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Navalny e l’aborto in Francia, la vita oltre violenza e ideologia

  • Data 9 Marzo 2024

In questa newsletter torniamo su due vicende di cui ci siamo già occupati nelle scorse settimane: l’uccisione di Aleksey Navalny in Russia e l’inserimento dell’aborto fra i diritti costituzionali in Francia. Gli sviluppi che ne sono seguiti meritano un supplemento di attenzione e di riflessione che vi proponiamo attraverso la lettura di due articoli significativi per il punto di vista che offrono. Il primo è di Giovanna Parravicini, grande studiosa della cultura russa che da molti anni vive a Mosca e che più volte è stata ospite della Fondazione San Benedetto. La sua è una testimonianza (che riprendiamo dal sito di Comunione e Liberazione) su quanto sta accadendo in Russia dopo la morte di Navalny, «un uomo che ha dato la vita per ciò in cui credeva – e l’ha data consapevolmente». Un uomo che nella Pasqua del 2014 ripensando alla Passione di Cristo scriveva: «Cosa sono tutte le nostre “difficoltà” e i nostri “problemi” in confronto a ciò che ha dovuto provare Lui? Ma il Bene, la Giustizia, la Fede, la Speranza e la Carità ebbero comunque la meglio. Buona festa della Risurrezione a tutti voi, credenti e non credenti. Buona festa dell’inevitabile vittoria del Bene!». «Forse – sottolinea Parravicini – è stata proprio questa intuizione a spingere all’improvviso, dopo mesi di passività, migliaia di persone in tutto il Paese a recarsi a deporre fiori su altarini o memoriali improvvisati dedicati a Navalny, sfidando la presenza delle forze dell’ordine e addirittura l’arresto». Il secondo articolo è invece di Giuliano Ferrara sul Foglio dopo il voto del parlamento francese che a larghissima maggioranza, con tanto di standing ovation e di illuminazione della tour Eiffel, ha inscritto l’aborto come diritto nella Costituzione. Non ci hanno mai appassionato le battaglie ideologiche o le divisioni fra pro life e pro choice, quel che ci interessa è il dato di realtà. E se il concepito per la scienza è un individuo, «a quel punto – scrive Ferrara – il diritto alla vita è assoluto». Vale per i concepiti come per i bambini di Gaza. Per questo, continua l’articolo, «oggi dovremmo dire “cessate il fuoco” contro i nascituri abortiti o in via di aborto, cioè annientati, nel segno del diritto costituzionale. Un mondo in cui si viaggia verso il miliardo e mezzo di aborti legali e condivisi dai primi anni Settanta, epoca delle leggi abortiste, non ha il diritto di assumere pose sconvolgenti di compassione, empatia o quel che volete voi verso la strage dei bambini a Gaza e, se è per questo, in molte altre parti del mondo».

Mese Letterario, è il momento di iscriversi

Sono aperte le iscrizioni alla 14° edizione del Mese Letterario in programma nel prossimo mese di aprile. Quest’anno non essendo disponibile l’auditorium di via Balestrieri, gli incontri si svolgeranno nel salone degli Artigianelli (via Avogadro 23 con parcheggio all’interno). Ci saranno quindi meno posti. Perciò invitiamo tutti ad iscriversi subito online sul sito dell’Associazione Mese Letterario cliccando su questo link https://www.meseletterario.it/edizione-2024. Le iscrizioni infatti saranno accettate solo sino ad esaurimento posti. Sul sito potete trovare il programma dettagliato della rassegna che ha come titolo “L’altro necessario“. Tre gli appuntamenti in programma: il 4 aprile su Italo Svevo con Valerio Capasa, l’11 aprile su James Joyce con Enrico Terrinoni e il 18 aprile su T.S. Eliot con Edoardo Rialti.   


Navalny, una rosa è per sempre 

In Russia quello che è successo il 16 febbraio ha riaperto una ferita cui ci si stava abituando. E ha rimesso davanti a tutti che «niente esiste senza libertà». Dopo la morte del leader dell’opposizione, ecco la provocazione della sua vita

di Giovanna Parravicini – articolo tratto dal sito di Comunione e Liberazione  

È cambiato qualcosa, in questi giorni, in Russia – qualcosa che, nonostante la tragicità del momento, fa ricominciare a sperare. La morte in lager di Aleksej Navalny ha riaperto una ferita che, mese dopo mese, sembrava lentamente anestetizzarsi. Ci si abitua a tutto, purtroppo, anche a una guerra che sembra così lontana, e di cui – almeno dalle grandi città del Paese, dove la vita si svolge in un’apparente normalità – non si riescono a percepire le reali dimensioni. Oppure, tutto si stempera in considerazioni politiche su torti e ragioni delle superpotenze mondiali, che generalmente si concludono con il tranquillizzante mantra «le cose non sono poi così chiare…», che ti permette di non prendere posizione o di scegliere la posizione più comoda.

