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L’Europa che vogliamo

  • Data 19 Maggio 2024
Giovedì in un’aula magna del Centro Paolo VI gremita di pubblico, con una seconda sala videocollegata, si è svolto a Brescia il primo dei due incontri dedicati alle elezioni europee e alle presidenziali americane promossi dalla Fondazione San Benedetto (vedi foto). Nei prossimi giorni sarà disponibile online sul nostro sito il video dell’incontro che ha visto, sollecitati dalle domande del presidente della San Benedetto Graziano Tarantini, gli interventi di Ferruccio de Bortoli, Mario Mauro e Romano Prodi. In apertura Francesco Amarelli, un giovane della fondazione, professionista e padre di famiglia, ha letto un volantino in cui sono stati riassunti il lavoro svolto nei mesi scorsi per conoscere da vicino l’Unione europea e le nostre preoccupazioni in vista del voto dell’8 e 9 giugno (trovate il testo integrale a questo link). Il volantino è stato distribuito a tutti i presenti al termine dell’incontro insieme a un opuscolo con il discorso storico di Aleksandr Solzenicyn all’Università di Harvard nel 1978 dedicato alla crisi dell’Occidente. Di seguito trovate un resoconto dei passaggi salienti dell’incontro per poter «fissare il pensiero» sui tanti spunti di riflessione proposti dai tre relatori, un’occasione per continuare il lavoro iniziato. Prima però vi ricordiamo che giovedì 23 maggio alle 18, nella Sala Morstabilini del Centro Paolo VI in via Gezio Calini 30, si svolgerà il secondo incontro dedicato alle presidenziali americane con gli interventi di Marco Bardazzi, giornalista e autore del libro «Rapsodia americana», e Lorenzo Pregliasco, analista politico, co-fondatore e direttore di YouTrend. Per chi non si fosse ancora registrato per partecipare può farlo cliccando su questo link.
L’Unione europea è l’unico caso al mondo in cui paesi e popoli con storie diverse, che in passato si erano combattuti, hanno dato vita al più lungo periodo di pace che si sia mai visto dalla caduta dell’impero romano. Oggi siamo in mezzo al guado, dobbiamo decidere se vogliamo continuare su questa strada accettando le sfide che ci chiede o se perdere in modo irreparabile ciò che è stato faticosamente costruito. C’è questa consapevolezza dello snodo cruciale che ci troviamo a vivere negli interventi con cui giovedì sera a Brescia Ferruccio de Bortoli, Mario Mauro e Romano Prodi si sono confrontati parlando dell’Europa che vogliamo.

CAMPAGNA ELETTORALE SCANDALOSA

Le elezioni europee dell’8 e 9 giugno saranno un passaggio fondamentale, eppure se si guarda alla campagna elettorale in corso sembra di vivere su un altro pianeta. «Sono scandalizzato – esordisce de Bortoli – che la campagna elettorale italiana prescinda totalmente da ciò di cui si occuperà il Parlamento europeo nella prossima legislatura. Temi che incideranno profondamente sulla vita degli italiani e soprattutto delle generazioni future. Noi dovremo essere presenti con persone preparate, qualificate, che vadano a Strasburgo e a Bruxelles per difendere l’interesse nazionale in un’ottica europea. Invece sembra di assistere a una sorta di elezioni di midterm in cui verificare i rapporti di forza a livello nazionale tra maggioranza e opposizione, e all’interno della stessa maggioranza. E questo è dovuto anche al cattivo gusto, oltre che all’inopportunità, delle candidature dei leader che poi non andranno mai al Parlamento europeo».
La prima questione è quindi riportare l’attenzione sui veri temi che riguardano l’Europa investendo in conoscenza e scegliendo candidati pronti a dedicarsi con passione, intelligenza e competenza a questo compito.

