Dopo la pausa estiva riprende da oggi l’appuntamento domenicale con la nostra newsletter settimanale “Fissiamo il pensiero”. All’inizio di un nuovo tratto di cammino, che nel 2025 coinciderà con i vent’anni di vita della Fondazione San Benedetto, vogliamo soprattutto sottolineare il senso della nostra presenza. Lo facciamo proponendovi un articolo di Giuseppe Frangi apparso nei giorni scorsi sul quotidiano online ilsussidiario.netche descrive bene la traiettoria nella quale si colloca anche il nostro percorso come fondazione. Domenica 25 agosto si è chiuso il Meeting di Rimini ed è stato annunciato il titolo della prossima edizione nel 2025 che riprende un verso del poeta Thomas Stearns Eliot: «Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi».
Thomas Stearns Eliot (1888-1965) (Foto dal web)
Il deserto è il mondo nel quale viviamo oggi. «Basta guardarsi attorno – scrive Frangi – per rendersene conto: non è un mondo né sazio, né disperato, a dispetto di tanta sofferenza che lo attraversa e anche delle guerre che imperversano ferocemente a poche ore di aereo. È un deserto anomalo dove la vita continua indisturbata a “prosperare”», in cui gli uomini «fondamentalmente stanno bene», in cui attorno a sé può succedere qualunque cosa ma è come se si fosse anestetizzati. Il verso di Eliot invita in questo deserto a costruire con mattoni nuovi. Ed effettivamente la volontà di costruire non manca, si esprime in tante proposte. «Eppure se siamo onesti – continua l’articolo – dobbiamo ammettere di avvertire una fondamentale inadeguatezza rispetto all’invadenza così totalitaria di questo deserto». Il mattone sarà davvero nuovo e quindi «in grado di operare nel deserto solo se liberato da ogni nostro protagonismo e da ogni nostro calcolo». Questo è il nostro tentativo aperto a chiunque sia interessato a condividerlo.
Elezioni USA, verso lo scontro finale: incontro il 27 settembre
In vista delle presidenziali americane del prossimo novembre la Fondazione San Benedetto promuove un nuovo incontro pubblico, dopo il grande interesse che ha avuto quello organizzato a maggio, per conoscere da vicino cosa sta accadendo negli USA. L’appuntamento sarà venerdì 27 settembre alle 18, a Brescia al Centro Paolo VI, in via Gezio Calini 30. Lo scenario completamente cambiato, per molti aspetti in modo imprevedibile rispetto a tre mesi fa (dall’attentato a Trump al ritiro di Biden con la candidatura di Kamala Harris), rende estremamente interessante e attuale questo incontro. Interverranno Marco Bardazzi, giornalista che sta seguendo le elezioni USA per il quotidiano Il Foglio, e Lorenzo Pregliasco, analista politico, co-fondatore e direttore di YouTrend. Due relatori molto preparati che conoscono bene gli Stati Uniti e che chi era presente al precedente incontro di maggio ha potuto apprezzare. PER PARTECIPARE È NECESSARIO REGISTRARSI A QUESTO LINK.
“Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi”. Quali sono i luoghi deserti additati dal versetto di Thomas Stearns Eliot che fa dà titolo del prossimo Meeting? È lo stesso poeta a suggerirlo in un altro versetto della stessa opera, i Cori da “La Rocca”, scritti nel 1934. Sono i luoghi dove “gli uomini hanno abbandonato Dio non per altri dei, dicono, ma per nessun Dio; e questo non era mai accaduto prima”. È un giudizio che trova un riscontro con quello emesso da Charles Péguy, un paio di decenni prima: “Abbiamo il dolore di vedere mondi interi, umanità intere, vivere e prosperare dopo Gesù senza Gesù”. È il realismo dei poeti capace di scavare ben più in profondità di qualsiasi analista o intellettuale.
S’è fatto dunque un deserto attorno a noi, ma non è propriamente quelloche con un po’ di schematismo siamo portati a intendere. Perché è un deserto in cui, come dice Péguy, gli uomini non solo continuano a vivere ma addirittura “prosperano”. In cui gli uomini fondamentalmente stanno bene. Basta guardarsi attorno, nel clima di questa fine estate, per rendersene conto: non è un mondo né sazio, né disperato, a dispetto di tanta sofferenza che lo attraversa e anche delle guerre che imperversano ferocemente a poche ore di aereo. È un deserto anomalo dove la vita continua indisturbata a “prosperare”.
