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I laureati, la fotografia del paese e la sfida della formazione

  • Data 21 Giugno 2025

Pochi giorni fa è stato presentato il Rapporto annuale Almalaurea che analizza il profilo e la condizione occupazionale dei laureati in Italia. Si tratta dell’analisi più autorevole e documentata sul tema a livello nazionale. «Ci consegna un quadro problematico sullo stato dell’università italiana», sottolinea l’economista Patrizio Bianchi, già ministro dell’Istruzione nel governo Draghi, in un intervento sul Sole 24Ore che vi invitiamo a leggere. L’immagine che ne esce è quella di un paese che «si assesta su una qualità bassa delle competenze, accomodato nella funzione di inseguitore, o meglio ben chiuso dentro le proprie nicchie di sopravvivenza». Dal rapporto emergono dati come l’età molto elevata dei neolaureati italiani che arrivano a ben 27 anni e mezzo per veder completato il proprio percorso di studi con la magistrale e a 24 anni e mezzo con la triennale. Poi c’è il nodo irrisolto degli stipendi bassi che spinge molti giovani a lasciare l’Italia per spostarsi all’estero dove i laureati percepiscono il 54% in più rispetto a quanto percepito nel nostro paese dopo un anno dalla laurea. Questioni non certo nuove ma che negli ultimi anni sembrano essersi accentuate. È il caso della divaricazione fra insegnamenti impartiti dalle università e bisogni dichiarati dalle imprese. Non a caso diverse aziende, ricorda Bianchi, «stanno facendo crescere proprie academy per formare e raffinare le competenze a loro necessarie». A Brescia abbiamo l’esempio del Gruppo Camozzi che già da tempo ha intrapreso questa strada. Per Bianchi «in questa situazione l’università e tutto il sistema educativo italiano debbono assumere come obiettivo la formazione di persone solide, in grado di gestire processi di trasformazione strutturale, assumendosene le dovute responsabilità». Un campo in cui l’Europa deve diventare protagonista. «È tempo di porre sul tavolo dell’Unione – scrive Bianchi – un “Euro dell’educazione”, cioè una grande politica unitaria europea, che possa fare delle politiche educative e scolastiche, cioè dell’investimento sulle nostre persone, il principale asse di una nuova politica industriale».

Giovedì alla Poliambulanza incontro sul genetista Jérôme Lejeune

Giovedì 26 giugno alle 18 nella sala convegni della Poliambulanza in via Bissolati a Brescia invitiamo a partecipare all’incontro di presentazione del libro di Aude Dugast «JÉRÔME LEJEUNE. La libertà dello scienziato». Insieme a Dugast interverrà Chiara Locatelli, responsabile dell’unità operativa Comfort care perinatale e assistenza al neonato con malformazioni congenite del Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna. Introduzione di Mario Taccolini, presidente di Fondazione Poliambulanza. A moderare l’incontro sarà Benedetta Allais, neonatologa della Poliambulanza. Aude Dugast è filosofa e postulatrice della causa di canonizzazione del genetista e pediatra francese Jérôme Lejeune e autrice di una nuova biografia sulla sua vita. A Lejeune, dichiarato venerabile nel 2021 da Papa Francesco, dobbiamo in particolare la scoperta della trisomia del cromosoma 21 come causa della sindrome di Down. Ha sostenuto instancabilmente i suoi «piccoli pazienti» e le loro famiglie mettendo cuore e intelligenza nella ricerca di una possibile cura alla disabilità intellettiva da cui sono affetti. L’incontro è promosso dall’istituto ospedaliero bresciano nell’ambito del ciclo «I giovedì dei libri in Poliambulanza».

Online il video sui vent’anni della San Benedetto

A questo link potete rivedere il video dell’incontro che si è svolto lo scorso 29 maggio a Brescia, nel Salone Vanvitelliano di palazzo Loggia in occasione dei vent’anni della Fondazione San Benedetto.


