«Io sono fatto degli stessi elementi di un microfono, di un tavolo, di una sedia, di un orologio, di un pc, ma sono in grado di dire io, di dire tu, di chiedere perché ci sono, perché ci sei, perché una determinata cosa mi sembra giusta oppure ingiusta. Siamo il livello in cui qualcosa, fatto con gli stessi ingredienti fisici dell’orologio, del microfono, diventa cosciente di essere; l’uomo è il livello in cui la natura diventa cosciente di sé. La luna non lo può fare. Siamo noi la voce della luna, delle stelle, delle cose, la voce del cosmo che esprime questa domanda, che esprime questa curiosità. Emerge dopo 14 miliardi di anni una voce come il vertice della creazione, siamo noi, pur così effimeri». A parlare è l’astrofisico italiano Massimo Robberto, uno dei responsabili del telescopio spaziale James Webb, lanciato dalla Nasa il 25 dicembre 2021, orbitante a un milione e mezzo di chilometri dalla Terra, e che a partire da luglio 2022 ci ha regalato nuove splendide immagini a colori di galassie lontanissime.
Nebulosa planetaria fotografata dal telescopio Webb (Credits: NASA, ESA, CSA, and STScI)
Galassie che si sono formate circa 300 milioni di anni luce dopo il Big Bang, cioè dalla nascita dell’universo. Nella bellissima intervista rilasciata al quotidiano online ilsussidiario.net, di cui vi proponiamo la lettura questa settimana (sotto trovate il link per leggerla), Robberto illustra l’enorme passo avanti nella conoscenza dell’universo fatto grazie al nuovo telescopio e gli obiettivi del progetto, nella consapevolezza di trovarsi di fronte a un grande mistero. Un mistero in cui la realtà si svela come cosmo con un presentimento di ordine e bellezza davanti ai quali scatta lo stupore. «Sostanzialmente – spiega l’astrofisico -, non conosciamo il 96% delle cose che costituiscono l’universo, il creato in cui viviamo. Ma il mistero non è l’inconoscibile, è quello che si fa scoprire un passo alla volta, senza esaurirsi. Ogni volta che troviamo una risposta, la realtà ci apre a nuove domande. Perciò, il mistero è qualcosa che non smetti mai di scoprire, ci svela sempre qualcosa in più e, aprendo sempre nuove domande».
Elezioni europee e americane, online i video degli incontri
A questo link è possibile rivedere i video dei due incontri promossi dalla Fondazione San Benedetto sulle elezioni europee e sulle presidenziali Usa con gli interventi rispettivamente di Ferruccio de Bortoli, Mario Mauro e Romano Prodi, e diMarco Bardazzi e Lorenzo Pregliasco.
La vita nell’universo, la libertà della ricerca, la fede
Parla Massimo Robberto, responsabile del telescopio spaziale James Webb per la NASA
“Siamo ancora in una fase primordiale delle nostre conoscenze; possiamo dire che l’universo sembra geometricamente euclideo, ordinato, in continua espansione. E non ne percepiamo il limite; l’unico limite è dettato dal tempo che la luce delle galassie più distanti ha impiegato ad arrivare fino a noi, cioè quasi 14 miliardi di anni. Diciamo che l’universo ha un orizzonte, ma non possiamo dire sia infinito, un orizzonte ultimo che si allarga secondo per secondo”. Affermazioni impegnative, anche perché a farle è Massimo Robberto, l’astrofisico italiano che è uno dei responsabili del telescopio spaziale James Webb, lanciato dalla Nasa il 25 dicembre 2021, orbitante a un milione e mezzo di chilometri dalla Terra, e che a partire da luglio 2022 ci ha regalato nuove splendide immagini a colori di galassie lontanissime. Galassie che si sono formate circa 300 milioni di anni luce dopo il Big Bang, cioè dalla nascita dell’universo. In particolare, Robberto, che ha la doppia cittadinanza italiana e americana e lavora all’Istituto della NASA che gestisce i grandi telescopi spaziali, è stato per anni il responsabile di NIRCam, la principale fotocamera a raggi infrarossi installata sul telescopio. Si tratta di uno strumento che sta consentendo un enorme passo in avanti nella conoscenza dell’universo, sorpassando non solo tutte le immagini prodotte dai telescopi terrestri, ma anche da Hubble, già in orbita dal 1990 a 500 km dalla terra e attivo a tutt’oggi. Nell’intervista rilasciataci, Robberto ricorda le caratteristiche del telescopio spaziale James Webb, le scoperte fatte e affronta alcuni dei temi legati alla sua attività di scienziato. Iniziando dalla sfida che ha rappresentato la progettazione e la costruzione di questo strumento così innovativo, perché si tratta di un telescopio delle dimensioni di un campo da tennis, “molto più grande dello spazio disponibile nei razzi più potenti come l’Arianne 5, che è stato utilizzato per il lancio; perciò, si è dovuta trovare una nuova soluzione, costruirlo come un trasformer, un origami, in grado di aprirsi ed estendersi una volta liberato nello spazio, com’è poi effettivamente avvenuto”.
