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Pasolini e Testori, confronto a distanza sul Romanino

  • Data 19 Luglio 2025

Il 3 maggio 1965 era stata inaugurata nel Duomo Vecchio di Brescia la prima grande mostra dedicata a Gerolamo Romanino. Una mostra che rivelò allo sguardo di tutti non solo la grandezza dell’artista ma anche la sua estraneità agli schemi con cui in genere si legge l’arte del Rinascimento. Per questo, proprio per cercare di capire la straordinaria anomalia dell’artista bresciano il 7 settembre di quello stesso anno era stato organizzato un grande convegno su “L’arte di Romanino e il nostro tempo” a cui avevano partecipato, oltre agli storici dell’arte, esponenti di primissimo piano della cultura italiana, tra i quali un teologo come Ernesto Balducci, uno scrittore come Guido Piovene o pittori come Renato Guttuso. Tra gli invitati c’era anche Pier Paolo Pasolini, allievo di Longhi e quindi molto sensibile all’arte del passato. Avrebbe dovuto esserci anche Giovanni Testori, anche lui allievo di Longhi e grande conoscitore dell’arte lombarda, ma per ragioni che non sono note aveva disertato l’appuntamento. Dieci anni dopo sarebbe però stato proprio Testori a spingere perché gli atti di quella giornata venissero pubblicati, in particolare per far conoscere l’originalità della relazione di Pasolini, morto proprio nel novembre 1975. Roberto Montagnoli, coraggioso editore della Grafo, aveva raccolto l’invito di Testori pubblicando il volumetto per il quale Testori firmò l’introduzione. Riferendosi all’intervento di Pasolini Testori scrive di considerarlo una «prova proprio di come un uomo contemporaneo prendendo in mano una figura del passato, riporti il passato nel presente e rimisuri il presente nel passato, in quelle figure che del passato erano state magari dimenticate e che invece contenevano una quantità di presente, del nostro presente».

La mostra del 1965 diede spunto a Testori per lavorare su un saggio, pubblicato nel 1967, che avrebbe in qualche modo suggerito una chiave di lettura per capire la pittura di Romanino. Il titolo è molto indicativo: “Lingua e dialetto nella tradizione bresciana”. Nel 1975, sempre con la casa editrice di Roberto Montagnoli, Testori aveva pubblicato un libro dedicato al grande ciclo di Romanino e Moretto alla Cappella del Sacramento nella chiesa di San Giovanni Evangelista, una sorta di “cappella Sistina” dell’arte bresciana. Da questi due testi sono tratti i brani usati per costruire questo confronto tra Giovanni Testori e Pier Paolo Pasolini sulla figura di Romanino. Un confronto ricco di sintonie nel segno di questo grande genio fuori dagli schemi del ‘500 italiano. Quel 7 settembre 1965 il confronto non aveva potuto aver luogo per l’assenza di Testori, ma potremmo immaginare che sarebbe andato così…

Giuseppe Frangi

Un momento della serata sul Romanino nella Cappella del Sacramento

Giovanni Testori 

Ad onta del fatto non contestabile che, della triade dei grandi Maestri del Cinquecento bresciano, sia quello che, negli ultimi tempi, ha beneficiato di maggiori occasioni e d’un maggior numero di studi (culminati gli uni e l’altre nella memorabile Mostra del ’65), il Romanino resta ancor oggi, vicino al Savoldo e al Moretto, quasi del tutto inespresso. Una sorta di difficoltà a procedere sembra impedire, ogni volta che uno studioso l’accosta, la sua esplicazione; quasi un “non luogo”; per il che il Romanino continua ad esser lasciato o relegato alla dialettica dei rapporti e delle relazioni. Imbestialito com’è lui nella sua poesia (che imbestialita e imbestiata resta anche quando frana nella più viscerale delle tristezze) imbestialisce e dilontana (che è il modo d’imbestialirsi dei deboli) la critica, la quale finisce col non saper più e mai chi realmente ha lì, tra le mani. E neppure si chiede, quella critica, se la realtà di quel chi non consista per caso proprio nel fatto che esso non si lasci mai afferrare, mai stringere dentro le sue dita e le sue zampe… Ad ogni sua opera; ad ogni suo ciclo fino agli ultimi il Romanino sembra sorprendere anche i suoi più fidati osservanti; e non tanto per il punto da cui, ogni volta, mostra di voler partire, che criticamente può essere in qualche modo ricuperato, quanto per il punto verso cui, ogni volta, a conclusione di un’opera, mostra di voler andare. Così, parafrasando il verso d’un altro grande, misconosciuto bresciano, il Marone, ad ogni opera sembrerebbe di potergli domandare: “o vet, o vet, o vet o Romanì?” Già, dove va? Da che parte? Verso quale paese, o monte, o valle?

