Il popolo dei caregiver e una proposta: aiutiamo la Poliambulanza
Il popolo dei caregiver e una proposta: aiutiamo la Poliambulanza
Data 15 Dicembre 2024
foto rawpixel.com pic.
Sono oltre otto milioni gli italiani che ogni giorno si prendono cura di familiari non autosufficienti (disabili, anziani, malati cronici). Poco meno di un italiano su sette. Sono i cosiddetti «caregiver». «Un esercito silenzioso di dedizione e fatica. Non riconosciuto, non supportato», scrive Maurizio Crippa che ha dedicato a questa figura un ampio e documentato articolo sul Foglio di cui consigliamo la lettura. Un tema di grande attualità considerato anche che viviamo in una società nella quale, con l’aumento della popolazione anziana, il numero delle persone non autosufficienti è destinato a crescere in misura significativa. Servono «ambiti di condivisione e aiuto» che spesso mancano lasciando sulle spalle dei soli caregiver tutto il peso delle diverse situazioni di bisogno.
Restando in tema di «prendersi cura», martedì a Brescia si è svolto l’incontro di fine anno della Fondazione Poliambulanza, grande ospedale privato a carattere non profit nato dal carisma delle Ancelle della Carità. In quanto non profit condivide le finalità del pubblico, cioè soddisfare i bisogni del cittadino senza ottenere profitti economici, i costi del pubblico e il trattamento riservato al settore privato per quanto riguarda i finanziamenti e gli aspetti fiscali. A differenza di altre strutture sanitarie private, non persegue quindi fini di lucro. L’incontro è stato un’occasione per presentare i dati più recenti sull’attività dell’ospedale con oltre 30mila pazienti ricoverati nel 2024, 90mila accessi al pronto soccorso, 2.150 collaboratori in servizio. «A fronte del sempre crescente numero di pazienti – ha spiegato il direttore generale Marcellino Valerio – sono state effettuate prestazioni per un valore di circa 6 milioni di euro oltre al budget assegnato, di cui 4 milioni di supero non finanziato relativo alle prestazioni ambulatoriali convenzionate con il Sistema Sanitario Regionale, e circa 2 milioni relative alle attività di ricovero del Servizio Sanitario Nazionale a ulteriore conferma del fatto che, nel nostro agire, mettiamo al primo posto i pazienti e le loro esigenze». Gli interventi che si sono succeduti del presidente della fondazione Mario Taccolini, del vescovo di Brescia Pierantonio Tremolada, della presidente della Consulta dei fondatori di Poliambulanza suor Gabriella Tettamanzie di fratel Gedovar Nazzari dell’Opera Don Calabria hanno messo in evidenza i frutti di una storia nata da un’originale intuizione creativa, quella di umanizzare la sanità, che ha saputo coniugare compassione e competenza nel segno della carità, dando vita a un polo sanitario di eccellenza di rilevanza nazionale. Da questi elementi appare evidente il valore per tutto il territoriodella presenza di una realtà come la Poliambulanza. Per la sua storia e la sue caratteristiche è un bene della comunità. Facendo nostro quanto ha sempre sostenuto l’ex presidente di Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti, e cioè che una comunità fatta di relazioni vive tra le persone si esprime in una capacità di solidarietà che è vicinanza al territorio, ascolto dei bisogni, progettualità, come Fondazione San Benedetto vogliamo avanzare una proposta: solo a Brescia città ci sono oltre 51mila nuclei familiari; se ognuno di questi devolvesse 10 euro alla Poliambulanza, questa avrebbe a disposizione 500mila euro da poter investire per rafforzare e potenziare la sua capacità di «prendersi cura». È una proposta semplice: attraverso un piccolo gesto possiamo dare un grande contributo a servizio della nostra comunità. A questo link trovate tutte le indicazioni per le donazioni, oltre alla possibilità sempre valida di destinare anche il 5 per millecon la dichiarazione dei redditi.