Professore, con Webb siete passati da Hubble, un telescopio che osserva nel visibile, a uno che osserva nell’infrarosso: perché?
Principalmente per percepire la luce debolissima delle stelle più lontane, arrossata dall’espansione dello spazio cosmico, ma anche per eliminare l’assorbimento dovuto alla polvere interstellare, che è opaca alla radiazione ottica.
Come avete evitato l’accecamento del telescopio da parte della luce infrarossa emessa dal sole, dalla terra e dalla luna?
Gli strumenti e lo specchio di 6 metri e mezzo di diametro, costituito da 18 esagoni in berillio e ricoperto d’atomi d’oro, non è mai esposto direttamente alla luce, potremmo dire al calore di questi astri, perché protetto dalla copertura assicurata da 5 grandi strati di materiale isolante, che permettono di raggiungere 230-240 gradi centigradi sottozero. Isolando il telescopio dalle sorgenti di calore, lo lasciamo esposto alla temperatura dell’universo, che è meno 270 gradi; diciamo che si raffredda passivamente, senza frigoriferi o cose simili. Viceversa, le parti del telescopio esposte al sole e alla terra sono calde, arrivando a 85 gradi centigradi.
Anche lo specchio del telescopio è stato ripiegato per farlo entrare nell’Arianne 5?
Certo. Una volta liberato e dispiegato nello spazio, ci son voluti 6 mesi di regolazioni per far lavorare in sincronia, noi diciamo “in fase”, i 18 specchi esagonali e permettere agli strumenti di ricevere la luce, raccolta da un unico grande specchio. È molto meglio che raccogliere 18 immagini sovrapposte, prodotte da singoli telescopi.
Quindi, lanciato a Natale del 2021, ha prodotto i primi risultati già a luglio 2022?
Sì, e da subito si è trattato d’immagini e dati inediti spettacolari, perché riguardanti zone dell’universo mai osservate così chiaramente a queste lunghezze d’onda. Immagini e dati liberamente visibili in diretta sul sito internet della Nasa. Si tratta di una mole enorme e crescente d’informazioni. La Nasa seleziona ogni anno i migliori programmi di ricerca e le équipe di scienziati che utilizzeranno il telescopio. La competizione è enorme.
Quali obiettivi vi siete dati per Webb?
Innanzitutto, vogliamo capire come e quando sono nate le prime stelle e le prime galassie, spingendo la ripresa delle immagini e dei dati alle distanze più estreme del cosmo. Bisogna pensare che il cielo è nero, segno che più in là di un certo limite, ovvero abbastanza indietro nel tempo, c’è poco o nulla. Vogliamo arrivare agli inizi.
Secondo obiettivo?
