L’orgoglio di essere italiani secondo Susanna Tamaro
L’orgoglio di essere italiani secondo Susanna Tamaro
Data 22 Giugno 2024
Cosa vuol dire essere italiani? Ha ancora senso parlare di identità nazionale in un paese che spesso appare sempre più sfilacciato e diviso fra contrapposizioni che sembrano più forti di qualunque coscienza di un destino comune? Su questo tema nella nostra newsletter settimanale oggi vogliamo proporvi la lettura dell’articolo di SusannaTamaro pubblicato nei giorni scorsi sul Corriere della Sera.
La scrittrice Susanna Tamaro (foto Fondazione San Benedetto)
Le sue considerazioni nascono dalla sua esperienza personale ma vanno oltre arrivando a riscoprire le tracce di un’identità che affonda le sue radici in una storia carica di grandezza, di bellezza e di gusto della vita. «Siamo stati per secoli il sogno dell’Europa – sottolinea la scrittrice -, lo saremmo ancora se riuscissimo a vincere la faziosità, l’infantilismo e l’idea che chi grida più forte o dice frasi più offensive abbia il diritto di imporsi sugli altri, offrendo l’immagine di un Paese in balia di ripicche umorali e campanilismi da bar che non rendono onore alla grandezza dell’Italia e alla sua storia».
Oltre guelfi e ghibellini, ecco perché amo la mia patria
di Susanna Tamaro
dal Corriere della Sera – 15 giugno 2024
Com’è stato bello assistere alle incredibili vittorie degli atleti azzurri in queste serate magiche, è stato altrettanto bello sentire i pochi esclusi dal medagliere dire: «Andiamo avanti. Dalle sconfitte non si può che imparare». C’era orgoglio in loro e un forte spirito di squadra, entrambi sentimenti piuttosto rari nei vari campi della realtà nazionale dove vive ormai immutata la legge del «tutti contro tutti». Se non domato dalla cultura, il guelfo e il ghibellino sonnecchiano nella maggior parte di noi. Per diventare un atleta di livello bisogna fare molti sacrifici, e accettare il fatto che la realtà esista e che ci parli dei limiti che dobbiamo superare e della forza interiore a cui dobbiamo attingere per farlo. Cosa manca davvero a gran parte degli italiani? La fierezza e l’orgoglio di esserlo.
Anni fa ho visto un bel documentario di Pascal Plisson, Vado a scuola: il grande giorno che raccontava i viaggi impervi che quattro bambini provenienti da zone disagiate dovevano affrontare per raggiungere la loro scuola: attraversavano savane, deserti, montagne, a piedi, a cavallo — uno addirittura veniva spinto dal fratellino su una sedia a rotelle — solo per raggiungere ogni giorno il luogo che avrebbe potuto offrire loro la possibilità di un cambiamento. Appena arrivati, prima dello squillo della campanella, si radunavano in cortile per l’alzabandiera, cantando in coro l’inno del proprio Paese. È lo stesso orgoglio che ho visto brillare in questi giorni negli occhi dei nostri atleti sul podio, mentre al parlamento esplodevano le solite indegne risse.
I miei antenati sono stati irredentisti, quando sono nata, Trieste era stata da poco restituita all’Italia, dunque l’essere italiani veniva visto come una conquista e un privilegio di cui essere orgogliosi. Le maestre ci facevano imparare canzoni patriottiche e tutto ciò che esisteva al di là di Monfalcone, cioè l’Italia, era considerato come uno scrigno delle meraviglie. Venivamo interrogati davanti alle carte geografiche mute sulle quali dovevamo indicare con sicurezza le varie regioni, i capoluoghi di provincia, i nomi dei fiumi e le diverse denominazioni delle Alpi. Conoscere la realtà geografica dell’Italia non è forse uno dei modi per capire e per rendersi conto di vivere in un Paese straordinario?
Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi? Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».
«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.
È un tema scomodo quello che affronta Susanna Tamaro nel suo ultimo libro «La via del cuore». Parla della nostra trasformazione, della crisi della nostra umanità, di un processo in atto che ci riguarda nel profondo. Nella newsletter di questa settimana vi segnaliamo la lettura dell’articolo che la stessa Tamaro ha scritto per il Corriere della Sera in occasione dell’uscita del libro. Cita Romano Guardini che più di sessant’anni fa parlava di un «potere in grado di penetrare nell’atomo umano, nell’individuo, nella personalità attraverso il cosiddetto “lavaggio del cervello”, facendogli cambiare contro la sua volontà la maniera in cui vede sé e il mondo, le misure in cui misura il bene e il male». È quanto sta avvenendo oggi in modo accelerato con «l’irrompere nella nostra vita dello smartphone e dei social», con conseguenze molto gravi soprattutto per i bambini. «Veniamo continuamente spinti a inseguire la nostra felicità – scrive Susanna Tamaro -, dove la felicità altro non è che il soddisfare ogni nostro più bizzarro desiderio perché non c’è alcuna legge nel mondo, nessun ordine al di fuori dei diritti del nostro ego». Siamo immersi in un «lunapark di distrazioni» che al fondo è segnato da un «odio per la vita» che non è più «un dono, una grazia, un’imprevedibile avventura, ma un peso angoscioso di cui liberarsi». La postura dell’uomo contemporaneo, come sosteneva Hannah Arendt, diventa così il risentimento. Eppure si può invertire la rotta. «Abbiamo sostituito il cuore di carne con un cuore di pietra – conclude Tamaro – e la situazione di limite in cui ci troviamo ci parla proprio della necessità di invertire la rotta, di essere in grado nuovamente di percepire le due vie che appartengono alla nostra natura (la via del bene e la via del male) e di essere consapevoli che la nostra umanità si realizza in pienezza soltanto nella capacità di discernimento. Il bene, seppure con tempi misteriosi, genera altro bene, mentre il male è in grado soltanto di provocare ottusamente altro male».