella lentezza godevo di tutti i suoi dettagli. Ormai giunto alla fine dell’esistenza Tommaso d’Aquino volle che qualcuno gli leggesse non già Aristotele ma il Cantico perché in quei versi c’era riassunta la potenza spirituale e la sensualità, la disperazione e la speranza che ogni vita porta con sé».
Il Cantico ha avuto numerosi interpreti, per alcuni è un libro “scandaloso”. Lei invece lo accosta nientemeno che alla musica di Patti Smith.
«Le parole delle sue canzoni assorbono l’energia vitale di quel testo, e parlano dell’amore come abbandono e pienezza insieme».
Non le sembra un accostamento bizzarro?
«Come bizzarra e creativa può essere la lingua eterodossa della contemporaneità. Certi testi biblici consentono l’accostamento, altri meno».
Quali?
«Quelli più polemici, forti, eruditi. Non mi piace ciò che è troppo tenue e tiepido. La parola deve possedere forza interiore per incidere sulla mente. Avere una sua selvaggia potenza. Le confesso che prediligo i testi che sconvolgono e aprono la strada al divino piuttosto che quelli che mi suscitano la noia».
In fondo è la stessa impostazione che ritrovo nella sua predilezione per Pier Paolo Pasolini. Come è nata questa passione?
«Il primo contatto avvenne con delle poesie che una mia sorella aveva ritagliato. Quando nel 1989 arrivai a Roma, mi imbattei nella rassegna dei suoi film proiettati al Palazzo delle Esposizioni. Per me fu una rivelazione vedere con quale forza e suggestione raccontava il passaggio dal mondo contadino a quello della modernità. Il suo cinema mi aiutò a comprendere meglio l’Italia e il mio paese. Ricordo che immediatamente dopo mi misi a leggere i libri di Ernesto de Martino».
Da noi lo leggono solo gli antropologi.
«Le sue analisi sul Sud d’Italia, su quel mondo arcaico fatto di rituali e di una temporalità diversa, definiscono un’identità smarrita che Pasolini aveva tentato di rimettere al centro della discussione pubblica».
Pasolini visse questa identità perduta come il grande dramma della modernità.
«Non credo che fosse animato dal sentimento della nostalgia. Piuttosto dalla disperazione per gli effetti che il mondo omologato della contemporaneità aveva prodotto».
Che cosa la colpiva del suo discorso?
«La forza con cui attraverso il profano sapeva parlarci del sacro. È questa mescolanza, o meglio contaminazione, che mi interessa. Trovo straordinario il Gesù del Vangelo secondo Matteo, i suoi tratti di umile quotidianità si ritrovano nei ruvidi protagonisti di Accattone e di Mamma Roma. Non è forse questo il miracolo degli ultimi ai quali si spalancheranno le porte del Cielo? Non è anche così che si realizza il senso più autentico della poesia?».
Nel connubio sacro e profano?
«Nell’invisibile che si rende visibile, nella restituzione di ciò che per sua natura è inesprimibile. E verrebbe da aggiungere che la poesia non mira alla purezza edulcorata che affascina il mondo, semmai prova a riscattare quell’impurità che il mondo ripudia».
Forse la parola che meglio definisce questa sua affermazione è “scandalo”.
«Pasolini, come pochi, seppe valorizzare le voci dello scandalo».
Una figura che lei accosta a Pasolini è Paolo di Tarso. Uno fonda il cristianesimo, l’altro sembra coglierne la fine.
«C’è una linea più o meno nascosta che lega i due. San Paolo ha democratizzato la mistica, l’ha resa un destino comune. In fondo è lo stesso atteggiamento che troviamo in Pasolini, la stessa inquietudine spirituale. Claudel ha detto di Rimbaud – e si potrebbe estendere a Pasolini – che era animato da un “misticismo selvaggio”, un misticismo puro e non chiarito dalla religione, dalle sue regole».
Intende un misticismo che proviene dall’oscurità?
«Credo che si abbia bisogno dell’oscurità per trovare la luce. Quando Paolo vede la luce, ne resta abbagliato. Come cieco. La luce complica la vita, non la redime soltanto. Flannery O’Connor sosteneva che credere è più difficile che non credere».
Paolo crea un ordine, una disciplina a questo credere. Senza il processo di “militarizzazione” la Chiesa non sarebbe stata niente più che un evento locale e trascurabile.
«Ma come affronta questo compito immane? Lui è l’architetto che disegna le campate e dà le fondamenta alla Chiesa. Per riuscire nell’impresa sa che non basta la disciplina, occorre il mistero. Sa che prima di tutto la Chiesa deve essere un’esperienza mistica».