L’esercito di chi si prende cura
Miki e altri otto milioni come lui. Indagine sui “caregiver familiari”, una figura essenziale per la nostra società ma che esiste solo sulla carta. La legge che non arriva. Una vita “incostituzionale”
Lo chiameremo Miki. Un po’ perché, semplicemente,è il suo vero nome. Michele. Un po’ perché nella sua vita non c’è spazio per fantasie e per nomi di fantasia. E’ un caregiver familiare, Miki. E nella sua vita di uomo adulto che si prende volontariamente cura, ogni giorno e a ogni ora del giorno, di una mamma invalida e di un fratello maggiore disabile, lo spazio per le finzioni non esiste. E infine perché, soprattutto, la vita e la condizione che Michele affronta ogni giorno non è una stranezza, un caso del destino, ma è la condizione drammatica che moltissime altre persone come lui, “caregiver familiari” li chiama la legge, affrontano. Di solito da sole. Sono oltre 8 milioni in Italia le persone che si prendono cura di familiari non autosufficienti, più di un terzo di loro senza alcun supporto esterno; un esercito silenzioso di dedizione e fatica. Non riconosciuto, non supportato. Colpisce anche scoprire che almeno 500 mila di loro sono giovani tra i 15 e 28 anni, altro che ragazzi senza impegno e ideali. Un popolo cui si aggiunge oltre un milione di caregiver professionali, insufficienti anche loro: perché nel nostro paese le persone che hanno bisogno di assistenza domiciliare continua sono in costante crescita.
Miki ha gli occhi azzurri, fa il professore di matematica. Se avesse un’altra vita saprebbe come riempirla di passioni. Ma da quando è morto papà la sua vita è questa, e meno male che c’è l’Inter a riempirla di momenti felici. Una madre ora invalida al 75 per cento, un fratello disabile al 100 per cento, maggiore d’età. Che ora frequenta un centro del Comune, lo vengono a prendere col pulmino e lo riportano, “prima ci andava da solo, a piedi; ma in un quartiere come il nostro rischi sempre di fare un brutto incontro, una presa in giro o anche peggio”. Al centro sta dalle 8 e 30 alle 16, “ma tutto il resto poi è mio, lo faccio io. Da mangiare, lavarsi, le medicine”.
E quando per l’età non potrà più frequentare quel luogo specializzato? “Ci sono solo i centri per anziani, inadatti alla situazione di queste persone”. E’ sconsolato Miki: “Io sono solo, e se guardo in avanti non vedo nessuna prospettiva, nessun aiuto, nessuna soluzione. Ora parlo con te: perché voglio far conoscere la mia situazione e quella di tanti altri. E quello che vorrei gridare è questo: qualcuno si decide a prendersi carico di questa necessità? Perché la mia condizione di vita è, semplicemente, anticostituzionale”. In che senso è anticostituzionale? “Sotto l’aspetto dell’articolo 3, ad esempio: perché io non ho libertà di lavoro. Anzi faccio un lavoro, oltre al mio, che non è riconosciuto. E poi sotto il profilo della libertà personale, di movimento. Questi che sono i diritti di ciascuno, a me sono negati”. Non è una forzatura polemica, il racconto di Miki corrisponde a migliaia di altre vite che gridano lo stesso elenco di diritti impossibili, di aiuti che non ci sono se non in piccolissima parte, di domande che solo in apparenza appaiono paradossali. Ma non lo sono. Il tema del lavoro, ad esempio: “Un caregiver professionale riceve uno stipendio, ha diritti di welfare, accantona i suoi anni pensionistici. Io no, devo fare un altro lavoro per vivere, questo non mi è riconosciuto. Non dico con una forma di retribuzione (che pure secondo alcuni esperti dovrebbe e potrebbe essere introdotta, ndr) ma nemmeno nella forma di contribuzione figurativa per la pensione. Io ho davanti quasi vent’anni di lavoro, ammesso di farcela, ma mi verrà riconosciuta qualche mensilità di anticipo. E’ assurdo. Perché, al di là del logoramento personale, il lavoro del caregiver ha una funzione sociale e, banalmente, fa anche risparmiare molto la sanità pubblica”. Il tema della possibilità, almeno, di andare in pensione qualche anno prima mettendo in carico all’Inps, allo stato, la contribuzione di chi svolge un lavoro che è anche di natura sociosanitaria è tra i più sentiti. Ma non è l’unico. C’è il tema economico, ovviamente: la spesa per sostenere un familiare è stimata tra i 6700 euro mensili e i mille, ma i bilanci delle Regioni e dei welfare comunali sono stretti e in più variano a seconda delle condizioni – “per esempio: mio fratello non è allettato, può uscire, dunque ha diritto a un sostegno economico minino, anche se invece le spese vere le puoi immaginare” – e spesso non raggiungono la metà dei costi reali sostenuti. Ma c’è anche il tema definito del sollievo: “I caregiver professionisti vanno in ferie, noi no. E non tutti hanno parenti con cui darsi il cambio”.
