Vi segnaliamo anzitutto che a questo linkpotete trovare il video dell’incontro «Tra vita e morte, la vera battaglia» con Luciano Violante e Julián Carrón che si è svolto a Brescia il 15 novembre. Come abbiamo già scritto nella newsletter della scorsa settimana, è stato un incontro molto intenso per la qualità del confronto e gli spunti che ha offerto. Nella mattinata di giovedì 21 novembre al Teatro Sociale di Brescia si è invece tenuto il primo appuntamento del Mese Letterario School edition. Tutto esaurito con circa 700 studenti delle scuole superioribresciane presenti.
Il Teatro Sociale durante il primo incontro del Mese Letterario School edition
Valerio Capasa, uno dei relatori di punta del Mese Letterario, ha tenuto un incontro su Omero. Tantissime le domande dei ragazzi. Nei prossimi giorni sarà disponibile il video. È stato il debutto di questa nuova versione del Mese Letterario appositamente pensata per le scuole, che si affianca all’edizione tradizionale aperta a tutti che si svolgerà in primavera. E la risposta è stata sorprendente. L’11 dicembre si svolgerà il secondo incontro su Dante con Francesco Fadigati e il 19 febbraio l’ultimo su William Shakespeare con Edoardo Rialti. Riscoprire tre grandi autori del passato come compagni di viaggio che possono illuminare il presente e accompagnare il viaggio di ciascuno nella formazione della propria personalità, questo il senso del progetto.
Come suggerimento di lettura questa settimana vi proponiamo un’intervista inedita di Joseph Ratzinger, pubblicata nel 1988 solo sull’edizione tedesca dell’Osservatore Romano, contenuta nel volume delle sue opere in uscita il 25 novembre. Già allora appariva evidente, e tanto più lo è oggi, che non è più possibile essere credenti «per conformismo» o perché «trascinati dalla corrente». In questo panorama la religione non è sparita ma «va diffondendosi sotto forma di surrogati e degenerazioni». Il ricorso alle superstizioni o ad altre pratiche trascendentali ne sono un esempio. In un ambiente sempre più secolarizzato da dove può arrivare una riscoperta della fede cristiana? Ratzinger non ha dubbi: «Il Vangelo diviene credibile là dove ci sono persone che se ne lasciano completamente afferraree dove l’esperimento della vita diventa la sua conferma. Non abbiamo bisogno di ricette (ce ne sono sin troppe), ma di persone che sono colpite dal Vangelo». E poi ci sono «le crepe, nel mondo autoprodotto della banalità», che diventano sempre più evidenti e che possono aprire la strada al riconoscimento chenessun uomo può farsi da solo e all’incontro con Dio.
«Non abbiamo bisogno di ricette, ma di persone colpite dal Vangelo»
Pubblichiamo qui, riprendendola dal quotidiano Il Foglio, una parte dell’intervista, inedita in italiano, realizzata a Joseph Ratzinger (all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede) dall’edizione tedesca dell’Osservatore Romano nel 1988. Il testo fa parte di «In dialogo con il proprio tempo» (Editrice Vaticana), il nuovo volume, in tre tomi, dell’Opera Omnia di Joseph Ratzinger, in uscita il 25 novembre.
Viviamo in un tempo d’indifferentismo. Cresce il numero di coloro che la domenica non vanno a messa ed è spaventoso il numero di quelli che voltano le spalle alla Chiesa e l’abbandonano. Quale potrebbe essere la ragione per questa lontananza dalla fede, o forse “solo” lontananza dalla Chiesa?
Il nostro mondo è un mondo del fare tecnico.Non siamo in grado di fare tutto, ma molto, e speriamo di poter presto essere in grado di fare ancora di più. Gli uomini dubitano sempre più che Dio possa avere ancora qualche potere in un mondo sempre più analizzato con le leggi naturali, che ci si possa ancora attendere aiuto da lui. A questo si aggiunge il fatto che, in un mondo pieno di chiasso e di immagini, l’accesso a Dio risulta sempre più difficile. Come un tempo molti erano credenti soltanto per conformismo, perché si lasciavano trascinare dalla corrente, così oggi molti sono trascinati dall’indifferentismo senza una particolare decisione personale in proposito. Con tutto questo il fenomeno religione continua a essere presente in diversi modi: moltissimi di quelli che personalmente non praticano quasi per nulla la “religione” si augurano comunque che essa ci sia, anche se essi non se la sentono di dare un gran contribuito al riguardo. D’altro canto, la religione va diffondendosi sotto forma di surrogati e degenerazioni (superstizione, occultismo, pratiche chiamate trascendentali) che appaiono meno faticose e a prima vista promettono la stessa cosa. Una ragione per voltare le spalle alla Chiesa è naturalmente anche la condizione di profonda insicurezza nella quale la Chiesa sembra stare.