Pier Paolo Pasolini

È quello che mi domando anch’io dopo aver visitato questa mostra del Romanino. Un pittore che io conoscevo malissimo, conoscevo così per alcune riproduzioni, per una antica mia lettura di Longhi fatta vent’anni fa e quindi sono rimasto profondamente stupito, sorpreso, insomma per me è stata una novità ed è un po’ di questo mio stupore, di questa mia sorpresa di fronte al Romanino che vorrei parlarvi, pittore che io credevo un piccolo maestro, uno di quelli che si chiamano petit maître, un fatto concluso, perfetto, tipicamente provinciale e invece non è assolutamente così. Dunque cosa sto a fare qui? Oggi ho letto sul giornale che è stata trovata a Parigi una donna assassinata, legata mani e piedi e con una spada da samurai conficcata nel seno. Visione manieristica come vedete, restiamo quindi nel nostro ambito. La polizia ha chiamato Simenon per avere una sua opinione su questo misterioso delitto, e Simenon ha esposto il suo parere. È un po’ la parte di Simenon che faccio qui, e scusatemi se il mio linguaggio sarà un po’ il linguaggio del detective cioè la relazione di una indagine in qualche modo abbastanza tecnicistica ed ermeneutica, perché tenterò di introdurre nella mia indagine qualche elemento di critica strutturalistica e credo che sia la prima volta che si parla di critica strutturalistica a proposito della pittura. Qual è il corpo del reato o il delitto su cui io oggi ho svolto delle indagini viaggiando fino in Val Camonica? Il delitto è quello di disuguaglianza o incoerenza o rapide scomparse e ricomparse di personalità; insomma io sono entrato a vedere la mostra di Romanino e chiedevo al mio accompagnatore: ma dov’è il Romanino, qual è? Ogni due o tre quadri la mia idea del Romanino era costretta a cambiare. Alla fine del mio giro nella mostra e poi oggi in Val Camonica alla fine delle mie indagini ancora dovevo sapere dov’era e qual era il Romanino. Secondo un’idea preconcetta e sbagliata che noi abbiamo di quello che deve essere un artista – per esempio, vedendo il Lotto si sa benissimo qual è il Lotto, anche se ha dei momenti che non sono completamente lotteschi e così il Tiziano e così via – del Romanino, di un Romanino vero che soddisfi tutti noi, su cui tutti siamo d’accordo, una immagine, un’idea plastica e anche magari un po’ lirica del Romanino non ce l’abbiamo. Questo è il delitto su cui ho condotto le mie indagini, ed ho seguito alcune piste che fin dal primo momento ho capito che erano sbagliate.

Testori

Provo a darti qualche indizio facendo un esempio. Dopo la formidabile affermazione del ciclo del Duomo di Cremona, sulla cui figurativa pregnanza e dovizia, è bene dirlo, qualsiasi altro pittore avrebbe fondato e realizzato un’intera carriera; un ciclo che è una sorta di carica antitizianesca effettuata usando apparenti suggestioni del Vecellio; un ciclo che scoppia d’energia, di salute e di voglia di vivere violando e violentando i sigilli del proprio tempo, come un gran mazzo di frutta, fiori, bestie e pezzi di carne umana mescolati assieme che venisse fatto scivolar giù dalla gerla stessa della vita; dopo tutto questo, chi avrebbe potuto mai immaginare che il Romanino approdasse alla penombra, all’indigenza, all’espulsione di fame, artrosi, fiele, disgrazia, sete, malattia e offesa, tutti in toni gravissimi e gramissimi, della Cappella del Sacramento? Chi alla distruzione, allo sfarinamento, allo sbrindellamento, allo stracciamento fatto coi denti e il cuore a pezzi, dello spazio xilografico sì, ma rubicondamente trionfante e rissoso di Cremona? Cosa dire? Che il Romanino apre e chiude ad ogni volta? Questo è ben certo; ma il fatto che bisogna specificar subito è che, chiudendo ad ogni volta, ad ogni volta riapre in altre zone e in altri terreni, che non risultano mai contenuti negli stili, anzi negli agglomerati linguistici, paralinguistici, dialettali o paradialettali, dell’opera appena terminata; bensì in altre, magari di molto precedenti; e, comunque e sempre, nell’inadattabilità atavica e fetale, tragica e senza pace; che è il vero fondo o ventre della sua natura d’uomo; e di poeta.