Capire come sono cresciute le galassie sino ad ora, se e come si sono formate aggregando piccole galassie iniziali, da dove deriva il buco nero che ogni galassia sembra avere al suo interno. E poi la storia della formazione stellare. Vediamo che le galassie hanno formato stelle in misura sempre crescente nei primi 4-5 miliardi di anni, fino a raggiungere un massimo. È stato come se ci fossero i fuochi d’artificio. Poi si è verificato un rallentamento; perciò, siamo interessati a capire perché si è realizzata questa evoluzione, cos’è cambiato, come funziona l’universo.
Ma non solo…
Un altro tema riguarda la formazione delle stelle, dei loro pianeti. La terra è coetanea del sole, è nata circa 4,6 miliardi di anni fa; la formazione delle stelle e dei pianeti viaggiano in parallelo. Vorremmo capire meglio come avviene, perché da questo dipende la probabilità di trovare vita altrove nell’universo. E poi, le stelle normalmente non nascono isolate, ma insieme ad altre; perciò, possono influenzarsi reciprocamente, in particolare le stelle più grandi hanno la capacità d’interferire e persino distruggere i dischi attorno alle stelle più piccole, ossia gli ambienti in cui si formano i pianeti. Anche la terra è nata in un disco attorno al nostro sole: il piano dell’eclittica rappresenta la memoria del nostro disco primordiale. Sappiamo poi che il sole è nato vicino a grandi stelle, ma, per qualche motivo, il nostro disco è riuscito a sfuggire alla distruzione che, invece, tante volte l’universo documenta.
Infine, il quarto obiettivo.
Lo studio dei pianeti, vederli uno ad uno, conoscere le loro caratteristiche, comprendere se esistono e quanti sono quelli come la nostra terra, anche se probabilmente non sarà Webb a studiarli in dettaglio. Infatti, per questo stiamo già lavorando ad un nuovo gigantesco telescopio spaziale.
Avete trovato tracce di vita nell’universo?
No, ma studiando un disco in via di distruzione nella nebulosa di Orione, tempestato dai raggi ultravioletti di una grande stella vicina, ci siamo imbattuti nella molecola CH3+, mai osservata prima, che sappiamo essere un anello critico della catena chimica, che può portare alle molecole organiche. Viene quindi spontanea la domanda sull’azione dei raggi ultravioletti, che da un lato vediamo distruggere i dischi primordiali, dall’altro sembrano facilitare la formazione di questa molecola. Abbiamo una domanda nuova. Sembra proprio essere il gioco del mistero.
Cosa ci può dire a riguardo del nuovo telescopio spaziale Nancy Grace Roman, che la Nasa vorrebbe lanciare tra alcuni anni?
I test del telescopio stanno andando avanti bene e contiamo di rispettare la data di lancio prevista, maggio 2027.
Lei ha accennato al mistero, pur in presenza di passi giganteschi in avanti nelle vostre ricerche. Perché?
Abbiamo una sfera di conoscenze che si espande, non fa vedere segni di crisi. Sostanzialmente, non conosciamo la natura della Dark Matter e della Dark Energy, cioè il 96% delle cose che costituiscono l’universo, il creato in cui viviamo. Ma il mistero non è l’inconoscibile, è quello che si fa scoprire un passo alla volta, senza esaurirsi. Ogni volta che troviamo una risposta, la realtà ci apre a nuove domande. Perciò, il mistero è qualcosa che non smetti mai di scoprire, ci svela sempre qualcosa in più e, aprendo sempre nuove domande, provoca continuamente la nostra curiosità.
In altre occasioni, lei ha affermato che “costruire un telescopio spaziale come il James Webb è un po’ come realizzare una cattedrale, perché sono stati necessari 25 anni di lavoro, la collaborazione di circa 10mila persone e la spesa di 10 miliardi di dollari”. Cosa vi motiva ad imprese così impegnative, non prive di rischi d’insuccesso?