Non si parla, o molto poco, di questo mondo che confina e sconfina con quello dell’assistenza sanitaria. Si parla della crisi di ospedali, medici e infermieri, ma i caregiver sembrano invisibili. Eppure in una società che invecchia, spesso in condizioni di solitudine personale, con i tagli all’assistenza pubblica e la scarsità di personale è invece sempre più cruciale capire questo lato nascosto della cura. Il primo Rapporto Cergas della Bocconi (2023) sulle prospettive per il settore sociosanitario e l’evoluzione della cura agli anziani (“long term care”) racconta che sono sempre di più gli over 65 non autosufficienti, si stimano circa tre milioni solo in questo ambito, ma le risorse investite rimangono costanti. Gli otto milioni di caregiver familiari si auto organizzano. Qualche tempo fa un’inchiesta del Corriere Salute ha dato loro un po’ di fiato, al di fuori dell’informazione specializzata, anche grazie a un questionario tra i lettori cui hanno risposto 2.116 caregiver: un frammento statistico significativo. In prevalenza donne tra i 45 ai 75 anni, in prevalenza alle prese con la vecchiaia e le sue cronicità, Alzheimer e Parkinson. Ma chi assiste figli o fratelli con disabilità dalla nascita sa che l’invecchiamento è un problema innanzitutto per sé stessi (esiste dal 2016 la legge “Dopo di noi”, dotazione 2024 di 76 milioni, ma non risolve se non in piccola parte il problema dell’affidamento di persone che rimarranno sole). Qualche settimana fa Netflix ha messo in streaming una serie polacca, “Le mamme dei pinguini”, che racconta la vita di una madre con un figlio autistico. Bene, ma non basta a svegliare l’attenzione. Pesa l’impatto sulla propria qualità di vita: solo il 20-30 per cento riesce a usufruire di qualche giorno di vacanza, di tempo libero.
La realtà osservata dal punto di vista di un caregiver è molto più sfaccettata di quanto sembri. Il contraccolpo che ne ha Michele è anche quello di una grande solitudine fisica e sociale: “Ognuno cerca di risolvere il proprio problema, ambiti di condivisione e aiuto non ci sono”. In verità le associazioni di caregiver esistono, anche se spesso circoscritte per ambiti di patologie, e a livello di assistenza pubblica – le Regioni, i Comuni, gli sportelli che accolgono o reindirizzano le richieste – si tratta soprattutto di supporto legale, burocratico. Non è mondo su cui la politica e il welfare abbiano mai puntato: gli invisibili non hanno voce. Anche perché la questione è davvero complessa. Una legislazione embrionale infatti esiste, seppure da pochi anni. La figura del “caregiver familiare” è stata introdotta dalla legge 205 del 2017, che in realtà è una legge di Bilancio. In cui per la prima volta si parla delle persone che assistono e si prendono cura del coniuge, del partner di un’unione civile o del convivente di fatto, di un familiare o “un affine” entro il secondo grado di parentela o anche il terzo, nel caso di malattia o disabilità gravi. Così nel 2018 è stato per la prima volta finanziato un Fondo unico per l’inclusione delle persone con disabilità del valore di 25 milioni circa. Ripartito tra le Regioni, che sono responsabili del servizio. La cifra non è molto cospicua, anche perché rimasta invariata, ma come spiega al Foglio Loredana Ligabue, che dirige l’associazione dei caregiver familiari “Carer”, emiliana di Carpi e già dirigente per il welfare della Regione, “quella svolta ha rappresentato in ogni caso un passo importante: si è per la prima volta scritto in una legge che la figura del caregiver familiare esiste, che ha determinate caratteristiche e necessità. Si