Resurrezione di Lazzaro, Gerolamo Romanino, Chiesa di San Giovanni, Brescia

Pasolini

Riprendo questa tua suggestione. L’errore io credo è quello di considerare il Romanino un pittore eclettico: non lo è affatto un pittore eclettico, non lo è all’interno del quadro; detta così esteriormente, la cosa potrebbe anche far sospettare un certo eclettismo in lui, ma l’interno di un quadro, l’esame stilistico dell’interno di un quadro, ci dimostra che noi non siamo affatto di fronte ad un pittore eclettico, mancano le qualità dell’eclettismo in lui. L’eclettismo non è mai drammatico, non è mai profondamente contraddittorio e invece il Romanino è continuamente drammatico e soffre continuamente la contraddizione ed ha continuamente coscienza degli abbandoni e delle riprese di motivi stilistici diversi. Inoltre l’eclettismo si svolge sempre dentro un ambito culturale preciso ed è l’imitazione di quelle che Barth chiama le varie scritture di un contesto culturale, mentre l’eclettismo del Romanino è infinitamente più complesso, cioè non si svolge dentro un ambito culturale, ma va o prima o dopo questo ambito culturale cioè o è ritardatario o è anticipatore, come dicevano prima sia Piovene che Guttuso, cioè il suo eclettismo si svolge nel tempo fino a dei momenti arcaici gotici, nel futuro fino addirittura a prevedere e a prefigurare il Caravaggio. 

Testori

Sono d’accordo. È proprio lui, il Romanino a dare, nel bel mezzo del suo lavoro e, ormai pare certo, ancor prima del Savoldo, la più gran “botta” precaravaggesca che si conosca: quella del San Matteo; ma nel disfarsi in luci ed ombre mestissime, stracolme cioè di fame, del fisico ingombro dei corpi, la “botta” è verso il Caravaggio tardissimo: o il Serodine (che fu, appunto, uno di quei sommi derelitti); o il Rembrandt: un Rembrandt indigente per struttura anzichè per eventi, e perciò incapace di pensare che il colore è anche scrigno di meraviglie rapinose e divine; un Rembrandt cui fosse toccato di vivere un secolo prima del previsto, d’avere come luogo geografico dei propri disastri economici la Val Camonica e di raccogliere, invece che suppellettili pregiate, stoffe, broccati, armi, bronzi, statue e insomma le amatissime antichità, pezzi di pietra con incisi sopra i “pitoti”; cioè a dire antichità, non già da storia, ma da preistoria. Non è allora chi non veda come, il Romanino abbia servito anche lui a prefigurare il genio del Merisi. Per il che potrebbe dirsi, a conclusione, che la nostra Cappella dovè esser stata, per il Caravaggio, uno dei santuarii di più cara ed eccitante frequentazione; per dar forza alla formazione della sua nuovissima, disperata e tragica religiosità del vivere; e del morire.