Il versetto di Eliot usato per il titolo proseguepoi con l’invito a costruire su questo deserto usando “mattoni nuovi”. Ma quali sono questi possibili “mattoni nuovi”? In quanto persone contraddistinte da una predisposizione positiva verso la vita e verso gli altri siamo certamente in grado di mettere in fila tante buone proposte, certamente valide. Siamo capaci di azionare, in ogni ambito, un’ingegneria animata da volontà costruttiva: tante esperienze e tante storie lo testimoniano. Siamo anche dotati di una struttura culturale capace di dare risposte plausibili a tante questioni di fondo. Eppure, se siamo onesti, dobbiamo ammettere di avvertire una fondamentale inadeguatezza rispetto all’invadenza così totalitaria di questo deserto.
Don Giussani, commentando questa pagina di Eliot,un poeta che amava come pochi altri, ci mette sull’avviso. Scrive che questa “è la pagina più chiara sull’antitrionfalismo. Tante volte, noi siamo accusati di trionfalismo per la nostra volontà di affermazione del fatto cristiano nel tempo e nello spazio, nella storia. Invece, è profondamente antitrionfalista la nostra volontà di costruire”. Antitrionfalista significa che il mattone, simbolo della nostra volontà di costruire, è davvero “nuovo” e quindi in grado di operare nel deserto solo se liberato da ogni nostro protagonismo e da ogni nostro calcolo. E quindi anche dalla presunzione di credere che quel “nuovo” possa essere esito di un nostro sforzo, per quanto buono. Liberati da questa presunzione sapremo guardare con simpatia anche il deserto che abbiamo attorno, andando a mani vuote, con il solo desiderio di un nuovo inizio e lo stupore per una grazia incontrata.
«L’uomo che vuole fare senza Dio, fallisce. Alla fine dei conti, arriva a fare esperienza di vuoto. Di vuoto di senso. Non riesce a costruire prospettive a lungo termine. In questa società post secolare l’uomo è rimasto con la fame dentro. Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Mi viene ora in mente l’Inquisitore dei Fratelli Karamazov, “dategli il pane e staranno bene!”. Diamo il pane, diamo la giustizia umana… tutte cose che abbiamo già visto. Poi l’uomo si accorge che resta affamato, alla ricerca di qualcosa che gli riempia la vita e il cuore. Lì la Chiesa deve intervenire con la sua proposta». A parlare così è il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, in un’intervista davvero interessante pubblicata dal Foglio, che vi vogliamo proporre come lettura in occasione di questa Pasqua 2025. Un testo da leggere con grande attenzione che contiene passaggi illuminanti che vanno al cuore dei problemi di oggi. Nell’intervista Pizzaballa si sofferma sull’attuale situazione in Terra Santa, dove «niente tornerà più come prima», per passare poi alla crisi della Chiesa e al tema della fede. «Non dobbiamo temere i cambiamenti – sottolinea il patriarca -, non dobbiamo vivere di paura. Sta finendo un modello di Chiesa. Credo che Benedetto XVI l’abbia detto bene: sappiamo che sta finendo qualcosa ma non sappiamo come sarà dopo. Si definirà col tempo. Anche questa crisi, dunque, produrrà qualcosa. Le nostre valutazioni sono sempre molto umane, c’è la tentazione del potere, dei numeri, della visibilità. Ci sta anche, eh. Dobbiamo essere visibili. Ma non dobbiamo temere più di tanto questo, perché c’è anche Dio, c’è anche lo Spirito Santo. C’è la Chiesa che, attraverso la testimonianza di tante realtà, crea ancora qualcosa di buono. Non avrei troppa paura. Bisogna preoccuparsi, e lo ripeto, di essere autentici, genuini. La Chiesa non deve fare marketing: la Chiesa deve dire che non c’è niente di meglio nella vita che incontrare Gesù Cristo». Quello di Pizzaballa è anche un forte invito a riscoprire la differenza che il cristianesimo introduce nella vita dell’uomo e della società: «Il rischio – spiega – c’è sempre, sia nella Chiesa sia fuori dalla Chiesa, quello di non complicarsi la vita, di stare nell’ordinario, fatto di orizzonti normali, che stanno dentro una comprensione solo umana. Mentre invece l’incontro con Dio rompe sempre gli schemi e su questo il cristianesimo deve fare la differenza. Se non la fa, puoi avere anche tante chiese e belle basiliche, ma diventi irrilevante perché non hai niente di importante da dire».
