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Fissiamo il Pensiero

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Quel cuore negato è l’unica speranza

  • Data 14 Gennaio 2024

«Ogni uomo fa le sue scelte paragonandole con le esigenze di felicità e bellezza di cui il suo cuore è dotato; il problema è che tutto nella società sembra negare queste esigenze sostituendole con altre false ma che fanno comodo al potere. Consumismo sfrenato ed esaltazione della libertà. “Ma liberi da cosa, liberi da chi“ dice acutamente Vasco Rossi individuando il lato negativo della libertà, la cosiddetta libertà da ogni legame che lascia alla fine soli e tristi». Lo scrive Stefano Bolla in una lettera che vi invitiamo a leggere, pubblicata in questi giorni da Bresciaoggi. Nella società liquida dove ogni punto di riferimento sembra svanire però «una certezza mi sostiene e cioè che il cuore dell’uomo è fatto così, ha dentro questa impronta che nessuna forza del male può cancellare». Solo da persone che ripartono da questa impronta originale, da queste esigenze elementari di felicità e bellezza che sono inscritte nel cuore di ciascuno, può nascere qualcosa di davvero nuovo. È la stessa dinamica descritta nel dialogo tra due filosofi, Francesco Postorino e Massimo Borghesi, pubblicato da Avvenire, tutto da leggere anche questo. «I giovani sono interrogati dalla dimensione religiosa quando la vedono espressa in atto, la colgono nel volto e nell’umanità dei loro coetanei, ragazzi e ragazze che trovano nella fede un di più di umanità e di vita  – sottolinea Borghesi -. Qui vale la legge per cui il simile è attratto dal simile. Oggi si può divenire cristiani perché, come 2000 anni fa, si incontrano dei cristiani vivi. La secolarizzazione, tante volte citata come motivo di allontanamento dalla fede, non è dirimente. Come non era determinante il paganesimo rispetto alla diffusione della fede nel mondo antico. La grazia cristiana, quando è reale, ha una sua bellezza che attrae. È più persuasiva dei pregiudizi che, provenienti dal pensiero post-illuminista, continuano a permeare la nostra cultura». Servono grandi e certi ideali e non certo il «vuoto scetticismo diffuso, ogni giorno, dall’industria mediatica del paradiso capitalistico mondiale» per dare un futuro anche alle nostre democrazie, «di cui andiamo così orgogliosi e che appaiono in Occidente così esauste».

A Brescia il 1° febbraio lo spettacolo “Father & Freud”

Giovedì 1 febbraio alle 21 a Brescia, al Teatro Der Mast di via Carducci 17/E, promosso dalla Fondazione San Benedetto è in programma lo spettacolo “Father & Freud” con Glauco Maria Genga e Giovanni Spadaro, musiche di Andrea Motta e regia di Adriana Bagnoli. Uno psicoanalista e psichiatra insieme a un giovane attore portano per la prima volta a teatro una pagina poco nota della vita e del pensiero di Sigmund Freud. Il suo viaggio ad Atene nel 1904 e lo stupore di fronte alla bellezza dell’Acropoli accendono una luce nuova sul tema che da sempre è il cuore della riflessione filosofica e psicoanalitica: il padre. La sfida dello spettacolo è quella di portare il pubblico dentro la quotidianità di un genio, avvicinando la sua vita prima che le sue opere. Non ci rivolgiamo solo agli addetti ai lavori, che troveranno comunque un approfondimento storico e biografico molto fedele, ma anche ai neofiti, ai giovani, a chi non ne sa nulla, perché semplicemente possa avvenire l’entusiasmante incontro con un uomo e con il suo pensiero. 

Il biglietto costa 20 euro (più il fee di prevendita) e va acquistato online cliccando il seguente link  https://www.ticketsms.it/event/Father-And-Freud-Der-Mast-2024-02-01


Da Braveheart a Vasco Rossi, il segreto della vera libertà

Egregio direttore, seguo poco i media perché sono malandato, ma la nostra società liquida sta diventando proprio un disastro. Conflitti ovunque, aumento della violenza impressionante. Le grandi potenze che badano solo a consolidare o almeno non perdere il loro potere sullo scacchiere internazionale con l’Onu ridotta a foglia di fico. La cronaca interna è dominata dai temi del femminicidio, bullismo, vandalismo. Sentire una buona notizia come quella dei due agenti che rispondono al grido disperato della 93enne sola anche a Natale e Capodanno fa gridare al miracolo. La classe politica poi, mi pare composta di mezze figure distanti anni luce dagli statisti di un tempo. Che fare: non so perché da un po’ di tempo mi risuonano in testa le parole di Braveheart, filmone di Mel Gibson sull’eroe della lotta per l’indipendenza scozzese: William Wallace.