San Matteo, Gerolamo Romanino, Chiesa di San Giovanni, Brescia

Pasolini

Nella mia indagine sono arrivato a questa altra conclusione. Romanino non era un grande professionista, perché anche di un grande professionista gli mancano le qualità interne al quadro. Non è mai cioè soltanto abile, e questo ce lo dimostra il fatto che insieme a momenti di straordinaria abilità da mestierante, evidentemente ce l’aveva questa abilità, – ricordo per esempio un manto argenteo della Vergine fatto con la perfezione così anonima di uno che sia soltanto straordinariamente abile nel fare manti con tutte le loro pieghe, i loro riflessi ecc. – e vicino a questi momenti di assoluta totale completa abilità ci sono quei momenti, diciamo così, di goffaggine, che a un abile non sarebbero mai sfuggiti: quando un abile dipinge veloce, forse Guttuso potrà confermarlo o no, disegna sempre con eleganza e con bravura, non è mai goffo, invece il Romanino quando dipinge veloce rasenta addirittura un certa bruttezza, che egli poi incamera nel suo stile come elemento espressionistico, ma ciò non toglie che sia goffa e sgradevole, quasi brutta da vedersi. Credo che molti spettatori conformisti di fronte a certe mani di quelle megere che sono le profetesse si scandalizzino e le trovino brutte: sono mani dipinte in maniera orrenda, un mestierante non avrebbe mai fatto delle mani simili. E non è nemmeno, terza pista sbagliata, un pittore facile, perché nessuno dei suoi quadri ispira eleganza, grazia, piacevolezza a vedersi, mentre di molti pittori minori, i cosiddetti petits maîtres, vien voglia di prendersi un quadro e di portarlo a casa e tenerselo davanti agli occhi come elemento gradevole del proprio mobilio. Questa idea non viene mai di fronte al Romanino, di fronte a lui si è sempre in un atteggiamento della massima, quasi religiosa attenzione e sempre in uno stato critico, mai di delizia.  Siccome io non ammiro i momenti di grande abilità e non sono neanche degli assertori della grandezza del Romanino nella fase veneta, dove effettivamente si potrebbe pensare ad una certa grazia assoluta, non ho mai avuto questa impressione che provo davanti ai «petits maîtres». Il fondo nell’interno del quadro, il fondo del Romanino è sempre angosciato, sembra una qualità di grande severità, ma non nel senso magari anche formalistico, come troviamo spesso nella pittura italiana: spesso il pittore italiano è formalmente severo, cioè è classicistico; il Romanino non lo è mai, c’è sempre una profonda angoscia nell’interno dei suoi quadri. 

Testori

Io me la spiego così quest’angoscia di cui giustamente parli. Quando d’occasione in occasione, il Romanino si esibisce con tanto maggior scatenamento attraverso rottura di sintassi e grovigli ed invenzioni di vocabolario, quanto più avvertirà l’inadeguatezza di questi strumenti a determinargli un qualunque equilibrio, sembrano lasciarlo insoddisfatto; insoddisfatto e sfinito. Quel tanto di rozzamente esaustivo che si prova di fronte alle sue opere quasi fossero non un passo, ma una conclusione; e la contraddizione delle domande che, nello stesso tempo, esse suscitano circa il dopo; tutto questo deriva da quell’impossibilità. Ora chi vive e si nutre di quell’impossibilità e della mancanza che è connessa e li trasforma in forza continuamente attiva, sarà tutto quello che, circa il Romanino, a proposito di bizzarrie, capricciosità, stranezze e spiriti di “fronda”, è stato detto dalla critica, cose a cui del resto, avevano già alluso le fonti ed i documenti… ma, prima d’ogni cosa e sempre, sarà un escluso dal proprio tempo; sarà, ecco la parola giusta o che “fa giustizia”: un barbaro. E barbaro, in senso completo, in senso sordo e cieco, il Romanino dimostra d’esserlo, mano, mano, che la sua carriera cresce e matura; fino a porsi come il solo vero grande sdegnoso e sdegnato barbaro dell’intero Cinquecento italiano. Dall’offesa e dalla ferita che è al fondo della sua natura, non consegue tuttavia soltanto questo; questo può essere, anzi è, la reazione primaria, assoluta. Sul piano umano consegue, ad esempio, la sua scelta perentoria verso chi, nella vita, è come lui impossibilitato ad adire a un minimo di spazio vitale, e cioè di diritto e di dignità; consegue altresì il suo buttarsi sfrenato, cagnaresco, clamoroso e rissante dalla parte dei senza censo, dei senza averi, dei senza nome e dei senza niente.

Pasolini

La sua non è una sperimentazione leggera, elegante, eclettica dei vari linguaggi, ma una vera e propria serie di sperimentazioni di linguaggi e di scuola oppure, come si dice in questi ultimi tempi, uno sperimentalismo ossessivo, che lo fa passare tra le più varie esperienze e mai secondo un’evoluzione, intendiamoci, perché in tal caso si tratterebbe appunto di un’evoluzione. Fermo restando che la carriera del Romanino è una serie di salti violentissimi angosciati di una esperienza stilistica, dall’adozione di un linguaggio a un altro, a un esame strutturale della sua pittura – difficilissimo – appunto perché la sua qualità mimetica, angosciata, era fortissima, risulta che ci sono alcuni elementi strutturali costanti nella sua opera. Ora se io parlassi di letteratura sarei un po’ più preciso: parlando di pittura di cui non conosco bene la terminologia, scusatemi se sono un pochino generico. Queste due costanti strutturali della pittura di Romanino che superano le varie e diverse contraddittorie esperienze stilistiche sono un riferimento continuo al Gotico, ma non al Gotico inteso soltanto come arcaicità, cioè come ritorno all’arcaico, come ritorno al ’400 o addirittura al ’300, ma al Gotico, diciamo, come categoria mentale o stilistica nordica, addirittura danubiana. L’altra costante strutturale che troviamo in tutti i quadri del Romanino è la galleria dei ritratti psicofisici di personaggi. Nel momento veneziano, in quello giorgionesco, in quello ferrarese, la fisionomia e la caratterizzazione sociopsicologica dei personaggi rimane costante. 

