La politica malata e l’amore per la realtà
Italia si vota
Lo scalpello e la crisi del Parlamento
di Mario Mauro
Voteremo il 25 settembre.
Voteremo per la costituzione delle nuove assemblee parlamentari di camera e senato. Non è scontato sottolinearlo perché nel rapporto ipocrita e menzognero che lega da quasi trent’anni i partiti della seconda repubblica ai loro elettori, andremo alle urne apponendo la croce su una scheda dove verrà scritto sul simbolo del partito il nome del candidato presidente del consiglio. Una boutade : perché la nostra Costituzione e la natura parlamentare della nostra Repubblica affidano alle prerogative del Presidente della Repubblica l’individuazione di quel nome.
Come, pure, ci immaginiamo divisi in coalizioni, salvo poi scoprire, dopo ogni tornata elettorale, che la politica è come la cucina: si fa il minestrone con le verdure che si trovano. I partiti hanno scelto di mantenere gli elettori in questo equivoco. Sono in realtà dei non-partiti: senza congressi, senza dinamiche democratiche, senza culture politiche consolidate. Semplicemente qualcuno deposita un marchio , ne diventa proprietario e cerca sovvenzioni che supportino una strategia di marketing adeguata. Dalla celebre “discesa in campo…” del presidente del Milan Berlusconi al più semplice “vaffanculo” di Grillo. E chi rinfaccia a questo o quel parlamentare di cambiare casacca fino a rivendicare nei programmi il vincolo di mandato, come Di Maio e Salvini, dimentica che sono i partiti che con non chalance hanno cambiato in questi anni le idee. Al punto che nel centrodestra chi era contro la nazione e voleva bruciare la bandiera è arrivato alla conclusione che “vengono prima gli italiani” e la Padania si fotta. Del Partito Democratico, nato in altro contesto e con altri nomi -anche dai finanziamenti di Mosca ed oggi campione di Atlantismo- non mi meraviglio. Ha fatto per anni la guerra a Berlusconi fin quando non è riuscito a dotarsi di un segretario, Renzi, che non ha mai fatto mistero di volerne l’eredità.
Monti prima e Draghi di recente sono la prova del fallimento del sistema e della fragilità della nazione a cui certo mancano statisti, ma soprattutto un sentimento di consapevolezza diffuso tipico di una educazione al bello , al vero, al giusto che sola garantisce un comune sentire nelle circostanze più difficili, e che troppe agenzie educative, comprese chiese e associazionismo di varia natura, hanno reso marginale nelle proprie strategie, preoccupati delle briciole del potere. Nella crisi finanziaria del 2009 come nella stagione della pandemia – ed oggi di fronte alle sfide della guerra e delle autocrazie – la società italiana e la sua classe dirigente si smarrisce faticando a mettere al centro dei propri sforzi il destino di una generazione.
Ma il 25 settembre si vota. E non ci sono alibi perché la partita per il potere è la partita del dovere. “Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”. Le parole di Aldo Moro sono un monito ineludibile per chi matura quella consapevolezza che ci fa coscienti dei rischi a cui esponiamo la nostra convivenza civile accontentandoci del fatto che la politica appartenga ai soli politici.
La diciottesima legislatura è stata un vero disastro: ha offerto spettacoli memorabili di pressappochismo e di mancanza di dignità. Ma è comunque espressione di un vivere civile dove le istituzioni sono chiamate a custodire e promuovere i valori di un popolo. Lo si è capito nella dedizione di tanti nel tempo della pandemia. Nella determinazione con cui Mario Draghi ha difeso atlantismo ed europeismo. Nelle scelte di politici che hanno ammesso i propri errori. Dare una forma a queste intenzioni, usare il voto come uno scalpello per plasmare una democrazia nuovamente attiva, come nei momenti più duri della storia della nostra Patria, spetta a noi. Alla nostra passione civile ed alla nostra libertà. Al modo con cui parteciperemo alla discussione, a partire da oggi, sui luoghi di lavoro e più probabilmente sulle spiagge e nelle nostre famiglie. Possiamo dare al nostro impegno il senso di una responsabilità per l’Italia. Consapevoli che la politica non è la panacea dei problemi della vita. Ma che senza fare politica ci consegniamo al potere opaco di chi ci vuole senza amore per la realtà, senza la capacità di stabilire legami e promuovere attraverso dinamiche di comunità, l’esperienza di un popolo. Se andremo al voto con questa coscienza un giorno torneremo ad animare anche partiti veri, e soprattutto politica degna di questo nome.
