Un Orfeo sceso nell’Ade per trovare se stesso
Immaginate un ragazzo di 15 anni e mezzo, che una sera di primavera alza gli occhi verso il cielo e scrive: «Infinito stellato, tu, la notte alla mente / che ti sta ansiosa dici che sei il mistero; / il giorno efimero ti nasconde allo sguardo, / il giorno che è nulla nell’immenso tuo, / il giorno che è tutta la vita dell’uomo. / Infinito oscuro, stellato, / solo al tuo silenzio comprende l’uomo / che tra un’eternità tu gli sarai ancora un mistero, / sempre un mistero».
Era quasi un secolo fa, il mondo era molto diverso dal nostro, eppure quell’ansia del mistero si affacciava notturna e silenziosa, inconfessabile tra le chiacchiere e la frenesia del giorno. Doveva apparire insolita anche ai suoi amici liceali, che durante il primo fascismo vivevano già di fervori culturali e politici, oltre che mondani. Troppo poco per Cesare Pavese, diciotto anni e un mistero che lo inquieta sia fuori sia dentro: «Le ho sofferte ancor troppo poco le donne. (Sempre da lontano, però, sempre da lontano!) Pensa che starei al supplizio della corda pur di conoscerne una da vicino. Non mica il corpo. Ci son le statue greche e le puttane per quello. Ma l’anima, l’anima, un po’ d’anima che mi dica che non è vero che io sia un nulla nel mondo, ma che valgo un affetto, un po’ d’interessamento almeno. Macché! Mi si risponde che non so ballare e che non ho maniere. Cerco questo io forse, perdio? Basta, piantiamola lì» (a Giorgio Curti, 6 ottobre 1926).
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