Il messaggio suona chiaro e inequivocabile: portare a tutti gli uomini il Vangelo. Che cosa si deve fare per sostenere in modo credibile la causa del regno di Dio in un ambiente sempre più secolarizzato?
Non esiste una risposta standard. Il Vangelo diviene credibile là dove ci sono persone che se ne lasciano completamente afferrare e dove l’esperimento della vita diventa la sua conferma. Pensi a Movimenti come i Neocatecumenali, Comunione e Liberazione – a come persone di ogni età e di ogni condizione sociale si lasciano avvincere dallo slancio della fede che vedono vissuta senza se e senza ma. Non abbiamo bisogno di ricette (ce ne sono sin troppe), ma di persone che sono colpite dal Vangelo e lo praticano.
Lei, Eminenza, è prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. A Lei in modo del tutto particolare è demandato il compito di operare per il retto annuncio del messaggio evangelico e della dottrina. Ne fa parte anche il dogma. Di recente ho letto questo aforisma: “Il dogma è come la patria: gli uni temono che li limiti, gli altri sono grati di conoscere la loro origine alla quale sempre possono ritornare”. Quest’aforisma coglie nel segno? E se sì, chi sono quelli che temono che sia loro tolto qualcosa e quelli invece che sono contenti di avere un porto sicuro? Che cosa si deve fare per gli uni e che cosa per gli altri?
L’origine del dogma è nell’incontro con una persona: Gesù Cristo.Dove questo incontro manca, il dogma resta una formula vuota. Per questo deve innanzitutto essere trasmesso l’incontro con Gesù Cristo. Se questo accade, tutto il resto viene da sé passo passo: che io possa avere relazione con lui non da solo, ma soltanto nella comunità dei suoi, la Chiesa; che questa relazione non sia mero sentimento, ma mi faccia conoscere la verità, cioè la partecipazione alla sua propria relazione con il Padre, conoscenza di Dio, perciò, e delle sue promesse. Tutto questo è riassunto nel Credo, che è un parlare del mio io nel “noi” della Chiesa rivolto al Signore, dal quale a mia volta io mi sento interpellato in primo luogo. Così il dogma, rettamente inteso, è dinamica di continuo auto-superamento e, insieme, sicurezza in una relazione che sostiene oltre la morte.
Riguardo alla diffusione e all’annuncio della fede, oggi, più che negli anni passati, si parla d’inculturazione. Che cosa significa questo concetto sul piano teologico, e che cosa comporta per la forma e l’impianto della fede in Africa, Asia, America Latina o anche nel così detto “Primo mondo”, in Europa e in America del Nord?
Per parlare d’inculturazione in modo sensato, bisognerebbe innanzitutto accordarsi su che cosa si debba intendere con “cultura”. In prima battuta, forse, la si potrebbe definire come il modo in cui, in un determinato contesto storico di vita, vien vista, interpretata e plasmata la realtà nel suo insieme. Se la fede vuole indirizzarsi agli uomini, deve naturalmente inserirsi in questa data forma di comprensione e di organizzazione del mondo ed esprimersi in essa. La cultura, perciò, da un lato, presta alla fede i suoi strumenti espressivi, ma, dall’altro, la fede, poi, plasma e trasforma la cultura. In rapporto alle culture esistenti, la fede, da un lato, è recettiva, ma, dall’altro, è anche creativa e critica. In generale è importante notare che le culture non sono realtà statiche e chiuse in se stesse. Si sviluppano storicamente e sono in un rapporto di scambio vicendevole. La grandezza di una cultura si misura anche in base alla sua capacità di trasformazione, alla sua possibilità di lasciarsi fecondare e rinnovare. E’ del tutto errata l’idea che la fede dovrebbe innanzitutto essere “purificata” da ogni precedente forma culturale per poi essere rivestita di nuove forme culturali. La sintesi a cui tendere è più difficile e dolorosa, ma per questo anche più profonda e feconda.
Partendo da ciò che è la fede oggi, è possibile affermare che molti nel cosiddetto Primo mondo percepiscono il loro cristianesimo come una favola, in cui non figurano né la loro macchina né loro stessi?