è fatto un primo recinto per circoscrivere e rendere giuridicamente visibile questo mondo”. Loredana Ligabue è stata tra le protagoniste di una recente audizione dei caregiver presso la XII commissione Affari sociali della Camera, il 31 luglio scorso, ed è stata promotrice, in ottobre, di un manifesto-appello per una “legge inclusiva e di equità sociale”. E adesso? Le chiediamo: com’è possibile che milioni di persone come Michele si sentano ugualmente abbandonate, senza prospettiva? Nel gennaio scorso da governo e Parlamento erano giunti segnali “risolutivi” e ottimistici. Si era infatti insediato un “Tavolo tecnico per l’analisi e la definizione di elementi utili per una legge statale sui caregiver familiari” istituito dal ministro per le Disabilità, Alessandra Locatelli, e dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Marina Calderone. Interviste ottimiste, tempi brevi. La legge è ancora bloccata. Ma non se ne può dare la colpa solo all’attuale maggioranza: i progetti di legge in materia sono rimasti bloccati anche nelle precedenti legislature. Un caos. Oggi, ci spiega Ligabue, sono depositati alla commissione alla Camera ben 6 disegni di legge (e altrettanti erano stati presentati in passato), spesso contraddittori su punti essenziali. Alcune proposte prevedono deleghe al governo, procedure più veloci. La necessità di un “tavolo” per raggiungere una proposta condivisa è evidente, ma non è semplice arrivarci. È un cammino difficile, spiega Ligabue. Che è iniziato dalle Regioni più lungimiranti, come l’Emilia Romagna, che nel 2014 ha varato la prima legge regionale sui caregiver familiari riconosciuti “in quanto componenti informali della rete di assistenza alla persona e risorsa del sistema integrato dei servizi sociali”, seguita poi con esiti più o meno compiuti dalle altre, Lombardia tra le prime. Poi è venuta la legge con il fondo del 2017, ma poiché ogni Regione ha sue leggi e regolamenti ognuno ha dovuto presentare un piano che fosse compatibile con il proprio, il che spiega anche la diversa efficacia di ogni sistema. Ora quel fondo è confluito nel Fondo unico della “Legge delega non autosufficienza” (legge 33 del 2023), mentre le nuove linee del governo prevedono un diverso utilizzo dei fondi – in molti casi le risorse non sono più dirette per gli utenti, ma erogate attraverso i servizi forniti. E questo, spiega Ligabue, è anche un bene laddove costringe le Regioni a fornire servizi che soprattutto al Sud non ci sono. Ma è stato sentito come un puro “taglio” in altre situazioni: la Lombardia ad esempio, dopo le critiche dell’opposizione, ha rifinanziato una parte dei contributi diretti. Ma la situazione resta incerta e magmatica in attesa di una legge per tutto il settore. Intanto la sofferenza resta, i contributi economici “di sollievo”, gli “assegni di cura” e i bonus sociosanitari non risolvono tutto. In uno studio parlamentare dello scorso aprile si segnala ad esempio che nel 2022 “il Comitato Onu sui Diritti delle persone con disabilità ha accolto il ricorso di una caregiver familiare italiana avendo ‘riscontrato che l’incapacità dell’Italia di fornire servizi di sostegno individualizzati a una famiglia di persone con disabilità è discriminatoria e viola i loro diritti alla vita familiare, a vivere in modo indipendente e ad avere un tenore di vita adeguato”. Siamo dalle parti della “provocazione” di Michele sulla incostituzionalità della sua condizione. Ma come risolvere? E perché ci sono tanti progetti diversi? Spiega Ligabue che anche nella scorsa legislatura ci si è fermati, “ci sono oggettive differenze”.