22 luglio 2022
da Centro Culturale di Milano https://www.centroculturaledimilano.it/italia-si-vota-lo-scalpello-e-la-crisi-del-parlamento/
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Il Paese degli aiuti ma il vero rebus è la crescita
di Alberto Mingardi
Sembra che la competizione elettorale debba indicare chi è più credibile come «protettore» di specifiche categorie. E che l’Europa sia una leva per elargire provvidenze
Ai tempi del Covid erano «ristori». Oggi sono diventati «aiuti». Una volta li chiamavamo «sussidi». Alle prime battute di questa campagna elettorale siamo tutti preoccupati dell’imminente discontinuità. Da un governo sostenuto da una maggioranza ampia a uno inevitabilmente di parte, da una figura internazionalmente apprezzata come Mario Draghi a un premier che, chiunque sarà, ci apparirà perlomeno dagli orizzonti molto più nazionali. Forse sarebbe il caso di preoccuparsi anche di ciò che definisce la continuità politica degli ultimi anni: l’adesione a un’idea della politica tutta incentrata, appunto, sul ristoro, sull’aiuto, sul sussidio.
La pandemia ha obbligato a chiudere una serie di attività, che sono state «ristorate». In Italia i sussidi si sono innestati su interventi di diverso tipo, a cominciare dal Reddito di cittadinanza, che a sua volta si sommava ad altre misure di carattere assistenziale. Poi sono arrivati il rincaro dei prezzi energetici e l’inflazione. In un anno, questi hanno portato con sé una decina di provvedimenti di sconti, anticipi, aiuti vari. Pochi giorni fa il governo ha annunciato entrate maggiori del previsto per 14,3 miliardi di euro. Anziché fare meno disavanzo, finanziando i programmi già in essere con le tasse dei contribuenti di oggi invece che con le tasse dei contribuenti di domani, quei 14 miliardi sono subito diventati altri «aiuti».
I sussidi cronicizzano i problemi. Ristoro chiama ristoro, aiuto chiama aiuto. A un certo punto, nel suo «Fratelli d’Italia» (per i più giovani: non si tratta di un manifesto elettorale), Alberto Arbasino sospira: «E tutti lì ad aspettare che vengano elargite provvidenze, per il solo fatto che loro se le stanno aspettando». La ragione per aspettarsi un nuovo aiuto è semplicemente il fatto che si sia beneficiato di un aiuto precedente. È la natura della politica: un sussidio, un beneficio, finisce a esseri umani in carne e ossa che non se ne separeranno facilmente e che a un certo punto cominceranno a considerarlo un «diritto».
La questione non è tanto la volontà di sorreggere «chi è rimasto indietro». È che si afferma una cultura della dipendenza per cui non si cerca di aiutare le persone che l’hanno perso, per esempio, a ritrovare un lavoro. Non pensiamo più che lo Stato debba spianare gli ostacoli che impediscono ai singoli di provare a far da sé. Questa era, almeno sulla carta, la promessa dello Stato sociale: consentire anche ai più umili di andare a scuola per trovare un lavoro migliore di quello dei loro genitori; garantire cure mediche e una pensione perché, sgravati da quelle preoccupazioni, i singoli potessero scegliere di prendersi qualche rischio, diventare un po’ più padroni della propria vita. Intervistato da Aldo Cazzullo, Giuseppe De Rita ha descritto l’Italia del boom parlando di «conatus essendi»: di una voglia di fare istintiva, ingorda, sregolata, che ha prodotto la ricchezza su cui ancora viviamo. Il Paese è fatto anche di imprese che sgominano la concorrenza sui mercati internazionali. Di imprenditori pieni di progetti. Di lavoratori col culto del lavoro ben fatto.