Innanzitutto, fare una cosa nuova, più grande, è ciò che ci mantiene in cammino verso il futuro. Non farlo, ritenendo sufficiente ciò che sappiamo, lo status quo, ci porta alla decadenza. E poi ho una mia visione, mi sembra ci sia una legge di natura, perché ciò che siamo nel cosmo ci dà una responsabilità, ci obbliga a proseguire nella ricerca. Io sono fatto degli stessi elementi di un microfono, di un tavolo, di una sedia, di un orologio, di un pc, ma sono in grado di dire io, di dire tu, di chiedere perché ci sono, perché ci sei, perché una determinata cosa mi sembra giusta oppure ingiusta. Siamo il livello in cui qualcosa, fatto con gli stessi ingredienti fisici dell’orologio, del microfono, diventa cosciente di essere; l’uomo è il livello in cui la natura diventa cosciente di sé. La luna non lo può fare. Siamo noi la voce della luna, delle stelle, delle cose, la voce del cosmo che esprime questa domanda, che esprime questa curiosità. Emerge dopo 14 miliardi di anni una voce come il vertice della creazione, siamo noi, pur così effimeri. Per questo dico che è una responsabilità. O siamo questa voce “cosmica”, o non siamo al nostro livello. Da tempo quest’idea mi accompagna ogni giorno e devo dire che mi fa iniziare la giornata in modo diverso.
Che cosa rende bello l’universo?
In greco antico, per parlare del cielo usavano la parola Ūrānòs, mentre cosmo, in greco, significa ordine. Descrive la realtà nella sua profondità, che non è un caos, ma è ordinata. La questione della bellezza mi sembra legata alla realtà quando si svela come cosmo: è un presentimento di ordine, di ragione, di senso, che percepiamo almeno in certe situazioni. Almeno come domanda. Quando ci sorprendiamo davanti a ciò che presentiamo corrispondere a questo livello segreto, in noi scatta lo stupore e diciamo “che bello”. A me succede così!
Lei è credente. Quale relazione ha la sua fede con il lavoro di scienziato?
Come temperamento, inclinazione, tenderei a privilegiare l’aspetto razionale, diciamo che non ho un’istintiva propensione alle pratiche religiose. Non è stato per lo studio dell’universo che sono arrivato alla fede, perché credo che la realtà sia una provocazione, una domanda, un enigma. Per me la chiave di risposta è venuta da un’altra direzione, dall’incontro con Cristo, innanzitutto attraverso i suoi testimoni. Se Cristo è ragionevolmente vero, allora ti scopri a pensare che l’enigma ti è Padre, che questo Padre è il fattore che sta dietro e dentro la realtà. Poi, se penso a quanto è grande l’Universo, mi viene da dire che sicuramente è un Padre grandioso e stravagante, come si dice, onnipotente. Ma tutti questi pensieri, questo stupore sorgono per l’incontro con Cristo, con i suoi. Comunque per me Cristo da scacco matto al problema della fede e della ragione, della scienza. In questi anni si stanno affermando regimi totalitari…
Quale legame esiste tra libertà e ricerca scientifica?
È un problema complesso, ma mi sembra che la questione di fondo sia l’amore alla verità. La ricerca scientifica è un modo in cui si declina l’amore alla verità. I regimi totalitari, ideologici, hanno ovvi problemi con la verità; infatti, la prima cosa che fanno è sopprimere la libertà di stampa e di pensiero, per avere un’unica narrativa propagandistica. Ma possono tollerare una certa ricerca scientifica, in particolare se può essere orientata agli interessi (militari, propagandistici) del potere. Il punto, credo, è che la forma mentis degli scienziati, come quella degli artisti e in generale di chi ama la verità e ha uno sguardo vivo e profondo sulle cose, diciamo pure religioso, difficilmente può esprimersi compiutamente in una cultura nemica della creatività. Se invece è quest’ultima ad affermarsi, la decadenza è inevitabile.