Il primo punto decisivo, sembra paradossale,è proprio la definizione di caregiver familiare. “C’è una scuola di pensiero, anche di utenti, che rispetto alla definizione vaga attuale vuole restringere il recinto di chi ha ‘responsabilità di cura’ ai soli conviventi. E c’è un’altra posizione, quella della mia associazione e di altre, che invece vuole allargare la platea: perché c’è chi si occupa dei genitori anche vivendo in una diversa casa, chi si occupa di fratelli, e c’è anche poi una gradazione: il parente in un’altra città, ma che una responsabilità pure ce l’ha”. Scendendo alla pratica, il problema è concreto: se si allarga la platea si divide la torta dei contributi. “Che però può essere graduata in un’ottica di tutele crescenti”, e questa potrebbe essere la via da seguire. Ma i caregiver soffrono anche per le condizioni, non solo per i soldi. C’è il tema dei contributi figurativi, che al momento sono previsti solo con l’ape sociale, ma sono minimi. La richiesta di retroattività (“la mia condizione è così da tot anni”), ma è tecnicamente impossibile. “Il punto è che noi abbiamo iniziato solo ora a ragionare di queste cose. In Francia la deducibilità fiscale per le famiglie che usano badanti è di 20 mila euro, in Italia solo 2.000”. Poi c’è la questione del “sollievo”, che è anche quella di una solitudine sociale e personale. “In Germania esistono assicurazioni sulla non autosufficienza, da noi noi”. Il sollievo in Italia oggi è a carico delle Regioni, se c’è: il trasferimento temporaneo in strutture residenziali. Ma non si pensa che questo è invece il primo vero dramma del caregiver, “dove li portano, chi li accudisce?”, e del malato che vive la “vacanza” con un abbandono. In Francia si è iniziato dal 2020 a fare “sollievo domiciliare”, una persona che va in casa mezza giornata alla settimana, ovviamente con gradualità e difficoltà. Da noi non si è ancora cominciato.
La prima legge sui caregiver familiarifu fatta in Gran Bretagna nel 2004. Finalmente in Italia si parla di trasformare rapporti di lavoro a tempo pieno in tempi parziali, e lo smart working può molto aiutare, o di diritto a scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio. Nel 2024 ha debuttato il “bonus caregiver”, che può arrivare a 500 euro ma varia a seconda della Regione o del Comune e dei requisiti di accesso. E c’è un problema di valorizzare l’esperienza maturata in qualità di caregiver familiare ai fini di possibili attività professionali come quella di operatore sociosanitario. C’è molto da fare, per far uscire questo esercito volontario della cura familiare da una invisibilità che, come dice Miki, è incostituzionale.
Mentre dai diversi fronti di guerra (Ucraina, Medio Oriente, Sudan, ecc.) non arrivano segnali che possano far sperare in un cessate il fuoco in tempi brevi, questa settimana vogliamo proporre un’interessante testimonianza del filosofo Rocco Buttiglione su Papa Giovanni Paolo II e sulla sua posizione nel 2003 di fronte alla guerra in Iraq che stava per scoppiare e che ha poi lasciato uno strascico infinito di morte e distruzione senza arrivare a una vera pacificazione dell’area. «Non contestava – scrive Buttiglione – il diritto dei governi di fare la guerra per tutelare l’ordine internazionale. Era però deciso a chiarire che si trattava di una guerra tutta politica, non una guerra di religione, non una crociata, non una guerra in cui la Chiesa dovesse o potesse prendere partito. Intuiva che quella guerra poteva scatenare un conflitto epocale fra le religioni ed era deciso a fare tutto il possibile per evitarlo. Alla fine del colloquio mi disse: “Noi abbiamo lottato per la verità e la giustizia sotto il regime comunista con le armi della non violenza. Non avevamo altra arma che l’appello alla coscienza dell’avversario e alla fine abbiamo vinto. L’Occidente ha tanti mezzi per convincere Saddam a rispettare l’ordine internazionale. Possibile che si decida comunque, alla fine, di fare ricorso alla forza delle armi?”». Una domanda estremamente attuale anche di fronte agli scenari di guerra di oggi.
