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Fissiamo il Pensiero

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Cristo si è fermato a Timor Est

  • Data 21 Settembre 2024

C’è la fede semplice e genuina delle 600 mila persone di Timor Est  o dei poverissimi abitanti dei villaggi fra la foresta e il mare in Papua Nuova Guinea che hanno accolto Papa Francesco durante il suo recente viaggio in Asia e Oceania. E pochi giorni fa, nell’udienza del mercoledì, ricordando il suo viaggio, il Papa si è detto «colpito dalla bellezza» di quei popoli «provati ma gioiosi». «Ho respirato aria di primavera», ha aggiunto, sottolineando di aver trovato una Chiesa «molto più viva in quei paesi». Una Chiesa che cresce non per proselitismo ma «per attrazione».

Alcune immagini dei 600mila fedeli presenti alla messa del Papa a Dili, capitale di Timor Est

E poi c’è la Chiesa stanca e autoreferenziale dei paesi europei che, nel deserto di umanità del mondo occidentale, sembra aver dimenticato l’originalità della fede in Gesù Cristo, preferendo occuparsi di altro. È un raffronto spiazzante che costringe chi crede a interrogarsi su cosa ne ha fatto della propria fede. Scrive Matteo Matzuzzi nell’articolo apparso sul Foglio di cui vi proponiamo la lettura: «Si è proprio sicuri che la fede genuina e semplice sia quella dei Sinodi infiniti che producono documenti, tabelle, schemi, strumenti di lavoro. Sinodi che vorrebbero combattere l’autoreferenzialità e poi finiscono per chiudersi in Vaticano per settimane a discutere di questioni che il mondo, fuori, conoscerà solamente attraverso sintesi e mediazioni? Si è proprio certi che ai popoli di Timor Est, di Singapore, ma anche al piccolo gruppo di fedeli della Mongolia o a quelli di Bangui interessino le elucubrazioni sul diaconato femminile, sul celibato sacerdotale, sulle attese del Cammino sinodale tedesco che tra un cenacolo sulla collegialità e l’istituzione di un Comitato ad hoc punta a rovesciare la struttura gerarchica della Chiesa? S’è mai domandato, qualcuno, perché i seicentomila cattolici riuniti per accogliere il Papa e pregare con lui siano tutti a Timor est e non nelle spianate bavaresi o nella Grand Place di Bruxelles?»

Elezioni USA, verso lo scontro finale: incontro il 27 settembre 

A grande richiesta dopo quello dello scorso maggio la Fondazione San Benedetto propone un nuovo incontro pubblico sulle presidenziali americane per capire da vicino cosa sta succedendo negli USA. In questi mesi i colpi di scena non sono mancati, dagli attentati a Trump al ritiro di Biden e alla candidatura di Kamala Harris.
Ne parleremo con l’aiuto di due esperti che conoscono bene gli Stati Uniti e che chi era presente al precedente incontro di maggio ha potuto apprezzare. Vi aspettiamo venerdì 27 settembre alle 18, a Brescia al Centro Paolo VI, in via Gezio Calini 30. Interverranno Marco Bardazzi, giornalista che sta seguendo le elezioni USA per il quotidiano Il Foglio, e Lorenzo Pregliasco, analista politico, co-fondatore e direttore di YouTrend.

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Un’isola a messa dal Papa, «per vedere Gesù»