Fiori in ricordo di Aleksey Navalny (foto Wikimedia Commons)

Che cos’è cambiato venerdì 16 febbraio? D’un tratto ci siamo trovati davanti a un uomo che ha dato la vita per ciò in cui credeva – e l’ha data consapevolmente, fin dal momento in cui dalla Germania, dov’era stato trasferito d’urgenza per essere curato in seguito a un tentativo di avvelenamento, ha deciso di rientrare in Russia, il 17 gennaio 2021. Dove è stato prelevato direttamente all’aeroporto e condannato più volte (l’ultima, nell’agosto scorso, a 19 anni di lager a regime speciale; ha trascorso in cella di rigore circa 300 giorni).

Sul Navalny «politico» e le sue posizioni si può discutere. Non tutti, certamente, erano d’accordo con i programmi da lui presentati in passato. Ma Navalny è stato anche un uomo che si è giocato fino alla fine, con tutta la sua umanità. Lo dice, ad esempio, il post per la Pasqua del 2014, in cui lui, convertitosi dopo essere stato «ateo fino ai 25 anni, e per giunta piuttosto militante», faceva gli auguri a tutti – nel suo linguaggio scanzonato – «ortodossi e non ortodossi, non credenti e atei», perché – asseriva, «mi pare che proprio la Pasqua possa pretendere al titolo di Festa di Tutti. È decisamente meglio del Capodanno, amici miei».

E, ripensando alla Passione di Cristo, senza censurare domande e perplessità, ma affascinato dalla nuova prospettiva che gli si apriva dinnanzi: «Cosa sono tutte le nostre “difficoltà” e i nostri “problemi” in confronto a ciò che ha dovuto provare Lui? Ma il Bene, la Giustizia, la Fede, la Speranza e la Carità ebbero comunque la meglio. (Sì, anch’io trovo strano che tutte queste cose siano scritte con le iniziali maiuscole, ma come scriverle diversamente?). E vinceranno sempre. È scritto in una strana frase in una lingua incomprensibile, oggi ripetuta un milione di volte di seguito: “Cristo è risorto dai morti, con la morte ha calpestato la morte e ha dato la vita a coloro che erano nei sepolcri”. Buona festa della Risurrezione a tutti voi, credenti e non credenti. Buona festa dell’inevitabile vittoria del Bene!».

Forse è stata proprio questa intuizione a spingere all’improvviso, dopo mesi di passività, migliaia di persone in tutto il Paese a recarsi a deporre fiori su altarini o memoriali improvvisati a lui dedicati, sfidando la presenza delle forze dell’ordine e addirittura l’arresto (in cui sono incorse circa 400 persone). Nel tardo pomeriggio-serata di venerdì, tanta gente si è ritrovata spontaneamente in strada, a camminare nella stessa direzione – a Mosca, in particolare, verso la pietra proveniente dal monastero-lager delle Solovki, in piazza della Lubjanka (quartier generale del KGB), e il «muro del pianto», il monumento alle vittime delle repressioni eretto nel 2017. E la rosa che ciascuno aveva in mano era come un segnale, il simbolo del medesimo cuore che batteva in ciascuno, della medesima verità che si imponeva a ciascuno: si può dare la vita per affermare qualcosa che vale più della vita. Non era rabbia impotente ad agitarsi negli animi, ma uno stupore commosso: che l’umanità possa essere così grande e impavida, e che in nome suo ci si possa riconoscere insieme, sullo stesso cammino. Si sentiva il bisogno di guardarsi, riconoscersi stretti da un’unità, di cui il cumulo di rose che cresceva continuamente, come un gigantesco fiore rosso sulla neve, era l’emblema.

Le rose di Navalny mi hanno ricordato i nastrini bianchi delle «passeggiate della libertà», che la gente aveva preso l’abitudine di fare, in segno di protesta dopo i brogli delle elezioni del 2011, ma soprattutto in segno di solidarietà, di riconoscimento di una dignità, verità, libertà umana, insopprimibile da qualsiasi regime totalitario, di responsabilità per l’edificazione di una società civile a misura d’uomo. Sembra passata un’eternità da allora, gesti che parevano innocui adesso possono costare la libertà o addirittura la vita, manifestazioni che sembravano la normalità sembrano oggi irrealizzabili, molti dei manifestanti di allora sono dovuti riparare all’estero… Eppure quelle rose dicono che la fiammella continua a covare, e la testimonianza di un giusto può ad un tratto farla ardere e divampare.

