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Le domande del tagliapietre di McCarthy

  • Data 1 Febbraio 2025

Pochi giorni fa Einaudi ha pubblicato «Il tagliapietre», libro finora inedito in Italia dello scrittore americano Cormac McCarthy scomparso nel giugno del 2023. Si tratta di un dramma teatrale in cinque atti scritto negli anni ’80. Il protagonista è Ben Telfair, un tagliatore di pietre di 32 anni, che proviene da una famiglia di afroamericani che fa quel mestiere da tre generazioni a Louisville, Kentucky, nei primi anni ’70.  Ben, che è anche la voce narrante, ha abbandonato gli studi in psicologia per dedicarsi alla lavorazione della pietra, come suo nonno, l’ultracentenario Papaw. Le opere di McCarthy, da «La strada» a «Non è un paese per vecchi», da «Il passeggero» a «Stella Maris», per arrivare a «Sunset Limited» (altro suo romanzo in forma drammatica), sono sempre state delle vere sorprese. Come ha detto il nostro amico Stas’ Gawronski, «la letteratura di McCarthy ha questa forza, come se ti investisse un colpo e ti costringesse a piegare lo sguardo e improvvisamente vedere le cose da una diversa prospettiva. Non è uno scrittore di intrattenimento: se avete un vuoto, Cormac McCarthy lo apre, lo allarga. Non è uno scrittore di evasione, perché vi porta in territori che sono disturbanti, a volte addirittura feroci. È uno scrittore di visione, che ci aiuta a penetrare la realtà e a coglierla in tutto il suo mistero». Su questo nuovo libro vi invitiamo a leggere l’articolo di Lorenzo Fazzini su Avvenire. Quella di McCarthy, scrive, è «un’idea di mondo, di vita e di storia che ha a che fare con il mistero, anzi con il Mistero. Come altre volte nei suoi romanzi – con l’arte di addestrare cavalli, con il mondo post-apocalittico, con dialoghi tra improbabili personaggi capaci di vere e proprie epifanie del divino, sa costruire una metafora quasi cosmica per trasmettere una certezza, basilare come le pietre che bisogna tagliare per costruire una casa che resti in piedi: “La verità è la verità” scandisce Carlotta, la sorella del protagonista Ben. Un’affermazione tautologica, che si rischiara del suo alone criptico se la si mette in parallelo con un celebre passaggio di Sunset Limited: “Non sono uno che dubita. Però sono uno che fa domande”. “E che differenza c’è?”. “Be’, secondo me chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste”».

Incontro con Adriano Sofri e Massimo Camisasca

«Dal ’68 a oggi, il desiderio del cambiamento» è il titolo dell’incontro che la Fondazione San Benedetto promuoverà a Brescia giovedì 13 marzo alle 18.15 con l’intervento di due ospiti d’eccezione: monsignor Massimo Camisasca, allievo di don Giussani e vescovo emerito di Reggio Emilia, e Adriano Sofri, scrittore, editorialista ed ex leader di Lotta Continua.

L’occasione di questo incontro del tutto inedito è data dalla recente pubblicazione del libro «Una rivoluzione di sé» (Rizzoli editore) che raccoglie alcuni interventi di don Giussani, fra il 1968 e il 1970, in un periodo molto turbolento che vedrà anche la nascita del movimento di Comunione e Liberazione. Poterne parlare con due protagonisti di quella stagione, con storie molto diverse, è un’opportunità straordinaria anche per guardare in modo nuovo al momento che stiamo attraversando oggi segnato da grande incertezza. L’incontro, che si svolgerà nell’aula magna del Centro Paolo VI, in via Gezio Calini 30, è aperto a tutti sino ad esaurimento posti e previa registrazione. Invitiamo perciò a registrarsi al più presto cliccando questo link.



La casa sulla roccia di Cormac McCarthy

di Lorenzo Fazzini

da Avvenire – 29 gennaio 2025

Quando è deceduto, nell’estate 2023, Cormac McCarthy è stato riconosciuto come (tardivamente) era stato celebrato: come uno dei più grandi scrittori del secondo dopoguerra. È certamente per questo motivo che l’apparizione di un suo testo inedito, Il tagliapietre (Einaudi, da oggi in libreria; pagine 136, euro 15,50), generi curiosità e interesse forte tra i suoi lettori e la critica. Si tratta del testo di una pièce teatrale, concepita negli anni Settanta, pubblicato negli anni Ottanta, non andata in scena negli Usa per diversi anni (aleggiava sul testo un’accusa di velato razzismo) fino al 2001 e ora disponibile anche in italiano.