Mel Gibson interpreta William Wallace nel film “Braveheart” (1995)

Il piccolo William perde ben presto il padre, ucciso dagli inglesi perché ribelle e lo veglia nella tenda con gli altri ribelli uccisi. Alla fine il giovane si addormenta e sogna di vedere il padre aprire gli occhi e dire: “Segui il tuo cuore William, segui il tuo cuore”. Sembra una banalità ma così non è: ogni uomo fa le sue scelte paragonandole con le esigenze di felicità e bellezza di cui il suo cuore è dotato; il problema è che tutto nella società sembra negare queste esigenze sostituendole con altre false ma che fanno comodo al potere. Consumismo sfrenato ed esaltazione della libertà. “Ma liberi da cosa, liberi da chi” dice acutamente Vasco Rossi individuando il lato negativo della libertà, la cosiddetta libertà da ogni legame che lascia alla fine soli e tristi. Ma esiste anche la libertà positiva, la libertà di partecipare, aiutarsi, volersi bene. Quanto ce ne parlò il nostro professore di Diritto, Giordano Pagnoncelli nelle lezioni sulla Costituzione. Lavorare sul cuore è l’unica speranza, disintossicarlo dal consumismo e da un’idea sbagliata di libertà che prevede solo diritti e non doveri. Famiglia. Scuola e Fede, per chi ha la fortuna di credere, dovrebbero essere gli artefici del cambiamento anche se sembra impossibile. Ma una certezza mi sostiene e cioè che il cuore dell’uomo è fatto così, ha dentro questa impronta che nessuna forza del male può cancellare. “Se non ritornerete come bambini” mi pare dicesse un tale, importante lavorare sul cuore per riportarlo alla purezza del bambino che sa per istinto cosa è bene e cosa è male, cosa è buono e cosa è cattivo.

Stefano Bolla

Lettera pubblicata su Bresciaoggi – 12 gennaio 2024


Se la religione viene messa tra parentesi 

Da Avvenire del 28 dicembre scorso riprendiamo il dialogo fra Francesco Postorino, Ph.D. in filosofia politica e morale, e Massimo Borghesi, professore di filosofia morale all’Università di Perugia.  

Francesco Postorino. Alexandre Kojève, nella sua lettura di Hegel, definisce l’uomo religioso un essere dalla «coscienza infelice», incapace di realizzare sé stesso perché imprigionato in una duplice dimensione: quella dell’io empirico (schiavo del mondo) e quella dell’io trascendentale (schiavo di Dio). Seguendo questo itinerario, sembra che l’”ateo” sia l’unico felice in quanto gode di libertà e autonomia da falsi miti. Al di là di questa interpretazione autorevole quanto discutibile, è un fatto che nel corso della modernità il vento della secolarizzazione ha spazzato via le «certezze interiori» maturate nel Medioevo spalancando le porte all’ateismo: una sensibilità con cui occorre fare i conti oggi più che mai. L’ateo, nel linguaggio comune, è colui che non crede nell’esistenza di Dio! Ma è sufficiente dir così per definire una posizione in realtà piena di sfumature o comunque più complessa? Si pensi a quei mistici che, dopo aver vissuto radicalmente Dio, si rifugiano in una «notte oscura» privi del Fondamento; senza esagerare, forse persino Cristo ha sentito una scintilla problematica di “ateismo” nell’istante lungo e misterioso dell’abbandono.

Massimo Borghesi. Dubito che l’”ateo” possa rivendicare oggi la posizione della felicità. Già nella fase dell’ateismo radicale, quella che trova espressione nel pensiero del 1800, la rinuncia alla felicità era il prezzo da pagare per poter eliminare l’idea di Dio. Il compromesso kantiano tra autonomia ed eteronomia, tra la moralità e il postulato della felicità, appare inaccettabile. L’ateo appare come una sorta di titano che, al pari di Prometeo, lotta contro Zeus. È il Dioniso sofferente di Nietzsche. Di felicità nell’ateismo del XIX secolo c’è n’è veramente poca. Al contrario l’era contemporanea desidera fortemente la felicità. La desiderano i giovani, illudendosi spesso, manipolati dalle false promesse del mondo estetico, virtuale, mediatico. L’ateismo non è più all’ordine del giorno dopo il suo fallimento tragico nei regimi totalitari che lo hanno visto protagonista. Parlerei, piuttosto, di agnosticismo, di sospensione del problema religioso che viene posto tra parentesi. E questo spesso non per indolenza o scarsa volontà nell’impegno per il senso della vita ma perché viene a mancare l’occasione di incontri con testimonianze cristiane significative. Penso soprattutto al mondo giovanile. I giovani sono interrogati dalla dimensione religiosa quando la vedono espressa in atto, la colgono nel volto e nell’umanità dei loro coetanei, ragazzi e ragazze che trovano nella fede un di più di umanità e di vita. Qui vale la legge per cui il simile è attratto dal simile. Oggi si può divenire cristiani perché, come 2000 anni fa, si incontrano dei cristiani vivi. La secolarizzazione, tante volte citata come motivo di allontanamento dalla fede, non è dirimente. Come non era determinante il paganesimo rispetto alla diffusione della fede nel mondo antico. La grazia cristiana, quando è reale, ha una sua bellezza che attrae. E’ più persuasiva dei pregiudizi che, provenienti dal pensiero post-illuminista, continuano a permeare la nostra cultura.