Quelle rose mi hanno ricordato anche un altro post di Navalny, su com’era uscito dal coma, grazie alla presenza della moglie. Perché in fondo è lui, adesso, ad aiutarci a uscire dal nostro “coma” quotidiano: «…Sono sdraiato. Sono già uscito dal coma, ma non riconosco nessuno, non capisco cosa stia succedendo. Non parlo e non so cosa significhi parlare. E tutto il mio tempo lo passo ad aspettare che arrivi Lei. Non è chiaro chi sia Lei. Non so che aspetto abbia. Anche se con uno sguardo sfuocato riesco a vedere qualcosa, non riesco a fissare l’immagine. Ma Lei è diversa, per me questo è chiaro, quindi sto sempre lì ad aspettarla. Lei entra e si occupa della stanza. Mi aggiusta il cuscino. Non ha un tono pacato di compassione. Parla allegramente e ride. Mi racconta delle cose. Quando Lei è nei paraggi le stupide allucinazioni se ne vanno. Con Lei sto molto bene. Poi Lei se ne va io divento triste e ricomincio ad aspettarla. Non ho dubbi che ci sia una spiegazione scientifica per questo. Beh, tipo, captavo il timbro della voce di mia moglie, il mio cervello rilasciava dopamina, mi sentivo meglio. Ogni suo arrivo diventava letteralmente una cura e l’effetto dell’attesa rafforzava quello della dopamina. Ma per quanto la spiegazione scientifica e medica possa sembrare bella, ora lo so per esperienza: l’amore guarisce e riporta in vita. Julia, mi hai salvato e lascia che lo mettano nei libri di testo di neurobiologia».

Se è vero che esistono realtà immutabili per l’eternità – e il giudizio è una di esse – ogni rosa deposta nella neve sulla pietra delle Solovki resta per sempre. Una per una, sono segni che rimandano all’essenziale, come tanti altri che, emergendo improvvisamente entro il tessuto degli avvenimenti, ci riempiono di stupore e commozione. Come, ad esempio, il fatto che Jurij Ševčuk, leader del gruppo rock DDT, durante un concerto ad Astana, capitale del Kazakistan, abbia dedicato a Navalny la canzone Libertà e, commemorandone la morte, abbia detto: «A noi russi, lui ha parlato della libertà. E ne ha parlato bene. Ci ha ricordato che tutti noi possiamo diventare liberi nel senso migliore della parola». E ha voluto dettagliare: «Perché la fede senza libertà è fanatismo, fanatismo bello e buono. E il lavoro senza libertà è schiavitù. Una schiavitù pesante, pesantissima. E l’amore senza libertà è dispotismo. Niente esiste senza libertà. Tutto si tinge di nero». Queste ultime sono alla lettera le parole pronunciate alcune settimane prima da padre Aleksej Uminskij (sacerdote ortodosso ridotto allo stato laicale per aver rifiutato di pregare per la vittoria), per indicare la responsabilità che si prospetta a ciascuno di noi, e da cui non possiamo esimerci qualunque siano le circostanze in cui ci troviamo. Che da un palcoscenico una stella del rock possa ripetere a migliaia di fan le parole di un sacerdote ortodosso significa che una parola autentica segue percorsi e produce effetti inimmaginabili, che esistono legami e prossimità dettati dal cuore stesso dell’uomo, irriducibile alla ragnatela di silenzi e mezze verità che oggi sembra volerlo irretire. Dalla reclusione Navalny poteva asserire di non avere paura ed esortare tutti a non averne, proprio perché aveva sperimentato che l’«amore guarisce e riporta in vita», e aveva intuito anche l’esistenza di un Amore più grande, scritto con la maiuscola, che dà senso e fecondità a ogni sacrificio e genera unità. Nella persona e fra le persone. Secondo vie imprevedibili ma certe.