Penso che bisognerebbe guardarsi da simili generalizzazioni. La tentazione di fare della banalità della vita quotidiana il criterio di tutta la realtà naturalmente esiste, e da sempre la superbia di ergersi a giudici di tutte le cose ha rappresentato un ostacolo per l’incontro con Dio. D’altro canto, le crepe, nel mondo autoprodotto della banalità, diventano sempre più evidenti; parecchi forse rifiutano la fede perché percepiscono che altrimenti dovrebbero cambiare: una pretesa di fronte alla quale tutti continuamente indietreggiamo.
Quando si parla di ricerca di unità non si può semplicemente mettere un segno “uguale” fra la parte cattolica e le altre Chiese e comunità ecclesiali. Quali sono le differenze essenziali?
Non è possibile rispondere in poche parole.E’ giusto affermare che il concetto di “unità”, per le diverse comunità scaturite dalla Riforma, significa di volta in volta qualcosa di differente; che la Chiesa ortodossa lo comprende in modo completamente diverso; e che per la Chiesa cattolica – seppure molto vicina a quest’ultima – esprime a sua volta un’esigenza ancora diversa. Dietro la medesima parola “unità”, perciò, stanno finalità molto diverse. Poiché per le comunità riformate non esiste alcun magistero e neanche un ufficio episcopale sacramentale (come struttura di unità), l’unità si trova solo marginalmente nell’ambito istituzionale. Pertanto risulta relativamente facile chiedere l’intercomunione senza al contempo riflettere sulle sue profonde conseguenze. Al contrario, per noi, l’unità ha un carattere assai vincolante di tutt’altro genere. L’istituzione appartiene nella sua stessa essenza al mistero (vale a dire al Sacramento: l’ufficio episcopale come Sacramento). Sintantoché non è riconosciuta con chiarezza questa fondamentale differenza di fini, si va, senza accorgersene, in direzioni molto diverse nella ricerca dell’unità. Un’“intercomunione” per la quale i cattolici dovessero tacitamente rinnegare il loro concetto di sacerdozio e perciò di sacramentalità della Chiesa (vale a dire: la Chiesa come essi la intendono), non rappresenterebbe un passo verso l’unità ma un passo che allontana da essa. Perciò l’insistenza per l’intercomunione deve finire.
Quando si tratta di sottolineature, s’impone sempre anche la questione della comprensione di concetti e slogan. Uno di questi è la cosiddetta “maturità”. Che cosa significa “laicato maturo” per la vita della Chiesa?
All’inizio del dibattito sulla maturità, circa venti anni fa, Heinrich Schlierrimandò in proposito alle parole di Paolo, che mettono in luce il punto decisivo: non siate più bambini, sballottati e portati qua e là da ogni vento di dottrina (cfr. Ef 4,14). Maturità significa prima di tutto stare in profonda comunione interiore con Cristo, dalla quale scaturisce fermezza e serenità della fede di fronte alle mutevoli correnti d’opinione. Nella Prima Lettera ai Corinzi, Paolo afferma la stessa cosa quando dice: siete ancora immaturi, dal momento che c’è tra voi invidia e discordia (cfr. 1Cor 3,1-5). I partiti nella Chiesa sono un segno d’immaturità perché l’opinione mondana e l’egoismo prendono il sopravvento sulla fede. Che cosa sia la maturità, lo si può perciò imparare dai santi.
Un altro di questi concetti è quello di corresponsabilità. Che aspetto può o deve avere la corresponsabilità dei laici nella Chiesa?
La corresponsabilità può avere forme molto diverse.Una cosa però vale sempre: quanto più profondamente un uomo crede e vive la fede, tanto maggiore è il suo contributo per l’edificazione della Chiesa.
Lo scorso ottobre il Sinodo dei vescovi ha discusso la questione del ruolo del laico nella Chiesa. Quali stimoli sono da attendersi per il lavoro dei laici nella Chiesa e per l’evangelizzazione?
In ogni caso non si dovrebbe valutare il Sinodo in base al numero delle nuove organizzazioni e commissioni create. Il Sinodo dovrebbe contribuire a far sì che la Chiesa si occupi meno di se stessa e divenga più libera di dare testimonianza del Dio vivente a un mondo in attesa.