di Matteo Matzuzzi – da Il Foglio 14 settembre 2024

Una distesa infinita di ombrelli bianchi e gialli a riparare una spianata di seicentomila fedeli giunti a Taci Tolu per assistere alla messa celebrata dal Papa. Poco meno di un terzo della popolazione di Timor est, che in tutto ne conta un milione e mezzo. Erano tutti lì, a salutare Francesco e a pregare con lui. Lembo estremo d’asia, il più cattolico e il solo – con le Filippine – ad avere una maggioranza di cattolici. I preti sono 347, tre i vescovi, sessantasei le parrocchie. Più un migliaio fra religiose e religiosi. Su quella spianata hanno trovato ossa umane, resti della guerra civile che ha devastato l’ex colonia portoghese che ha saputo, a fatica, riconciliarsi. “Qui il Vangelo è fonte di concordia sociale”, ha detto il Pontefice prima di ammonire sui rischi ancora presenti: povertà, alcol, abusi. E pure i coccodrilli, che fra i laghi salati che circondano la capitale Dili potrebbero avere la tentazione di farsi una passeggiata sulla terraferma e mordere. Non era un semplice avvertimento per così dire faunistico, quello di Francesco: “State attenti! Perché mi hanno detto che in alcune spiagge vengono i coccodrilli; i coccodrilli vengono nuotando e hanno il morso più forte di quanto possiamo tenere a bada. State attenti! State attenti a quei coccodrilli che vogliono cambiarvi la cultura, che vogliono cambiarvi la storia. Restate fedeli. E non avvicinatevi a quei coccodrilli perché mordono, e mordono molto. Vi auguro la pace. Vi auguro di continuare ad avere molti figli: che il sorriso di questo popolo siano i suoi bambini! Prendetevi cura dei vostri bambini; ma prendetevi cura anche dei vostri anziani, che sono la memoria di questa terra”. Chiaro riferimento a quelle colonizzazioni ideologiche contro cui Bergoglio si scaglia fin dal primo giorno che siede sul trono di Pietro.

Non c’è cronaca dell’infinito tour papale in estremo oriente che non abbia rimarcato la straordinarietà delle folle di Timor est. Eppure qui un Papa l’hanno già visto, Giovanni Paolo II nel 1989. Ma era tutt’altra faccenda, c’era la guerra, le divisioni evidenti, anche se quella visita segnò un passo fondamentale nel processo di autodeterminazione. Migliaia di persone di tutte le età assiepate lungo le strade attendendo il vescovo di Roma: festose ma ordinate, composte. Devote. Più interessate a sentire Francesco e a celebrare con lui l’eucarestia che a immortalarsi in selfie con croci, vescovi e parvenu per suggellare l’evento. “Timor è un piccolo paese, un’isola lontana, però la sua gente semplice vive l’originalità della fede in Gesù Cristo”, ha detto nel suo messaggio di ringraziamento l’arcivescovo di Dili, il cardinale Virgílio do Carmo da Silva.

Quanto stridono queste immagini, questa profonda devozione, con il deserto d’occidente, abitato dai “popoli dell’opulenza”, come li definì Paolo VI nella Populorum progressio. Oggi, a più di mezzo secolo di distanza da quel documento, si può dire senza pericolo di fraintendimento che quell’opulenza non è solo la ricchezza materiale, ma è molto di più. Drammaticamente, di più. E’ l’assuefazione a un modo di vivere in cui le domande ultime sono infilate a forza in un cantuccio, dove non ci si domanda più nemmeno se Dio esiste: semplicemente, il tema non interessa. Un mondo in cui ai dogmi di fede se ne sono sostituiti altri, estremizzando a tal punto concetti come laicità, uguaglianza e inclusività da non ricordarsi più neppure cosa volevano dire in origine. L’europa che nei sogni di Robert Schuman era quelle delle cattedrali, oggi si arrovella su tecnicismi e regolamenti. Dei due polmoni di fede e cultura che tanto a cuore stavano a Giovanni Paolo II, non c’è più traccia. Di radici, di qualunque origine fossero, neanche a parlarne. “Dove sei finita, Europa?” si chiese (e chiese agli astanti) Francesco quando ebbe occasione di parlare del Vecchio continente. I suoi valori, i suoi ideali, la sua anima. La fede profonda che aveva permesso di costruire Notre-dame – senza vetrate “contemporanee” – e decine di altre cattedrali con le guglie puntate verso le cose di lassù, oggi è retaggio di una storia perduta. Bisogna andare a Dili, nella piccola isola di Timor est per ritrovarla. Senza tanti orpelli, vero. Ma anche senza tanto interrogarsi su aggiornamenti, cambiamenti, sistemazioni, rivoluzioni, riforme. La fede semplice. Che poi è quella dei contadini che si fermavano in mezzo al campo mentre le campane del villaggio richiamavano alla preghiera dell’angelus di mezzogiorno, delle beghine che non capivano niente di quel che bofonchiava il prete in latino, ma intanto sgranavano il Rosario. A Dili, tra i coccodrilli veri o metafora delle colonizzazioni ideologiche, bastava la croce e il Papa, rappresentante di Cristo. Nient’altro.