Cessate il fuoco contro i nascituri

L’aborto come diritto iscritto nella Costituzione francese. Ma è la vita il primo diritto di un individuo, e il concepito è un individuo. Aborto? No, grazie, diciamo di fronte all’umanitarismo falso per i bambini di Gaza

di Giuliano Ferrara – da Il Foglio – 6 marzo 2024

Cessate il fuoco, parola d’ordine che incanta, dilaga senza senso, e che andrebbe usata sì, e senza circospezione, per quanto la Costituzione francese oggi considera un diritto assoluto, l’aborto. La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, votata dalla comunità internazionale tranne il Sudafrica dell’apartheid, l’unione sovietica della dittatura del proletariato e l’arabia Saudita, dice che il primo diritto dell’individuo è la vita. Bisogna accertarsi che un individuo sia un individuo, non si può negargli una personalità giuridica, e a quel punto il diritto alla vita è assoluto. Il concepito è per la scienza un individuo. Lo è per statuto cromosomico, individuo differente da tutti gli altri e irripetibile nella struttura. E’ un individuo in atto, non solo in potenza, dotato di tutto quel che fa di un maschio un maschio e di una femmina una femmina. Lo si fotografa abitualmente attraverso tecniche visualmente perfette. C’è, incontestabilmente, e risiede per un atto di concepimento nel corpo di una donna. Agisce e patisce, come sapevano per tradizione le donne incinte, dunque si segnala, batte colpi, prova piacere e dolore. Degradarlo, torturarlo, annientarlo è contrario alla concezione della vita, e poi e solo poi della libertà e del resto, che definimmo all’uscita della Seconda guerra mondiale con le eccezioni dette tra i firmatari, sulla scia della dichiarazione di Indipendenza americana e della dichiarazione seguita alla Rivoluzione francese e scritta dal marchese La Fayette. Insomma, i diritti naturali.

La torre Eiffel a Parigi illuminata dopo l’approvazione dell’aborto come diritto costituzionale

Quando provammo a fare una campagna contro l’aborto, con pochi mezzi e tra le provocazioni e i fraintendimenti, nel 2008, fummo sconfitti. Eravamo partiti dal rigetto di quella che ci sembrava un’oscenità morale, una contraddizione etica devastante: l’esibizione vanitosa del diritto alla vita quando si parlava di pena di morte, e si invocava una moratoria delle esecuzioni capitali, combinata con l’aborto come diritto: nell’obiettivo nostro era la vocalità umanitaria di Emma Bonino, che riciccia ora. Chiedemmo una moratoria per l’aborto, facendo scandalo, combattendo per una breve stagione culminata in una bruciante sconfitta elettorale della lista di scopo “Aborto? No, grazie”, e prima ancora in una disfatta culturale. Dopo qualche incertezza sulla legislazione abortista, che peraltro in Italia si intitolava alla “tutela sociale della maternità” (legge 194), sostenemmo che non era in questione la punibilità dell’aborto, ma l’orientamento contrario all’aborto da manifestare e inverare nelle politiche pubbliche, nella coscienza etica della società: bisognava offrire un’alternativa all’aborto moralmente sordo, una possibilità diversa a chi ricorreva al cosiddetto aborto di necessità, finanziare i programmi di assistenza e aiuto di eroici gruppi volontari che quell’alternativa cercavano in dialogo con le donne incinte e i loro partner, censurare l’aborto degradato da dramma a scelta di carriera o affermazione volitiva generica, proponemmo la sepoltura e catalogazione dei non nati ancora oggi considerati “rifiuti speciali ospedalieri” eccetera.

Unico impotente alleato strategico di una campagna laica e fatta da laici con metodi laici, alleanza esperita con tutte le cautele dell’istituzione, fu la Chiesa di Ratzinger e Ruini. Le mille testimonianze ideologiche, letterarie, poetiche a favore del no all’aborto, dal mitico Pasolini a Natalia Ginzburg a molti altri non solo italiani, furono considerate eccentricità e anticaglie.

Oggi quell’impresa sarebbe da riproporre, con tutto il suo carico di disperazione e fallimento, di fronte all’umanitarismo falso per i bambini di Gaza. Oggi dovremmo dire, come fu per la moratoria, “cessate il fuoco” contro i nascituri abortiti o in via di aborto, cioè annientati, nel segno del diritto costituzionale ormai iscritto nella Costituzione francese all’unanimità o quasi. Un mondo in cui si viaggia verso il miliardo e mezzo di aborti legali e condivisi dai primi anni Settanta, epoca delle leggi abortiste, non ha il diritto di assumere pose sconvolgenti di compassione, empatia o quel che volete voi verso la strage dei bambini a Gaza e, se è per questo, in molte altre parti del mondo.

Tag:aborto, Giuliano Ferrara, Navalny; Giovanna Parravicini

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piergiorgio

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In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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