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Infinite cose sorpassano la ragione, i 400 anni di Pascal

  • Data 25 Giugno 2023
di Gianfranco Ravasi
da Il Sole 24Ore – 18 giugno 2023

A quattrocento anni dalla nascita, resta la modernità del pensiero del filosofo francese che aveva vissuto la fede con passione e ardore

Il 19 giugno 1623 nasceva a Clermont-Ferrand nell’Alvernia – sede nel 1095 del concilio che bandì la prima crociata – il grande pensatore e scienziato Blaise Pascal, la cui breve esistenza si concluderà a 39 anni nel 1662. Per molti studenti il suo nome è legato, da un lato, ai suoi Pensieri, una raccolta frammentaria variamente numerata, e dall’altro, all’omonimo principio fisico secondo il quale la pressione esercitata su un fluido incomprimibile si trasmette con identica intensità su tutta la massa e in tutte le direzioni, oppure alle sue fulminanti incursioni nel mondo della geometria (le coniche) e della matematica. Noi, però, in questo breve ricordo del quarto centenario della sua nascita, vorremmo solo evocare un aspetto della sua biografia che egli riteneva fondamentale e aveva vissuto con passione e ardore, ossia la sua fede.

È interessante notare che gli autori tedeschi del Lessico delle opere teologichecapitali della storia della cristianità (ed. Queriniana 2015) hanno inserito ben due opere pascaliane. Innanzitutto le Provinciali (o Le Lettere scritte da Louis de Montalte a un provinciale dei suoi amici e ai reverendi padri gesuiti), 18 lettere e il frammento di una diciannovesima, espressione di uno scambio epistolare fittizio sotto pseudonimo in difesa del teologo giansenista rigorista Arnauld. Al centro emergeva la dottrina del primato della grazia rispetto al merito umano, tesi sostenuta dalla comunità dell’abbazia cistercense di Port-Royal sulla scia di sant’Agostino, in fiera polemica coi gesuiti e la loro morale casistica (Einaudi le tradusse nel 2008).

Obbligata per la sua stessa celebrità è l’altra opera teologica di Pascal, i Pensieri, il cui titolo completo è Pensieri sulla religione e su qualche altro tema. Essa in realtà, anche per il limite e il fascino della frammentarietà, ha conquistato almeno tre diverse categorie di lettori: le persone spirituali, i filosofi (da Kant a Nietzsche) e i teologi soprattutto apologeti. Le molteplici edizioni critiche (Brunschvicg, Chevalier, Lafuma, Serini) hanno proposto mappe organiche e itinerari diversi all’interno di questo straordinario arcobaleno. Brilla, comunque, un filo rosso che serpeggia in molte pagine: «Il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano… La fede è differente dalla dimostrazione: questa è umana, quella un dono di Dio». Le prove metafisiche dell’esistenza di Dio risultano, allora, spuntate, perché – secondo quanto osservava un nostro acuto pensatore come Pareyson – «esse non approdano a Dio, ma a un’entità metafisica che ben difficilmente merita il nome di Dio». È il Dio di Cartesio, «inutile e incerto», «dei filosofi e dei dotti», per usare un famoso testo che è da accostare subito ai Pensieri. Si tratta di quel Memoriale che Pascal scrisse nella notte del 23 novembre 1654, durante ore di drammatica ed esaltante illuminazione interiore e che si fece cucire nel suo farsetto, da dove lo estrasse il suo domestico dopo la morte.

Ne citiamo solo le righe fondamentali e più note: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza, certezza, sentimento, gioia, pace. Dio di Gesù Cristo… Oblio del mondo e di tutto, fuorché di Dio. Non si trova che nelle vie insegnate dal Vangelo». È solo a questo Dio vivente, manifestato dalla Rivelazione, che merita di consacrarsi e non a una sorta di Ente perfetto o Motore immobile aristotelico che è raggiungibile attraverso le prove metafisiche della sua esistenza, destinate a convincere coloro che lo sono già per fede. Ed è solo questo Dio personale a dare una risposta all’uomo che cammina nella vita e nella storia come un mendicante di senso per la sua esistenza.

Diventa, allora, spontaneo citare un altro «Pensiero» celebre: «Quando considero la breve durata della mia vita, sommersa nell’eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che occupo e che vedo, inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e mi stupisco di trovarmi qui piuttosto che là, oggi piuttosto che domani. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi questo luogo e questo tempo furono destinati a me?». La persona umana, avvolta da una natura muta e talora ostile, sperduta in un angolo remoto dell’universo, immersa nel «silenzio eterno di quegli spazi infiniti che sgomenta», si interroga sul significato ultimo del suo esistere. «La scienza delle cose esteriori non riuscirà a consolarmi dell’ignoranza della morale». Un’altra via d’altura è necessaria.

Infatti noi abbiamo una nostra grandezza, espressa in un altro indimenticabile «Pensiero»: «L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura, ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire e sa il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo invece non sa nulla». Tanto altro si potrebbe citare, lasciando voce a questo genio della fede e del pensiero. Difficile, però, è resistere all’evocazione della sua emozionante meditazione sulla passione del Signore nel «Pensiero» 553 (secondo l’ed. Brunschvicg). Basterà soltanto far risuonare quella riga su Cristo solo e «abbandonato nell’orrore della notte» del Getsemani: «Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo: non bisogna dormire fino a quel momento».

Leggi la lettera apostolica di Papa Francesco nel quarto centenario della nascita di Blaise Pascal 

https://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_letters/documents/20230619-sublimitas-et-miseria-hominis.html

Tag:Blaise Pascal, fede e ragione

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
15 Novembre, 2025

In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
1 Novembre, 2025

«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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