La voglia di fare è qualcosa che le persone hanno indipendentemente dalle istituzioni politiche. Queste ultime però possono lasciarle spazio, oppure strangolarla. L’automatismo per cui a un problema corrisponde un decreto e a un decreto corrisponde un sussidio la mortifica. Chi prova a far da sé è ufficialmente un ingenuo.
Già in queste sue prime battute, la competizione elettorale sembra essere chi è più credibile come «protettore» di specifiche categorie: ovvero, come elargitore di aiuti a loro vantaggio. Persino l’Europa, stavolta, non è più oggetto di scontro. Solo perché è considerata non un ostacolo, semmai una leva per continuare ad elargire provvidenze. In questo, non c’è differenza fra destra e sinistra: l’una e l’altra considerano la spesa pubblica un grande sedativo e le emergenze degli ultimi due anni l’occasione ideale per farcelo prescrivere. Ciò però non ha solo conseguenze macroeconomiche, scolpite nel livello del nostro debito. Cambia anche aspettative e comportamenti delle persone, stempera quella voglia di fare che, per anarchica e caotica che sia, è ciò che ci ha sempre tenuto a galla anche nelle occasioni più difficili.
Dove saremmo, oggi, se avessimo costantemente frustrato la voglia di fare dei nostri nonni e dei nostri padri? Il vero problema dell’Italia del dopo elezioni non è questione di volti e sigle. Ma delle visioni del mondo che ci stanno dietro. Come si fa a essere «sovranisti», se poi abbiamo sempre il cappello in mano? Che senso ha predicare la diversità, se l’unico orizzonte diventa dipendere dalla borsa pubblica: che spazio resta, per provare a essere più autenticamente se stessi? Un Paese non è forte e autorevole a causa di chi fa il presidente del Consiglio. È forte e autorevole se cresce, se sa produrre ricchezza, se ha una società viva, accesa dalla voglia di immaginare il proprio futuro. Destra e sinistra usano toni diversi, ma l’impressione è che l’una e l’altra vogliano uno Stato elemosiniere. In cerca di facili consensi.
dal Corriere della Sera – 29 luglio 2022
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L’umanesimo rigenerato:
proposta “epocale” di Morin
Al tempo della complessità l’uomo è impegnato a giocare la carta della conoscenza, avventura della vita. Un ripartire dall’uomo non in astratto. O per principio. Ma in quanto soggetto creativo e dunque consapevole delle incognite che questo presente pone a tutti. L’avvio di un autentico percorso di sviluppo è possibile nella traiettoria di interpretare la complessità. Ben sapendo che “la Realtà si nasconde dietro alle nostre realtà”. Schegge di saggezza di un intellettuale che ha attraversato un secolo. E ancora attraversa il presente. In nome di una conoscenza “legata” alla vita
di Edgar Morin
La fredda ragione, quella del calcolo, delle statistiche, dell’economia, è inumana nel senso che è cieca ai sentimenti, alle passioni, alla felicità, alla infelicità, a tutto ciò che costituisce il nostro stesso essere.
Una ragione pura e glaciale è nello stesso tempo inumana e irragionevole. Così vivere è un’arte incerta e difficile in cui tutto ciò che è passione, per non soccombere allo smarrimento, deve essere sorvegliato dalla ragione, in cui ogni ragione deve essere animata da una passione, a cominciare dalla passione di conoscere.
La grande lezione che ne ho tratto è che ogni passione deve comportare un po’ di ragione che vegli su di lei, e che ogni ragione deve comportare della passione come combustibile.
Quale barriera per le scienze?