Le sue “Lettere” sono la prima grande forma di proselitismo.
«Capisce che a una comunità non vanno dati solo costrutti teologici ma va insegnato l’agire pratico. A me affascina la fiducia che Paolo aveva nelle parole. Non era affatto comune che una lettera potesse contenere messaggi incoraggianti sul comportamento dei primi cristiani».
Cosa vuol dire fiducia nelle parole?
«Significa esaltare la dimensione affettiva del comunicare. Paolo non dava ordini, non si impancava in discorsi moraleggianti. Le sue lunghe lettere erano destinate quasi sempre a piccole comunità dove le esigenze, anche le più semplici, erano illuminate con la forza del pensiero teologico, ma soprattutto dell’esempio. Lei accennava allo scandalo. Beh, lo scandalo più grande in Paolo è la rivendicazione degli scarti, di quell’immondizia del mondo – come scrive ai Corinzi – che non può essere ignorata. La stessa scelta di rivolgersi agli ultimi la compie Pasolini».
Che cosa pensa della visione esasperata e disperata dell’ultimo Pasolini?
«È come se si rendesse conto che non siamo più la risposta alle nostre domande».
L’umano che fallisce?
«L’umano che proprio perché fallisce ha bisogno dell’altro e degli altri. Credo che lezione qui provenga più da Rilke che da Pasolini. Il Rilke che affronta la questione dell’Aperto».
Ossia?
«Tutto quello che un artista fa, compiendo il proprio cammino fino in fondo, è ricondurre la propria opera all’Aperto, cioè alla disponibilità verso qualcosa di più grande».
Heidegger ha molto riflettuto sull’Aperto rilkiano, l’Aperto delle “Elegie duinesi”, in particolare dell’Ottava Elegia.
«È uno dei vertici del pensiero filosofico e poetico. Due mondi, due dimensioni che trovano un punto di congiunzione nell’infinito. In quello spazio irrappresentabile e tuttavia presente dove la verità filosofica sembra corrispondere alla verità poetica. Etty Hillesum – ebrea morta ad Auschwitz – restò impressionata dalla vita di Rilke e dalla sua poesia, da quel cuore infelice e pellegrino capace tuttavia di conservarsi puro».
Un percorso, non so quanto insolito, è stato per lei affrontare alcune figure femminili. Oltre a Etty Hillesum, Cristina Campo e Simone Weil. Cosa le accomuna?
«Per usare una parola cara alla Campo, sono tutte delle “imperdonabili”, ovvero ciò che le avvicina è una santità che le fa essere nel mondo solo perché se ne sono in qualche modo allontanate. Hanno deciso di vivere secondo un gesto estremo che le ha consegnate al fuoco dell’attenzione suprema. Per tutte loro – aggiungerei Flannery O’Connors, Djuna Barnes, Maria Zambrano – la letteratura è il distillato di un’esperienza spirituale. Ricerca di quell’Aperto di cui si diceva».
Intende esperienza dell’Assoluto?
«Non possiamo avere contezza piena di questo Assoluto, possiamo solo – come suggeriscono le stesse Elegie di Rilke – nutrirci delle briciole che l’Eternità ci lascia. La sola cosa che possiamo fare è partecipare al banchetto delle briciole. L’eterno lascia sempre qualcosa, come noi del resto».
Lei cosa ha lasciato?
«Ho lasciato le mie origini ma non le ho dimenticate».
Intende Madeira?
«Laggiù, nel comune di Machico dove sono nato, si è formata la coscienza di che cos’è il mondo visto da un’isola. Ho provato il senso di un infinito immaginato ma anche la consapevolezza del limite. E poi c’è l’Angola, quel “mal d’Africa” che ci si porta dentro e che trascina la nostra memoria ben oltre il sentimento della nostalgia. L’impressione che l’Africa mi ha lasciato non è solo la vastità dei suoi territori, ma il sentimento di affettuosità che vi nasce, alla cui presenza anche le componenti più dure e violente si stemperano. Quella terra dell’innocenza oggi conosce nuove ferite, nuovi oltraggi. La sola cosa che non possiamo fare è mostrarci indifferenti».
Riscoprire quell’amicizia di cui parlava all’inizio?
«Dobbiamo imparare a restituire ciò che abbiamo preso, spesso in modo arbitrario. Dobbiamo imparare a curare le ferite che abbiamo provocato. Non possiamo guardare con sgomento e timore all’altra sponda del Mediterraneo come a un territorio ostile che vuole invaderci. La parola che sostiene la vita non può essere la paura. Se la vita è un dono dobbiamo imparare a condividerlo con coloro ai quali quella vita potrebbe essere tolta».