Testori

C’è una conferma in quel che tu dici, proprio qui, nella Cappella del Sacramento. Basta alzare la testa e guardare la serie dei profeti dipinti sugli arconi. Perché, cosa fa un uomo come il Moretto il quale creda al proprio tempo se gli si offre di dipingere sei Profeti? Immagina, ecco, che i sei personaggi s’affaccino ad altrettante finestre di cui non si vedono gli stipiti, bensì soltanto il vuoto contro l’azzurrità timbratissima e accecante del cielo. E se questi Profeti devono poi tener tra mani i cartigli della loro denominazione? Agirà come se si trattasse di parasoli; comunque non perderà da essi e su di essi un solo taglio d’ombra; o un solo colpo e sbattito di luce; e darà, poi, loro una sostanza così prensile da trasformarne le eventuali memorie gotiche, alcune volte in strumenti d’esibizione ginnica da fiera, altre in antecedenti della fisarmonica o d’altri strumenti per musica di borgo (magari, di Borgo San Giovanni).
Che farà, invece, un barbaro qualora gli si rivolga la stessa offerta? Guardate i Profeti del Romanino; e vedrete da voi. Goticizzerà, non solo fino al calco, ma fino alla caricatura i cartigli; ne distruggerà coscientemente ogni possibile valore plastico, riducendoli a lastre malfatte di latta dove stia scritto uno stornello da cantare; per lasciar emergere solamente il peso e l’ingombro dei corpi: contadini o, meglio, montanari stanchi epperò possenti, che stan tirandosi su dai mucchi di fieno (o di paglia) dentro cui hanno appena finito di riposare… La verità è che i sei Profeti del Romanino rotolano giù dall’arcata e ci vengono adosso come accadeva di cose consimili (ma in scultura) ai tempi dell’arte romanica o come accadrà, un secolo dopo, dei più rovinanti atti realistici e impuri di quel Seicento che non riuscirà neppure lui ad accettarsi e ad amarsi…

Pasolini

Cioè quello che mi ha turbato nel Romanino è questo suo essere in fondo, nel più profondo momento della sua personalità, estraneo al Rinascimento. Il Romanino li aveva i doni della pittura, eccome se li aveva; cioè non aveva doni che hanno espresso una pittura, diciamo, piena di grazia che si coglie al primo sguardo come un oggetto completo, rifinito, assoluto, incantevole e in qualche modo ineffabile, come sono certe cose del Lotto, oppure, tanto per dare un esempio di petit maître pieno di questi doni di grazia quasi carismatica, un pittore di cui ho visto la mostra due o tre anni fa a Treviso, Cima da Conegliano. Ecco, quello veramente è la perfezione assoluta, appunto io lo considero un «petit maître», cioè meno grande del Romanino. E il Romanino ha investito questi suoi doni in una pittura di crisi, anziché in una pittura di grazia. Lucien Goldmann quando parla delle omologie strutturali tra una società e le strutture stilistiche di un poeta o di un pittore dice addirittura una boutade, cioè che i grandi artisti, i grandi poeti anche nel senso dei doni, appunto, sono espressi dalle grandi culture. È inconcepibile un grande pittore (il petit maître sì) un grande pittore, poeta nel pieno senso integrale della parola, con tutti i doni possibili immaginabili, espresso da una piccola cultura. Allora il Romanino, secondo me, è soltanto anagraficamente, diciamo così, e biograficamente espresso dal piccolo mondo bresciano, dalla provincia bresciana, ma non è un pittore provinciale, è un pittore internazionale; lo è in modo culturalmente in parte inconscio e incerto perché probabilmente lui stesso non si rendeva conto di quello che stava operando e facendo, se non nella drammaticità delle sue aspirazioni e delle sue ricerche, ma è un pittore internazionale che fiorisce sulle valli alpine che congiungevano il piccolo mondo provinciale bresciano da una parte al grande mondo rinascimentale italiano e dall’altra al nascente grande mondo del Rinascimento europeo.

Tag:In evidenza, Pasolini, Romanino, Testori

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