PUGNI SUL TAVOLO? NO GRAZIE

«Di sicuro – incalza Tarantini – non voterò chi dice che andrà a Bruxelles a sbattere i pugni sul tavolo per fare gli interessi dell’Italia. Mi interessa chi dice che andrà al Parlamento europeo per fare un’Europa che sia utile a tutti». C’è allora da ritrovare il senso di un progetto politico che continuiamo a chiamare Europa unita. «Una postura ambiziosa della nostra convivenza civile che lega le persone in un destino comune», la definisce Mauro. Così è stato in quel «tempo poderoso» fra il 1999 e il 2004, che ha coinciso con la presidenza della Commissione europea di Romano Prodi. L’ultima che ha fatto degli «atti politici» – sottolinea Tarantini – a cominciare dall’allargamento a est dell’Unione. «In quegli anni – ricorda Mauro – eravamo davanti a un bivio: potevamo lasciar dilagare i conflitti come era successo solo qualche anno prima nella ex Jugoslavia oppure assumerci una responsabilità più grande scegliendo la strada dell’integrazione. Così è avvenuto,
per cui oggi posso dire che so perché esiste l’Europa, so perché esiste il progetto che chiamiamo Europa unita. È l’unico esempio di un percorso comune costruito non tra potenze vincitrici, ma tra vincitori e vinti come è accaduto dopo la seconda guerra mondiale. E se questo non è una novità anche di fronte alle tensioni geopolitiche che viviamo oggi, non so cosa lo possa rappresentare. In alternativa non resta al mondo che il conflitto come unico strumento di risoluzione delle controversie».

QUANDO KOHL SCELSE L’EURO

Sulla stessa lunghezza d’onda Prodi esordisce con un ricordo personale: «Mentre stavamo faticosamente costruendo l’euro, improvvisamente tutta la Confindustria tedesca cominciò a “sparare” contro perché non voleva che nella nuova moneta unica ci fosse anche l’Italia. Avevo un rapporto di amicizia con il cancelliere Kohl, perciò gli chiesi: “Helmut come mai tu vuoi l’euro con tanta forza mentre i tuoi elettori si dimostrano così contrari?” E lui mi rispose: “Io voglio l’euro perché mio fratello è morto in guerra”. Non servivano altri ragionamenti. Oggi quando sento parlare con disprezzo dell’Europa dei banchieri, dico attenzione perché dietro quanto è stato realizzato c’è un modo di costruire con la pace che non possiamo permetterci di perdere. Ricordiamoci che quello che è stato fatto sino a oggi è l’unico caso di esportazione della democrazia senza fare la guerra. E in questo è stato decisivo il contributo del pensiero cattolico con De Gasperi, Adenauer e Schuman. Dobbiamo riprendere questo coraggio di navigare nel futuro, ma lo riprendiamo solo se mandiamo a Bruxelles persone che hanno questa idea».

UN PANE DA CUOCERE

Prodi non si sottrae al fatto che ci siano problemi e difficoltà e che l’Europa spesso non sia amata, ma rilancia: «Dal punto di vista politico è il più buon pane che abbiamo preparato nella storia, ma è ancora mezzo cotto. E allora cosa facciamo? Lo buttiamo via o lo cuociamo fino in fondo? È la sfida che abbiamo di fronte». Questo significa andare avanti pensando a una politica estera europea, a un sistema di difesa comune, a superare il voto all’unanimità che paralizza ogni decisione. «Occorre superare – sottolinea – le nostalgie degli ex imperi che oggi stanno impedendo il grande salto dell’Europa. Ma vi rendete conto che sulla guerra in Ucraina non c’è stata alcuna mediazione europea? Bisogna per esempio che la Francia metta a disposizione il suo armamento nucleare per dar vita al sistema di difesa comune, che ceda all’Unione il suo diritto di voto nel consiglio di sicurezza dell’Onu. Insomma c’è da riorganizzare tutta la vita europea e questo è il compito della nuova legislatura, perciò bisogna andare a votare. Il potere nel mondo è talmente cambiato negli ultimi vent’anni e quando si è disuniti si perde il proprio ruolo. A chi dichiara di andare a Bruxelles per fare gli interessi degli italiani e difenderli dall’Europa, dico falli e poi? Attenzione che nel mondo le grandi imprese a rete che comandano (Google, Alibaba, Amazon…) sono tutte americane e cinesi. Tra le prime venti ce n’è una sola europea, è al 19esimo posto. Allora vogliamo proprio finire male perdendo ogni anno un po’ del nostro ruolo nel mondo?»