Postorino. A proposito di agnosticismo, è interessante analizzare la definizione introdotta dal filosofo britannico T.H. Huxley, il quale, proprio nel secolo dell’ateismo e del furore positivista (l’ottocento), definiva il pensiero umano incapace di conoscere e risolvere problemi di natura metafisica e religiosa. In effetti, se escludiamo i rumori del fondamentalismo, ognuno di noi, credente o meno, sa che l’uomo non gode di strumenti adeguati per conoscere e assaporare l’ultima parola, l’ultima certezza dell’essere e dell’esistere. È vero che oggi l’agnosticismo è spesso il frutto di una mancanza di incontri con vere testimonianze e, aggiungerei, di un «si dice» epocale che rifiuta approfondimenti legati al sovrasensibile. Ma la fede e l’agnosticismo razionale, quello cioè che in maniera semplice e umile riconosce il limite invalicabile dell’uomo, forse possono convivere insieme: si tratta, infatti, di quella ineliminabile dose di incertezza che peraltro spinge il credo nella tensione problematica con Dio. Lei che ne pensa?

Borghesi. Potremmo distinguere tra un agnosticismo autentico ed uno inautentico. Quello inautentico è quello di un certo filone culturale che, dopo il fallimento dell’ideologia marxista che fino agli anni ‘80 ha costituito una vera e propria fede per milioni di uomini, si è trincerato in un agnosticismo “dogmatico”, venato da un naturalismo scettico, radicale. Qui il problema religioso non è affrontato perché ogni fede, indipendentemente dai suoi contenuti, appare come foriera di illusione e di intolleranza. Si tratta di un dogmatismo rovesciato, negativo, che dipende dalla delusione verso un credo che si è rivelato falso. L’agnosticismo autentico è, al contrario, caratterizzato da una autentica ricerca del senso della vita. Non si arrende al nichilismo imperante ma cerca, più o meno confusamente, un significato vero. Questa forma di agnosticismo costituisce una via verso la fede, è un’attesa di Dio, del Dio ignoto di cui parlava San Paolo nell’areopago di Atene.

Postorino. In un’epoca inquinata da molteplici estremismi (incluso il modo di produzione capitalistico nella sua accezione contemporanea), logiche di chiusura e manovre hobbesiane dirette verso il dolore, la finitudine e la morte, fanno certamente fatica ad attecchire i motivi della laicità: ovvero quel prezioso riconoscimento della complessità della vita, come direbbe Edgar Morin, e di tutte quelle sfumature e dettagli che abitano il nostro orizzonte imperfetto. Forse il non sapere d’ispirazione socratica può rappresentare l’unica base realistica per provare a tracciare una diversa narrazione che si muova, però, dal “concreto” dell’uomo e ripudi l’”astratto” delle ideologie. In questo senso, l’agnosticismo autentico, di cui parla, può costituire non solo una via durevole e problematica verso la fede, ma può rivelarsi la condizione necessaria per un urgente e difficile impegno etico e laico. È così?

Borghesi. Non credo che l’agnosticismo sia in grado, oggi, di realizzare un contesto di reale convivenza e laicità. Potrebbe farlo se avesse un’idea del bene comune e delle verità essenziali che lo sostengono ma allora sarebbe un agnosticismo dimezzato, radicato su convinzioni forti. Credo che solo persone animate da forti passioni ideali possano, in un momento in cui tutto sembra vacillare, opporsi al manicheismo profondo, patologico, che in questo momento sta dividendo i Paesi della terra. Persone i cui ideali si fondino sulla libertà, sul rispetto, sulla persuasione, sulla non violenza, sull’inclusione. Le democrazie, di cui andiamo così orgogliosi e che appaiono in Occidente così esauste, hanno bisogno di grandi e certi ideali e non già del vuoto scetticismo diffuso, ogni giorno, dall’industria mediatica del paradiso capitalistico mondiale.

Tag:agnosticismo, ateismo, Braveheart, Massimo Borghesi, religione, Vasco Rossi

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
15 Novembre, 2025

In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
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«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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