Infinite cose sorpassano la ragione, i 400 anni di Pascal
A quattrocento anni dalla nascita, resta la modernità del pensiero del filosofo francese che aveva vissuto la fede con passione e ardore
Il 19 giugno 1623 nasceva a Clermont-Ferrand nell’Alvernia – sede nel 1095 del concilio che bandì la prima crociata – il grande pensatore e scienziato Blaise Pascal, la cui breve esistenza si concluderà a 39 anni nel 1662. Per molti studenti il suo nome è legato, da un lato, ai suoi Pensieri, una raccolta frammentaria variamente numerata, e dall’altro, all’omonimo principio fisico secondo il quale la pressione esercitata su un fluido incomprimibile si trasmette con identica intensità su tutta la massa e in tutte le direzioni, oppure alle sue fulminanti incursioni nel mondo della geometria (le coniche) e della matematica. Noi, però, in questo breve ricordo del quarto centenario della sua nascita, vorremmo solo evocare un aspetto della sua biografia che egli riteneva fondamentale e aveva vissuto con passione e ardore, ossia la sua fede.
È interessante notare che gli autori tedeschi del Lessico delle opere teologichecapitali della storia della cristianità (ed. Queriniana 2015) hanno inserito ben due opere pascaliane. Innanzitutto le Provinciali (o Le Lettere scritte da Louis de Montalte a un provinciale dei suoi amici e ai reverendi padri gesuiti), 18 lettere e il frammento di una diciannovesima, espressione di uno scambio epistolare fittizio sotto pseudonimo in difesa del teologo giansenista rigorista Arnauld. Al centro emergeva la dottrina del primato della grazia rispetto al merito umano, tesi sostenuta dalla comunità dell’abbazia cistercense di Port-Royal sulla scia di sant’Agostino, in fiera polemica coi gesuiti e la loro morale casistica (Einaudi le tradusse nel 2008).
Obbligata per la sua stessa celebrità è l’altra opera teologica di Pascal, i Pensieri, il cui titolo completo è Pensieri sulla religione e su qualche altro tema. Essa in realtà, anche per il limite e il fascino della frammentarietà, ha conquistato almeno tre diverse categorie di lettori: le persone spirituali, i filosofi (da Kant a Nietzsche) e i teologi soprattutto apologeti. Le molteplici edizioni critiche (Brunschvicg, Chevalier, Lafuma, Serini) hanno proposto mappe organiche e itinerari diversi all’interno di questo straordinario arcobaleno. Brilla, comunque, un filo rosso che serpeggia in molte pagine: «Il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano… La fede è differente dalla dimostrazione: questa è umana, quella un dono di Dio». Le prove metafisiche dell’esistenza di Dio risultano, allora, spuntate, perché – secondo quanto osservava un nostro acuto pensatore come Pareyson – «esse non approdano a Dio, ma a un’entità metafisica che ben difficilmente merita il nome di Dio». È il Dio di Cartesio, «inutile e incerto», «dei filosofi e dei dotti», per usare un famoso testo che è da accostare subito ai Pensieri. Si tratta di quel Memoriale che Pascal scrisse nella notte del 23 novembre 1654, durante ore di drammatica ed esaltante illuminazione interiore e che si fece cucire nel suo farsetto, da dove lo estrasse il suo domestico dopo la morte.
Ne citiamo solo le righe fondamentali e più note: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza, certezza, sentimento, gioia, pace. Dio di Gesù Cristo… Oblio del mondo e di tutto, fuorché di Dio. Non si trova che nelle vie insegnate dal Vangelo». È solo a questo Dio vivente, manifestato dalla Rivelazione, che merita di consacrarsi e non a una sorta di Ente perfetto o Motore immobile aristotelico che è raggiungibile attraverso le prove metafisiche della sua esistenza, destinate a convincere coloro che lo sono già per fede. Ed è solo questo Dio personale a dare una risposta all’uomo che cammina nella vita e nella storia come un mendicante di senso per la sua esistenza.
Diventa, allora, spontaneo citare un altro «Pensiero» celebre: «Quando considero la breve durata della mia vita, sommersa nell’eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che occupo e che vedo, inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e mi stupisco di trovarmi qui piuttosto che là, oggi piuttosto che domani. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi questo luogo e questo tempo furono destinati a me?». La persona umana, avvolta da una natura muta e talora ostile, sperduta in un angolo remoto dell’universo, immersa nel «silenzio eterno di quegli spazi infiniti che sgomenta», si interroga sul significato ultimo del suo esistere. «La scienza delle cose esteriori non riuscirà a consolarmi dell’ignoranza della morale». Un’altra via d’altura è necessaria.
Infatti noi abbiamo una nostra grandezza, espressa in un altro indimenticabile «Pensiero»: «L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura, ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire e sa il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo invece non sa nulla». Tanto altro si potrebbe citare, lasciando voce a questo genio della fede e del pensiero. Difficile, però, è resistere all’evocazione della sua emozionante meditazione sulla passione del Signore nel «Pensiero» 553 (secondo l’ed. Brunschvicg). Basterà soltanto far risuonare quella riga su Cristo solo e «abbandonato nell’orrore della notte» del Getsemani: «Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo: non bisogna dormire fino a quel momento».