Non è questione di povertà materiale, non solo almeno: le stesse scene si sono viste in Corea del sud, terra di evangelizzazione giovane e di fede dinamica. Allora torna alla mente una delle più antiche interviste rilasciate da Francesco, quasi agli albori del pontificato. Il Papa conversava con una rivista pubblicata in Argentina, nelle ville miseria di Buenos Aires: “Quando parlo di periferie, parlo di confini. Normalmente noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo. Questo è il centro. Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso, scopriamo più cose e, quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, da nuovi posti, da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa”. Aggiungeva, il Papa, che “una cosa è osservare la realtà dal centro e un’altra è guardarla dall’ultimo posto dove tu sei arrivato”. “L’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa”.

Colpirà ancora di più, allora, l’inevitabile paragone che si farà a fine mese, quando Francesco per la prima volta metterà piede nel cuore di quell’Europa che fino ad ora ha toccato solo marginalmente, nelle sue periferie. E non inizierà un viaggio entrando dalla porta laterale, bensì da quella frontale: Bruxelles, dopo il Lussemburgo. La capitale dell’unione che è al contempo l’emblema più evidente di come il cattolicesimo in Europa sia declinante e arranchi stanco verso qualcosa che lo ridesti, non sapendo però bene cosa. Nei mesi scorsi, al Foglio, l’arcivescovo emerito di Bruxelles, il cardinale Jozef De Kesel, ammise che “in una società secolarizzata la sensibilità religiosa non è più così grande come un tempo. La Chiesa e la sua fede non sono più onnipresenti. La fede cristiana non è più la convinzione dell’intera società. Ma questo non significa che Dio sia assente. Dio è all’opera in questo mondo, anche oltre i confini della Chiesa. Che le chiese siano vuote e scompaiano silenziosamente è semplicemente non vero. Naturalmente, in una società in cui tutti sono cristiani, le chiese sono necessarie ovunque. Non è così in una società secolare e pluralista. In questo senso, le chiese sono occasionalmente ritirate dal culto. E si presta molta attenzione alla destinazione che viene loro assegnata. Ma la grande maggioranza delle chiese rimane un edificio di culto. Anche a Bruxelles ci sono chiese molto affollate”.

Alla radice della stanchezza, forse, c’è anche quello che De Kesel definiva “un malinteso sul termine ‘aggiornamento’ tanto usato riguardo al Concilio Vaticano II: Papa Giovanni voleva effettivamente avvicinare la Chiesa al mondo. Fare in modo che non sia un mondo a sé stante accanto al mondo reale. Aggiornamento significa apertura al mondo. Ma non significa adattamento al mondo. Nella Bibbia, la tentazione del popolo di Dio è sempre stata quella di essere come le altre nazioni. Ma se la Chiesa deve offrire solo ciò che si può ascoltare altrove, non avrà alcun fascino. Ecco perché alla fine del mio libro scrivo che la Chiesa del futuro dovrà essere una Chiesa più confessionale: testimoniare il Vangelo nel modo più autentico possibile attraverso le parole e le azioni”.

Ecco che tornano le parole dell’arcivescovo di Dili: qui si vive l’originalità della fede in Gesù Cristo. Ed è la stessa cosa che accade in tante parti d’africa, dove decine di famiglie ogni domenica camminano per chilometri pur di partecipare alla messa. Mentre qui, da noi, si mandano lettere al vescovo se qualche parroco osa alternare le celebrazioni festive fra due chiese distanti due chilometri. La messa espressa, sotto casa, comoda come sosta fra la colazione al bar e il pranzo al ristorante. Il sud del pianeta parla al nord e chissà che da laggiù non arrivi prima o poi una nuova onda evangelizzatrice, che non è certo l’uso di preti e suore africane o asiatiche per sopperire alla carenza di vocazioni occidentali. Diceva a tal proposito Adrien Candiard che se “l’idea è quella di riempire la crisi della Chiesa occidentale con manovalanza africana o asiatica”, è meglio lasciar perdere: “Le suore del Madagascar hanno tanto da fare in Madagascar, anche sul terreno della missione, non portiamole qui ad assistere le suore anziane nella vecchia Europa”.

