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«Fare silenzio», il sacrificio che gli adulti dovrebbero imparare

  • Data 12 Giugno 2022

di Sergio Belardinelli 

da Il Foglio – 7 giugno 2022

Sul silenzio regna una certa confusione. Di solito lo associamo alla riflessione, alla preghiera, a una gita in montagna o alla visita a un monastero; continuamente veniamo sollecitati a cercarlo, a coltivarlo senza sapere bene perché; spesso lo associamo anche all’angoscia e nei momenti di depressione ai cimiteri; i poeti ce lo hanno raccontato in tinte diverse. Ma forse, per sapere che cosa esso veramente sia bisognerebbe chiederlo ai bambini. Solo loro conoscono l’inquietudine che sempre l’accompagna e il bisogno di fare rumore quando ci si trovano dentro. Parlare da soli ad alta voce o mettersi a cantare è spesso il loro antidoto preferito. In ogni caso, per i bambini, non c’è niente di più difficile che “fare silenzio”, sebbene a questo essi vengano continuamente richiamati dagli adulti. “Fare silenzio” è il loro primo sacrificio ( sacrum facere), la prima distinzione che separa un mondo da un altro, il sacro dal profano appunto. E forse solo i bambini sono in grado di sentire ancora, con timore e tremore, il significato di questa separazione, così come il bisogno di superarla in modo che sacro e profano divengano una cosa sola. Il silenzio che faticano a “fare” li spaventa e li attrae. Basta vederli quando giocano a nascondino. La frenesia del nascondimento è sempre accompagnata dal dito indice appoggiato sulla punta del naso, quasi a evocare la magia del silenzio che verrà. Dai loro occhi traspare la gioiosa eccitazione del loro piccolo cuore, ma anche un po’ di paura. Non sono capaci di rimanere nascosti troppo a lungo. Basta smettere un attimo di cercarli e loro escono gridando dal loro nascondiglio, gettandosi tra le braccia di chi li cerca. E’ difficile fare sacrifici da soli, stare a tu per tu con il sacro; “sovrumano” il suo silenzio. A meno che là fuori non ci sia qualcuno pronto ad abbracciarti. In questo caso, e i bambini lo danno a vedere chiaramente, sacro e profano si fondono, generando quella gioia che per noi adulti sembra essere invero sempre più difficile.

Con la “morte di Dio”, proclamata ai quattro venti come una liberazione, sembra non esserci più traccia del sacro; del silenzio abbiamo una paura molto più profonda di quella dei bambini; quanto al sacrificio, esso si presenta ormai semplicemente come un ostacolo alla nostra libertà e al nostro desiderio di autorealizzazione. Ma tutto questo è soltanto un’illusione. Nessuna società può liberarsi del silenzio, del sacro e del sacrifico, nemmeno la nostra che pure sembra volerlo fare; al massimo può rimuoverli o proiettarli in pratiche e luoghi i più impensati, abitati esclusivamente dal nostro io, ma liberarsene no. Possiamo vivere in solitudine e da “pensionati della storia”, ma nessuna società potrebbe sopravvivere se i genitori smettessero di sacrificarsi per i loro figli o se tutti i suoi membri decidessero che non valga più la pena sacrificarsi per nulla. Semplicemente perderemmo ciò che più di ogni altra cosa conferisce agli uomini dignità. Senza la disponibilità a sacrificarsi per essi, valori come giustizia, libertà, responsabilità perderebbero il loro significato. Sventurati dunque coloro che del sacrificio hanno paura. Costoro non conosceranno mai la vitalità, la trepidazione, la potenza rivelatrice di ogni autentico “sacrum facere”, il cui primo significato non è quello di una sofferenza o una privazione da temere, ma esattamente quello di rendere sacra una cosa per nostra iniziativa, generando uno spazio che siamo noi a volere così, perché così ci piace vivere insieme agli altri. Esattamente come fanno i bambini quando giocano a nascondino. Quanto al mondo, ridotto a mondo profano e basta, esso apparirebbe sempre più vacuo e inospitale, sempre meno attraente, abitato da uomini sempre più incapaci di penetrare la bellezza inquietante del suo mistero e, peggio ancora, sempre più inclini a “sacralizzare” qualsiasi cosa. Una vera sciagura. Se infatti il sacro induce sempre una sorta di trasfigurazione del profano, la sacralizzazione lo assolutizza e, in quanto tale, è sempre violenta, escludente (Girard docet).