Università, lavoro, stipendi: serve una politica europea

di Patrizio Bianchi – da Il Sole 24Ore – 17 giugno 2025

La presentazione del XXVII Rapporto di Almalaurea, il consorzio che riunisce 82 atenei italiani, sul profilo e la condizione occupazionale dei laureati in Italia, ci consegna un quadro problematico sullo stato dell’Università italiana. Pur segnalando i passi in avanti, molti problemi permangono, come l’elevata età dei laureati, che in media si assesta sui 24,5 anni per una laurea triennale e 27,5 per i laureati magistrali, che rispettivamente dovrebbero essere pronti per il mercato del lavoro almeno due anni prima. Questi ritardi si spiegano perché solo il 58-59% dei laureati ha seguito regolarmente il percorso di studi stando entro i tempi previsti, tempi entro cui stanno solo i figli di laureati, segnalando come stia tornando rilevante l’estrazione della famiglia, con ineguaglianze crescenti: le donne pur avendo esiti scolastici migliori degli uomini, scontano ancora maggiori problemi nell’inserimento lavorativo e riemerge un’ineguaglianza territoriale, con una corrente che dal Sud spinge verso il Nord, portando i migliori laureati ad impiegarsi non solo nelle regioni italiane del settentrione, ma da queste ancora più su, verso gli altri Paesi europei.

Nonostante nella fascia 25-34 anni l’offerta di laureati in Italia sia ferma al 31,6% – solo prima della Romania in fondo alla classifica europea – colpisce il fatto che il valore medio degli stipendi in Italia sia così basso. A parità di livello educativo, all’estero i laureati percepiscono il 54% in più rispetto a quanto percepito in Italia dopo un anno dalla laurea e lo stipendio si attesta al 62% per i laureati da 5 anni. Elemento questo, che assieme ad una serie di motivazioni legate alle condizioni di lavoro e di carriera, spiega perché tuttora i nostri migliori laureati – quelli su cui il nostro Paese ha investito per almeno 10 anni tra scuole superiori ed università – siano così attratti dal varcare i nostri confini e – come ci spiega Almalaurea – solo il 15% ritenga probabile un rientro in Italia. Colpisce inoltre che la retribuzione mensile netta per un laureato triennale e per un laureato magistrale, cioè con i due anni di specializzazione, sia pressoché identico: ad un anno dalla laurea, 1.492 euro il primo ed addirittura 1.488 il secondo, testimoniando come il mercato del lavoro non riconosca alle lauree magistrali nessun valore aggiunto in più rispetto alla triennale. Del resto il dottorato di ricerca non sembra neppure essere rilevato ai fini dell’impiego in attività produttive.

La presentazione del Rapporto Almalaurea si è però concentrata particolarmente sul mismatch fra insegnamenti impartiti dalle università e bisogni dichiarati dalle imprese. Tuttavia questa divaricazione nella qualità delle competenze offerte dalle università e quelle richieste dalle imprese è destinata ad accrescersi per il vortice dei cambiamenti tecnologici in corso a confronto con la crescente instabilità ed incertezza dei nostri tempi. Le imprese dal canto loro stanno facendo crescere proprie academy per formare e raffinare le competenze a loro necessarie. In questa situazione l’università e tutto il sistema educativo italiano debbono assumere come obiettivo la formazione di persone solide, in grado di gestire processi di trasformazione strutturale, assumendosene le dovute responsabilità, rafforzando le competenze di base delle rispettive aree disciplinari, ma garantendo di più esperienze di confronto con altri percorsi lavorativi e culturali in Italia ed all’estero.

L’immagine che emerge da questo Rapporto è quella di un Paese che si assesta su una qualità bassa delle competenze, accomodato nella funzione di inseguitore, o meglio ben chiuso dentro le proprie nicchie di sopravvivenza, a fronte di turbolenti contesti globali, in cui tutta Europa si sente schiacciata fra un colosso americano in crisi – così almeno lo descrive il suo stesso Presidente – ed una Cina che è molto cambiata rispetto al passato. È necessario che imprese, università e scuole imparino ad interagire di più a livello territoriale, remunerando e valorizzando le competenze. È tempo di porre sul tavolo dell’Unione un “Euro dell’educazione”, cioè una grande politica unitaria europea, che possa fare delle politiche educative e scolastiche, cioè dell’investimento sulle nostre persone, il principale asse di una nuova politica industriale. Per questa Europa è giunta l’ora delle decisioni e questa è una via ineludibile.

Tag:Jerome Lejeune, lavoro, Poliambulanza, stipendi, università

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
15 Novembre, 2025

In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
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«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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