La newsletter di oggi è l’ultima prima della pausa estiva. Anche in queste settimane per molti dedicate al riposo e alle vacanze, mentre il mondo è in fiamme e gli orrori della guerra si moltiplicano, crediamo che non si possa far finta di nulla, aprire una parentesi o staccare la spina come si usa dire. Non si può andare in vacanza senza portarsi dietro queste ferite. Portarsele con sé rende più bello e più vero il tempo del riposo. Per questo oggi vogliamo proporvi la lettura di due testimonianze da due dei principali teatri di guerra: l’Ucraina e Gaza. Già scorse settimane avevamo ricordato il caso di Vasilij Grossman, lo scrittore ucraino che dentro lo scenario di morte prodotto dalle ideologie del ’900, non aveva mai smesso di cercare «l’umano nell’uomo» come inizio di una possibilità di speranza. Le testimonianze di oggi ci dicono che anche nelle situazioni più difficili, la violenza, la distruzione e la morte possono non essere l’ultima parola.
La prima, pubblicata sul sito «La Nuova Europa», è di Adriano Dell’Asta, professore di lingua e letteratura russa all’Università Cattolica e vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana. Racconta la storia di Alina, giovane donna ucraina, malata di cancro in fase terminale, che nei suoi ultimi giorni di vita ha trovato accoglienza in un hospice a Charkiv, mantenuto aperto anche sotto le bombe. Tutto sembra perduto, senza speranza, in guerre ogni giorno sempre più distruttive e spregiatrici di giustizia e umanità… eppure c’è chi lotta e resiste per accompagnare sin nella morte chi è senza speranza e riaffermare una dignità e una pace che nessun malvagio può cancellare. È l’infinita sorpresa di un miracolo reale che non sapremmo neppure immaginare.
La seconda testimonianza ci è offerta dalla dichiarazione fatta dal patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa al suo rientro dalla visita a Gaza insieme al patriarca ortodosso Teofilo III. «Siamo entrati – ha detto aprendo la conferenza stampa – in un luogo devastato, ma anche pieno di meravigliosa umanità. Abbiamo camminato tra le polveri delle rovine, tra edifici crollati e tende ovunque: nei cortili, nei vicoli, per le strade e sulla spiaggia – tende che sono diventate la casa di chi ha perso tutto. Ci siamo trovati tra famiglie che hanno perso il conto dei giorni di esilio perché non vedono alcuna prospettiva di ritorno. I bambini parlavano e giocavano senza battere ciglio: erano già abituati al rumore dei bombardamenti. Eppure, in mezzo a tutto questo, abbiamo incontrato qualcosa di più profondo della distruzione: la dignità dello spirito umano che rifiuta di spegnersi».
L’appuntamento con la newsletter «Fissiamo il pensiero» tornerà domenica 7 settembre. Buone vacanze!
Ci possiamo rassegnare passivamente al fatto che la nostra vita non abbia un senso? Nei giorni scorsi Repubblica ha pubblicato l’intervento fatto durante un incontro a Orzinuovi dal filosofo Umberto Galimberti. La sua conclusione è che di fronte al potere sempre più pervasivo del «mondo della tecnica», nel quale l’uomo non è più chiamato a «esistere» ma semplicemente a «funzionare», reperire un senso per la propria esistenza è «praticamente impossibile». Davanti a un’affermazione così tranchant non potevamo restare indifferenti. Come Fondazione San Benedetto abbiamo voluto replicare a Galimberti con una lettera pubblicata sul Giornale di Brescia che vi invitiamo a leggere sul nostro sito (se volete dirci cosa ne pensate potete scriverci a info@fondazionesanbenedetto.it). Il nostro unico e vero scopo, che sta all’origine di tutto quanto facciamo e proponiamo, è proprio quello di non arrendersi alla perdita del senso della vita, che vorrebbe dire smarrire se stessi. In questo don Giussani, a cui il nostro percorso si ispira, ci è stato maestro e testimone impareggiabile.
Ci siamo occupati più volte della crisi demografica. Un tema reale delle cui ripercussioni sul nostro sistema di vita spesso non si è ancora pienamente consapevoli. In questi giorni si è tornati a parlare, come succede ciclicamente, di misure a sostegno della maternità che sarebbero allo studio del governo. Vedremo nei prossimi mesi se si tradurranno in fatti concreti. Al di là di tali questioni (senz’altro importanti, ci mancherebbe) però qui vogliamo soffermarci sul tema della natalità non dal punto di vista sociale o politico, ma personale. Lo facciamo riproponendovi un recente articolo di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera che vi invitiamo a leggere. «Consiglio di fare figli», scrive. Parole che possono far discutere ma che ribaltano una prospettiva che in nome dell’autonomia individuale tende a limitare il contatto umano generando a lungo andare solo isolamento e solitudine.