McCarthy aveva già utilizzato lo schema teatrale in Sunset Limited, dialogo tra un Nero e un Bianco sui grandi problemi e le ineludibili domande della vita. Qui il tentativo è più prettamente teatrale e mette in scena quattro generazioni di una famiglia di scalpellini afroamericani nel Kentucky. Qualcuno ha scritto che l’insuccesso di tale opera ha il suo perchè in una resa teatrale che sembra non aver pienamente centrato il bersaglio: di certo, il congegno drammaturgico della pièce è alquanto complicato (lo stesso protagonista è in scena e anche è il narratore della vicenda). Ad una lettura attenta, però, è indubbio che anche in una forma che non era propriamente la sua (seppur maestro nell’arte dei dialoghi, McCarthy è stato tipicamente un romanziere), l’autore de La strada sa trasportare il lettore (e se fosse, lo spettatore) dentro un sistema di valori e di visione morale che ha pochi eguali nella letteratura contemporanea. E che è ben precisata e ben definita, senza scappatoie: un’idea di mondo, di vita e di storia che ha a che fare con il mistero, anzi con il Mistero.

E infatti McCarthy, come altre volte nei suoi romanzi – con l’arte di addestrare cavalli, con il mondo post-apocalittico, con dialoghi tra improbabili personaggi capaci di vere e proprie epifanie del divino, sa costruire una metafora quasi cosmica per trasmettere una certezza, basilare come le pietre che bisogna tagliare per costruire una casa che resti in piedi: «La verità è la verità» scandisce Carlotta, la sorella del protagonista Ben. Un’affermazione tautologica, che si rischiara del suo alone criptico se la si mette in parallelo con un celebre passaggio di Sunset Limited: «“Non sono uno che dubita. Però sono uno che fa domande”. “E che differenza c’è?”. “Be’, secondo me chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste”».

L’arte di tagliare le pietre diventa uno spettro tramite cui lo scrittore di El Paso fa passare una concezione “forte” del mondo, lontana da ogni relativismo: «L’arco dell’universo morale è certo lungo ma tende effettivamente alla giustizia» afferma ad un certo punto Ben, uno dei Telfair, la famiglia protagonista del Tagliapietre. Ha un sapore religioso, questo lavoro di aver a che fare con la pietra, secondo lo stesso Ben: «E se è vero che posare pietre può insegnarti il timore di Dio e la tolleranza verso il prossimo e l’amore per la tua famiglia è anche vero che questo sapere è instillato in te attraverso il lavoro e non attraverso una qualsivoglia contemplazione del lavoro».

La pietra richiama le fondamenta del mondo, riecheggia la solidità su cui ci si deve poggiare per conoscere la realtà e la convinzione ancestrale che su qualcosa bisogna pur costruire. Ben, alter ego dell’autore, lo scandisce in un altro punto del Tagliapietre, righedal sapore quasi metafisico: «Lo vedo lì che sorveglia il suo filo a piombo che non mente mai e non mente mai e il filo a piombo immobile indica l’inconcepibile centro della terra quattromila miglia sotto i suoi piedi. Indica un’oscurità ignota e inconoscibile sia di fatto che in teoria dove Dio e materia sono impegnati in una collaborazione silenziosa e sperduta nell’universo ed è questo a guidarlo quando dispone le sue pietre una su due e due su una come prima di lui facevano i suoi padri e come faranno i suoi figli e lascia che la pioggia le scolpisca se può».

Il Mistero che aleggia nelle pagine del Tagliapietre ha un nome preciso – è forse anche qui una delle ragioni della dimenticanza e dell’insuccesso di questo testo, troppo pregno della parola Dio per essere compreso in un mondo postreligioso? (Ancora il solito Ben Telfair) «Quanto al resto. Quanto al resto. So che il male esiste. Credo che non sia selettivo ma solo opportunista. Non so dove risieda lo spirito. In ogni cosa più che in nessun credo. La mia esperienza è molto limitata. […] Io non so niente di Dio. Ma so che qualcosa sa».

E nelle ultime battute, tra le tombe di un cimitero, Ben/Cormac McCarthy rilascia una verità di una profondità teologica insondabile, in cui fa eco un tratto pascaliano: «Niente si comprende una volta per tutte. Niente si raggiunge una volta per tutte. La grazia lo so somiglia molto all’amore e non la puoi meritare. È liberamente data, senza ragione né equità. Cosa potresti farla per meritarla? Cosa? Ciò di cui più ho bisogno è imparare la carità. Più di ogni altra cosa. Perché siamo tutti eletti, ciascuno di noi, e ci siamo imbarcati per un viaggio verso qualcosa di inconcepibile».

Tag:Cormac McCarthy

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È la letteratura la vera educazione affettiva
15 Novembre, 2025

In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
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«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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