Il formidabile sviluppo delle scienze fisiche e biologiche del XX e XXI secolo pone problemi etici e politici sempre più gravi. In effetti, a partire dal XVII secolo, le scienze hanno potuto sviluppare la loro autonomia solo eliminando ogni giudizio di valore, cioè ogni giudizio etico o politico. Il loro ruolo nella storia delle società è diventato a poco a poco immenso. I progressi della fisica nucleare hanno permesso la creazione, l’impiego, e poi la moltiplicazione, delle armi nucleari. Quelli della fisica quantistica hanno favorito il gigantesco sviluppo dell’informatica. Quelli della genetica e, più in generale, quelli delle scienze biologiche, incitano alle manipolazioni sull’embrione e sull’essere umano.
Le scienze non conoscono alcuna barriera etica interna. L’etica può giungere solo da morali esterne, laiche o religiose. Gli Stati si impadroniscono dei poteri dell’arma nucleare, divenuta una spada di Damocle per l’umanità. Il profitto si impadronisce della genetica, trasformando i ricercatori in businessmen, mentre la ricerca medica è monopolizzata dalle multinazionali farmaceutiche che si dedicano a produrre farmaci redditizi, a scapito dei farmaci non redditizi. Tutti questi pericolosi sviluppi, oggi aggravati dalla pandemia da Covid19, danno una cupa attualità alla vecchia formula di Rabelais: “Scienza senza coscienza non è che rovina dell’anima”.
La complessità umana
Tutte le mie concezioni sono ora antropo-bio-eco-politiche. Non dipendono solo dal pensiero complesso, ma anche da ciò che ho chiamato “umanesimo rigenerato”. Dico “rigenerato”, poiché già enunciato in modo lapidario da Montaigne in due frasi: “Riconosco in ogni uomo un mio compatriota” e “Ognuno chiama barbarie ciò che non è nei suoi usi”.
L’umanesimo rigenerato si fonda sul riconoscimento della complessità umana. Riconosce la piena qualità umana e la pienezza dei diritti a tutti gli umani, quali che siano la loro origine, il loro sesso o la loro età. Attinge alle fonti dell’etica, che sono solidarietà e responsabilità. Costituisce l’umanesimo planetario della Terra-Patria (che comprende in sé le patrie, rispettandole).
Essere umanista, ormai, non è solo pensare che i pericoli, le incertezze e le crisi (fra le quali quella della democrazia, quella del pensiero politico, quella provocata dal dilagare del profitto, quella della biosfera, quella infine, multidimensionale, della pandemia) ci hanno legato in una comunità di destino. Essere umanista ormai non è solo sapere che siamo tutti umani simili e differenti, non è solo voler sfuggire alle catastrofi e aspirare a un mondo migliore. Essere umanista è anche sentire nel più profondo di se stessi che ciascuno di noi è un momento effimero di una straordinaria avventura, l’avventura della vita che ha fatto nascere l’avventura umana, la quale, attraverso creazioni, tormenti e disastri, è giunta a una crisi gigantesca in cui si gioca il destino della specie. L’umanesimo rigenerato non è dunque solo il sentimento di comunità umana, di solidarietà umana, è anche il sentimento di essere all’interno di questa avventura ignota e incredibile, e sperare che essa continui verso una metamorfosi da cui nascerebbe un nuovo divenire.
La realtà si nasconde dietro alle nostre realtà
Si dovrebbe cercare un vaccino contro la rabbia specificamente umana, poiché siamo in piena epidemia. La crisi da Covid è in un certo senso la crisi di una concezione della modernità fondata sull’idea che il destino dell’uomo fosse quello di dominare la natura e di diventare il dominatore del mondo. Il Covid ci ricorda che viviamo un’Avventura, un’Avventura nell’ignoto, l’Avventura inaudita della specie umana. La Realtà si nasconde dietro alle nostre realtà. La mente umana è davanti alla porta chiusa del Mistero.
(da E. Morin, Lezioni da un secolo di vita, Mimesis edizioni, Milano 2021)
luglio 2022 – Nuova Atlantide