Abitare il mondo, ascoltare il suo silenzio come se fosse un sacrificio, desiderare ardentemente le sue voci e i suoi rumori, predisponendo loro uno spazio accogliente, fiducioso che li renda in questo modo ancora più belli: questo dovremmo imparare dai bambini.

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piergiorgio

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Tornando al titolo del Meeting, questo sta a indicare ogni anno il passo di una storia che continua e che non si ferma a guardare indietro, bloccata su se stessa. È l’espressione di un ideale che si fa vita. Ben altro che un contenitore di eventi o, peggio, di intrattenimento. Si spiega così che dopo 46 anni il Meeting ci sia ancora e sia un luogo sempre interessante e sorprendente. Un percorso analogo lo stiamo facendo come San Benedetto. Abbiamo già in preparazione alcuni incontri sui temi dell’Europa e dell’intelligenza artificiale, e tanto altro, non mancheremo di tenervi aggiornati. Al di là delle singole iniziative la fondazione è prima di tutto un luogo di incontro e di amicizia aperto a tutti. Intanto siamo già in grado di confermarvi che da giovedì 25 settembre alle 18.30 nella nostra sede di Borgo Wührer 119 a Brescia, ci ritroveremo per la Scuola di comunità. Partendo dalla lettura di alcuni testi di don Luigi Giussani è un’occasione per mettere a confronto domande ed esperienze che riguardano la nostra vita e il suo significato. Gli incontri, della durata di un’ora, si terranno con cadenza quindicinale sempre alle 18.30. La proposta è libera, gratuita e aperta a tutti. Chiediamo solo la continuità della partecipazione come segno di serietà nel percorso che ci apprestiamo a cominciare. Il giorno 25 verranno date indicazioni su come si svolgeranno gli incontri con il calendario fino a dicembre e sul testo di riferimento.

Qualcosa di più forte e profondo della distruzione
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La newsletter di oggi è l’ultima prima della pausa estiva. Anche in queste settimane per molti dedicate al riposo e alle vacanze, mentre il mondo è in fiamme e gli orrori della guerra si moltiplicano, crediamo che non si possa far finta di nulla, aprire una parentesi o staccare la spina come si usa dire. Non si può andare in vacanza senza portarsi dietro queste ferite. Portarsele con sé rende più bello e più vero il tempo del riposo. Per questo oggi vogliamo proporvi la lettura di due testimonianze da due dei principali teatri di guerra: l’Ucraina e Gaza. Già scorse settimane avevamo ricordato il caso di Vasilij Grossman, lo scrittore ucraino che dentro lo scenario di morte prodotto dalle ideologie del ’900, non aveva mai smesso di cercare «l’umano nell’uomo» come inizio di una possibilità di speranza. Le testimonianze di oggi ci dicono che anche nelle situazioni più difficili, la violenza, la distruzione e la morte possono non essere l’ultima parola. 

La prima, pubblicata sul sito «La Nuova Europa», è di Adriano Dell’Asta, professore di lingua e letteratura russa all’Università Cattolica e vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana. Racconta la storia di Alina, giovane donna ucraina, malata di cancro in fase terminale, che nei suoi ultimi giorni di vita ha trovato accoglienza in un hospice a Charkiv, mantenuto aperto anche sotto le bombe. Tutto sembra perduto, senza speranza, in guerre ogni giorno sempre più distruttive e spregiatrici di giustizia e umanità… eppure c’è chi lotta e resiste per accompagnare sin nella morte chi è senza speranza e riaffermare una dignità e una pace che nessun malvagio può cancellare. È l’infinita sorpresa di un miracolo reale che non sapremmo neppure immaginare.

La seconda testimonianza ci è offerta dalla dichiarazione fatta dal patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa al suo rientro dalla visita a Gaza insieme al patriarca ortodosso Teofilo III. «Siamo entrati – ha detto aprendo la conferenza stampa – in un luogo devastato, ma anche pieno di meravigliosa umanità. Abbiamo camminato tra le polveri delle rovine, tra edifici crollati e tende ovunque: nei cortili, nei vicoli, per le strade e sulla spiaggia – tende che sono diventate la casa di chi ha perso tutto. Ci siamo trovati tra famiglie che hanno perso il conto dei giorni di esilio perché non vedono alcuna prospettiva di ritorno. I bambini parlavano e giocavano senza battere ciglio: erano già abituati al rumore dei bombardamenti. Eppure, in mezzo a tutto questo, abbiamo incontrato qualcosa di più profondo della distruzione: la dignità dello spirito umano che rifiuta di spegnersi».

L’appuntamento con la newsletter «Fissiamo il pensiero» tornerà domenica 7 settembre. Buone vacanze!

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