Le immagini dello scontro di venerdì in diretta tv fra Zelensky e Trump hanno reso plasticamente evidente la fase di profonda confusione (unita alla debolezza dell’Europa) che il cosiddetto mondo occidentale sta attraversando. È come se avesse perso la bussola e non riuscisse più a ritrovare la strada. Sulla crisi dell’occidente questa settimana vogliamo segnalare due letture come spunto di riflessione. La prima è un’intervista del filosofo e accademico di Francia Alain Finkielkraut alla Revue des Deux Mondes nella quale analizza l’attuale rifiuto dell’occidente, che attribuisce a una combinazione di ostilità esterna e autodenigrazione interna, alimentata da wokismo e populismo. Finkielkraut difende la necessità di preservare l’eredità intellettuale e culturale occidentale contro queste forze distruttive. La seconda lettura è uno stralcio di un recente intervento di Bari Weiss, giornalista che nel 2020 si era dimessa polemicamente dal New York Times per la deriva woke del quotidiano americano fondando il sito di analisi The Free Press. Ebrea, lesbica e millennial, nel suo intervento spiega come oggi con Trump ci troviamo di fronte a una deriva illiberale di destra nata come reazione alla cancel culture. « Se abbiamo imparato qualcosa in quest’ultimo tumultuoso decennio – conclude Weiss -, è che gli esseri umani ben determinati sono l’unica cosa che si frappone al disfacimento. Le persone sono le uniche a presidiare il confine tra la civiltà e i suoi nemici esterni e interni».
Lunedì ricorrono i tre anni dall’invasione russa e dallo scoppio della guerra in Ucraina con la sua scia infinita di morte, miseria, distruzione. Assetti internazionali che, almeno apparentemente, sembravano consolidati e garantiti appaiono profondamente «terremotati». E la percezione di una destabilizzazione incombente è forte, mentre il disorientamento e la confusione si allargano. In questa situazione è ancora possibile fare spazio alla speranza? E come? La speranza è peraltro il tema del giubileo che ci accompagnerà per tutto il 2025. Proprio su queste domande affrontate dal punto di vista della fede si sofferma il dialogo pubblicato nei giorni scorsi dal Foglio con Mauro Giuseppe Lepori, abate generale dei Cistercensi, che vi invitiamo a leggere. «Siamo sicuri – chiede l’intervistatore a Lepori – che il cristiano di oggi sappia davvero che cos’è la speranza cristiana? Non è che la confonde ancora con quell’andrà tutto bene che si sentiva ripetere in tempo di lockdown, quasi fosse una sorta di esorcismo? Pare quasi, viene da pensare, che speranza e ottimismo siano la medesima cosa». Per Lepori «la speranza non è tesa al futuro, ma all’eterno che ci accompagna nel presente della vita. In fondo, la speranza non attende nulla di particolare o definito. La speranza attende tutto da Dio, e perché lo attende da lui, attende sempre il meglio, anche se apparentemente il futuro sarà catastrofico. La speranza si fida senza condizioni».
Del tema dell’immigrazione sentiamo parlare di continuo, ma spesso il dibattitto pubblico e le prese di posizione risentono di un punto di vista ideologico nel modo di affrontare il problema. E, comunque la si pensi, questo approccio impedisce di guardare un fenomeno molto complesso nelle sue mille sfaccettature e senza ricadere nelle solite semplificazioni. Di fronte a una delle sfide più grandi del nostro tempo è invece interessante l’analisi che ne fa la scrittrice Susanna Tamaro in un ampio articolo pubblicato pochi giorni fa sul Corriere della Sera. Un’analisi fondata anche sulla sua diretta esperienza personale, che si sottrae alla trappola dello scontro ideologico pro o contro l’immigrazione. Si chiede subito se «è possibile parlare del problema dell’immigrazione incontrollata senza dare un calcio al principio etico della nostra civiltà — la sacralità della persona — e al tempo stesso senza continuare ad aggirarsi come sonnambuli tra le nebbie del multiculturalismo?». In particolare Tamaro invita a considerare i migranti come persone e non come una categoria sociale generica o astratta, senza nascondere le criticità che emergono soprattutto quando l’immigrazione sia incontrollata. «Santificare un’intera categoria, tendenza sempre più in voga – scrive -, vuol dire non essere in grado di vedere la realtà e dunque l’incapacità di relazionarsi in modo sano con essa». Proprio di questo approccio realista abbiamo bisogno per affrontare una questione decisiva per il nostro futuro.