EUROPA UNIONE DI MINORANZE

Per de Bortoli «è come se si fosse annacquata una riserva di valori, di identità, di storia. C’è un problema serio di memoria. Oggi le famiglie politiche europee rischiano di diventare dei raggruppamenti di partiti nazionali dentro un’Europa minima cui deleghiamo alcune funzioni. Invece la forza dell’Europa è di essere un’unione di minoranze che stanno insieme. Pensate a come ha fatto da stanza di compensazione nel caso della Catalogna. C’è una foto di Kohl e di Mitterrand che si danno la mano nel cimitero di Verdun dove ci sono i caduti della prima e della seconda guerra mondiale. È un’immagine simbolo, basterebbe semplicemente guardarla ogni giorno per capire cos’è l’Europa, in un momento in cui i torti si confondono con le ragioni, le vittime con i carnefici. È una sfida culturale e educativa». «La responsabilità europea è di aver perso tempo rispetto al proprio progetto politico – attacca Mauro -. Noi intendiamo la pace come voler essere lasciati in pace, ma non funziona così. Quando dico “viene la guerra” non è solo un refrain per dire che ci dobbiamo preoccupare. È un invito a riprendere la propria responsabilità che si fonda su quell’accordo tra vincitori e vinti all’origine dell’Europa che doveva operare come una garanzia per la pace. Parecchi anni fa in una riunione del Partito Popolare europeo ricordo di aver sentito Helmut Kohl rivolgersi alla Merkel con queste parole: “Angela permettimi di dissentire perché sento nei ragionamenti che fai la volontà di chi vuole non una Germania europea ma un’Europa tedesca”. Ecco il problema è qui: cosa vogliamo? I nostri ideali più grandi per cosa si spendono? Per poter dire in un coro che la mia voce si è sentita più forte della tua o per mettere in gioco un’armonia possente che spinga il mondo a ritrovare la ragionevolezza?»

LA FUNZIONE DELLA DEMOCRAZIA

Tarantini osserva che è come se non ci fosse più un motivo per rischiare qualcosa di più, per l’avventura della vita. È come se mancasse l’energia per affrontare questa sfida. Ricorda il libro di Stefan Zweig, «Il mondo di ieri». Ragioniamo in termini di protezione, come si faceva nell’impero austroungarico con i suoi sistemi assicurativi super evoluti alla vigilia della prima guerra mondiale, ma poi improvvisamente tutto crollò. Per Prodi siamo di fronte a un problema che non è solo europeo, con la crisi dei grandi partiti che riguarda tutti i sistemi democratici: «Le società crescendo si diversificano. La grande funzione della democrazia è mediare le diversità. Quello che mi preoccupa di più è che il mondo sta diventando ancora più ideologizzato. La teologia politica è tornata a essere fortissima: il mio sistema è migliore del tuo. L’Europa deve ritrovare la sua forza che le permette di essere arbitro nelle grandi questioni del mondo. Ma se non siamo uniti non andiamo da nessuna parte. Tutto cospira a togliere il ruolo europeo nella pace mondiale e ai nostri figli anche il benessere materiale. Attenzione però che è consentito essere ricchi e stupidi solo per una generazione. L’Europa è nata con una saggezza straordinaria che oggi non sappiamo più applicare».

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Tag:elezioni europee, Europa, Ferruccio de Bortoli, Mario Mauro, Romano Prodi

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
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