Intelligenza artificiale, dipendenza dagli smartphone e dai social network, multitasking mediatico, uso sempre più pervasivo delle tecnologie digitali, difficoltà a distinguere le notizie vere dalle fake news. Sono solo alcuni aspetti contrastanti del mondo in cui siamo quotidianamente immersi. Su questi temi, tra luci e ombre, vogliamo soffermarci nella nostra newsletter per stimolare la riflessione. Lo facciamo attraverso due articoli, che consigliamo di leggere, dell’epistemologo Gilberto Corbellini sul Sole 24Ore, e del direttore dell’Istituto Mario Negri Giuseppe Remuzzi su La Lettura. Entrambi gli interventi, che partono da approcci e punti di vista diversi, documentano alcune ricadute che l’impatto con le tecnologie digitali sta avendo sulle nostre vite e sul cervello umano, di cui occorre essere consapevoli. Un impatto che rischia di essere particolarmente aggressivo sui più giovani.
foto uberoffices.com
Non si tratta assolutamente di demonizzare la tecnologia con inutili battaglie di retroguardia, fuori tempo massimo, o con altre idiozie del genere. Ci interessa invece utilizzarla in modo critico e consapevole; e questo è possibile. Tutto, come sempre, dipende dal soggetto, da ciascuno di noi. Come ha scritto recentemente lo scrittore Alessandro D’Avenia, se l’homo curvatus (quello che passa le sue giornate con lo sguardo curvato sullo smartphone e non si accorge più della realtà) «ha meno occhi non è colpa del telefono, ma di un cuore che quel telefono ha trovato vuoto». Così qualche giorno fa sul Corriere un lettore descriveva in una piccola lettera una scena emblematica: «Per un piccolo intervento, sono da pochi giorni in una camera d’ospedale a tre posti. Fino a ieri c’era anche Paolo, un degente boomer come me, andato via stamani. Da oggi ecco arrivare due sui 40 anni. Completamente rapiti dal cellulare, stanno distesi sul letto a guardarlo come un dio. Zero saluti, zero sguardi, zero di tutto. Con Paolo, invece, è bastato uno sguardo per conversare, sapere dove vive, che ha una figlia, che lui è in pensione, che non ha paura dei medici, prende farmaci e sta bene. In due giorni ci si è confidati giusto un po’, per rendere meno vuoto il tempo e non sentirsi soli. I due digitali 40enni invece… che tristezza l’adorazione di quel loro dio tascabile».
Il clima di odio politico che ormai respiriamo quotidianamente in piccola o grande scala ha un’origine religiosa? È quanto sostiene il noto psicanalista Massimo Recalcati in un articolo su Repubblica. Una tesi che viene contestata dal filosofo Giovanni Maddalena, in un intervento – che vi segnaliamo – sul sito tempi.it, perché «è un pensiero che non tiene conto né della logica né della teologia né, soprattutto, dell’esperienza religiosa effettiva». In questo caso fare di tutte le erbe un fascio non rende giustizia alla realtà dei fatti, anzitutto perché «non tutte le teologie sono uguali».
Uscendo dai luoghi comuni occorre piuttosto considerare cosa sia l’esperienza religiosa. «Tutte le persone religiose, di qualsiasi religione – sottolinea Maddalena -, sanno che il rapporto con Dio è una relazione con qualcosa o qualcuno che è più di se stessi, la cui volontà è altra dalla propria perché è in ultimo misteriosa, ossia ultimamente imperscrutabile, non riconducibile alle dinamiche della mente umana. Come faceva ben capire la filosofia di Gianni Vattimo, una rivelazione che togliesse del tutto il mistero di Dio sarebbe pura secolarizzazione». E allora la violenza della società di oggi, che si esprime nella sua estrema polarizzazione, da dove viene? Nasce piuttosto – spiega Maddalena – «dall’opposto della religione, che è l’idolatria e, modernamente, l’ideologia. Essa significa mettere al posto di Dio qualcosa o qualcuno che non lo è affatto, che risponde o corrisponde ai nostri pensieri umani, e spesso al mero nostro piacere o desiderio, adorandolo come un dio. È un dio che è nostro possesso e di cui diventiamo schiavi». Che lo si chiami ordine sociale, eguaglianza, razza, classe, successo, denaro, partito, gruppo, clan, etc. tutto può essere trasformato in dio. «Lo comprendiamo – conclude il filosofo -, sappiamo che non è dio, che non parla, non comunica niente di diverso da ciò che già pensiamo, ma lo trasformiamo in dio pensando che l’affermazione sua sia l’affermazione nostra. È il dio dei (cattivi) filosofi, il dio della mente che è principio di violenza, mai il Dio vivente delle tradizioni popolari vissute da cuori di carne».