Mentre dai diversi fronti di guerra (Ucraina, Medio Oriente, Sudan, ecc.) non arrivano segnali che possano far sperare in un cessate il fuoco in tempi brevi, questa settimana vogliamo proporre un’interessante testimonianza del filosofo Rocco Buttiglione su Papa Giovanni Paolo II e sulla sua posizione nel 2003 di fronte alla guerra in Iraq che stava per scoppiare e che ha poi lasciato uno strascico infinito di morte e distruzione senza arrivare a una vera pacificazione dell’area. «Non contestava – scrive Buttiglione – il diritto dei governi di fare la guerra per tutelare l’ordine internazionale. Era però deciso a chiarire che si trattava di una guerra tutta politica, non una guerra di religione, non una crociata, non una guerra in cui la Chiesa dovesse o potesse prendere partito. Intuiva che quella guerra poteva scatenare un conflitto epocale fra le religioni ed era deciso a fare tutto il possibile per evitarlo. Alla fine del colloquio mi disse: “Noi abbiamo lottato per la verità e la giustizia sotto il regime comunista con le armi della non violenza. Non avevamo altra arma che l’appello alla coscienza dell’avversario e alla fine abbiamo vinto. L’Occidente ha tanti mezzi per convincere Saddam a rispettare l’ordine internazionale. Possibile che si decida comunque, alla fine, di fare ricorso alla forza delle armi?”». Una domanda estremamente attuale anche di fronte agli scenari di guerra di oggi.
Intelligenza artificiale, dipendenza dagli smartphone e dai social network, multitasking mediatico, uso sempre più pervasivo delle tecnologie digitali, difficoltà a distinguere le notizie vere dalle fake news. Sono solo alcuni aspetti contrastanti del mondo in cui siamo quotidianamente immersi. Su questi temi, tra luci e ombre, vogliamo soffermarci nella nostra newsletter per stimolare la riflessione. Lo facciamo attraverso due articoli, che consigliamo di leggere, dell’epistemologo Gilberto Corbellini sul Sole 24Ore, e del direttore dell’Istituto Mario Negri Giuseppe Remuzzi su La Lettura. Entrambi gli interventi, che partono da approcci e punti di vista diversi, documentano alcune ricadute che l’impatto con le tecnologie digitali sta avendo sulle nostre vite e sul cervello umano, di cui occorre essere consapevoli. Un impatto che rischia di essere particolarmente aggressivo sui più giovani.
foto uberoffices.com
Non si tratta assolutamente di demonizzare la tecnologia con inutili battaglie di retroguardia, fuori tempo massimo, o con altre idiozie del genere. Ci interessa invece utilizzarla in modo critico e consapevole; e questo è possibile. Tutto, come sempre, dipende dal soggetto, da ciascuno di noi. Come ha scritto recentemente lo scrittore Alessandro D’Avenia, se l’homo curvatus (quello che passa le sue giornate con lo sguardo curvato sullo smartphone e non si accorge più della realtà) «ha meno occhi non è colpa del telefono, ma di un cuore che quel telefono ha trovato vuoto». Così qualche giorno fa sul Corriere un lettore descriveva in una piccola lettera una scena emblematica: «Per un piccolo intervento, sono da pochi giorni in una camera d’ospedale a tre posti. Fino a ieri c’era anche Paolo, un degente boomer come me, andato via stamani. Da oggi ecco arrivare due sui 40 anni. Completamente rapiti dal cellulare, stanno distesi sul letto a guardarlo come un dio. Zero saluti, zero sguardi, zero di tutto. Con Paolo, invece, è bastato uno sguardo per conversare, sapere dove vive, che ha una figlia, che lui è in pensione, che non ha paura dei medici, prende farmaci e sta bene. In due giorni ci si è confidati giusto un po’, per rendere meno vuoto il tempo e non sentirsi soli. I due digitali 40enni invece… che tristezza l’adorazione di quel loro dio tascabile».