Il discorso è più profondo. Si è proprio sicuri che la fede genuina e semplice sia quella dei Sinodi infiniti che producono documenti, tabelle, schemi, strumenti di lavoro. Sinodi che vorrebbero combattere l’autoreferenzialità e poi finiscono per chiudersi in Vaticano per settimane a discutere di questioni che il mondo, fuori, conoscerà solamente attraverso sintesi e mediazioni? Si è proprio certi che ai popoli di Timor est, di Singapore, ma anche al piccolo gruppo di fedeli della Mongolia o a quelli di Bangui interessino le elucubrazioni sul diaconato femminile, sul celibato sacerdotale, sulle attese del Cammino sinodale tedesco che tra un cenacolo sulla collegialità e l’istituzione di un Comitato ad hoc punta a rovesciare la struttura gerarchica della Chiesa? S’è mai domandato, qualcuno, perché i seicentomila cattolici riuniti per accogliere il Papa e pregare con lui siano tutti a Timor est e non nelle spianate bavaresi o nella Grand Place di Bruxelles?

Certo, i programmi di riforma e le lettere pastorali di vescovi e arcivescovi infarcite dell’aggettivo “sinodale” (ovunque presente e declinato a seconda dell’argomento specifico, usato per giustificare l’accorpamento di parrocchie o per invocare nuovi catechisti… si fa tutto in nome della sinodalità, tanto per rimanere tranquilli) puntano a un ritorno alle origini, alla fede semplice e pura, quella senza troppe inutili sovrastrutture, senza gli orpelli e tutto ciò che sa di barocco o di eccessivo. Ma il risultato qual è? Che a forza di parlare di semplificazione e purificazione, sono aumentati i convegni e i gruppi di lavoro, le assise sinodali e le assemblee più o meno deliberanti, i rapporti e i documenti. Spesso accompagnati dai moniti vaticani seguiti dalle controrisposte di qualche episcopato baricadero. La fede genuina e delle origini è quella dei quindici secondi di benedizione suggeriti in Fiducia supplicans? A sentire quel che dicono i pastori delle Chiese dove la messa non è ancora ridotta a routinario appuntamento domenicale e nulla più, la risposta è negativa.

Una delle tappe più significative dell’ultimo viaggio papale è stata a Vanimo, in Papua Nuova Guinea. Città poverissima, tre supermercati per 150 mila abitanti, infrastrutture inesistenti: per gli indigeni dei villaggi vicini accorsi per vedere Francesco sono state allestite tende (gli alberghi sono solo due e riservati a chi ha ragguardevoli disponibilità economiche). Eppure, questa “scomodità” è un dettaglio in confronto alla possibilità di guardare in faccia il Pontefice: “Chi desidera vedere il Papa dice che è Gesù che viene, vuole ascoltarlo e ricevere la benedizione”, diceva alla vigilia del viaggio intervistato da Vatican News padre Alejandro Diaz, di origini argentine, monaco dell’istituto del Verbo Incarnato, missionario da un anno nel villaggio di Wutung. E’ colui che propose tempo fa a Francesco di recarsi lì. Racconta di quando ci si inoltra nella giungla per raggiungere i villaggi sparsi e lontani da tutto: “E’ una Chiesa che sta nascendo, ha ottant’anni di vita, stiamo seminando e già ne vediamo i frutti: si fanno tanti battesimi, la partecipazione alle liturgie eucaristiche è affollata, soprattutto di giovani e bambini. Abbiamo addirittura dovuto dire ai chierichetti di non venire tutti insieme perché sono troppi, alla messa del mattino ce ne sono venticinque! Nessuno li obbliga ovviamente, lo fanno perché lo desiderano”. Nei villaggi si va nel fine settimana, percorrendo strade fangose con ostacoli d’ogni tipo: “Arriviamo alle volte la sera tardi ma la gente ci aspetta. Confessiamo, celebriamo la messa. La gente esce dal villaggio, acclamando vedendoci arrivare, questo ti spacca il cuore, non puoi fare altro che piangere. E’ così assetata di Dio che ci edifica l’anima”.

Tag:Chiesa, Papa Francesco

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
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«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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