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L’uomo e il potere, a proposito di un intervento di don Giussani

  • Data 6 Novembre 2022

di Sergio Belardinelli

da Il Foglio – 3 novembre 2022

https://www.ilfoglio.it/politica/2022/11/05/news/l-uomo-e-il-potere-una-vecchia-relazione-di-don-luigi-giussani-4618171/

Ci sono pensieri e persone che evocano quasi automaticamente delle corrispondenze che ne condizionano in modo determinante la comprensione. Per quanto mi riguarda non riesco a pensare a don Giussani e al movimento di Comunione e liberazione senza pensare agli anni in cui frequentavo l’università, da studente, prima, e da giovane professore, poi.

Premetto che non ho mai fatto parte del movimento. Mi sono iscritto all’università nel 1971 e da studente credo di non aver mai conosciuto personalmente un “ciellino”. Eppure, già allora, mi piaceva soprattutto l’estraneità del movimento alla dialettica destra/sinistra e la sua coraggiosa testimonianza di una chiesa, saldamente ancorata alla centralità di Gesù Cristo, capace per questo di produrre novità culturali e politiche che, almeno io, non avevo mai visto prima. L’ammirazione crebbe ulteriormente allorché, da giovane professore, conobbi alcuni colleghi legati al movimento e incominciai a leggere gli scritti di Luigi Giussani, in particolare Il senso religioso e Il rischio educativo. Rimasi affascinato dal modo in cui Giussani parlava di Gesù Cristo, della Chiesa e del suo modo di farsi storia. Era un modo che non aveva nulla a che fare col manierismo di sinistra che colonizzava la cultura di quegli anni, compresa quella di gran parte del mondo cattolico, ma non aveva nulla a che fare nemmeno col clericalismo conservatore che cercava in qualche modo (e invano) di resistervi. La migliore teologia del Novecento, da De Lubac a Congar a Chenu fino a Balthasar e Ratzinger, si intrecciava con i migliori tentativi di comprensione filosofica della modernità, da Guardini a Del Noce a Spaemann. Rispetto a ciò cui eravamo abituati nei dibattiti culturali del nostro paese, sembrava di essere su un altro pianeta. Indimenticabile in proposito un incontro italotedesco che un gruppo di amici raccolti intorno a una rivista chiamata “La Nottola”, insieme alla Fondazione Konrad Adenauer, organizzammo a Cadenabbia nell’aprile del 1986 sul tema “La cultura europea del XX secolo, le sue crisi e oltre”. Mons. Luigi Giussani accettò di tenere la relazione principale su “La crisi dell’esperienza cristiana come trionfo del potere”; una relazione che sbalordì letteralmente l’uditorio e che conserva ancora oggi una sorprendente attualità.

Ecco in estrema sintesi il cuore del suo discorso: a) La dignità della persona è riconosciuta solo se essa non deriva integralmente dalla biologia del padre e della madre e dal loro “potere” generativo. Se l’uomo è determinato dai suoi antecedenti biologici, come molte correnti culturali oggi sembrano affermare, non può essere libero e la sua dignità corre sempre il pericolo di essere strumentalizzata. Se nell’uomo invece c’è qualche cosa che lo riconduce direttamente al mistero della sua origine e dell’origine del mondo intero, allora l’uomo ha una dignità inviolabile che trascende la sua natura biologica; b) L’uomo è libero, ma non può concepirsi libero in senso assoluto: siccome prima non c’era e adesso c’è, dipende da altro, diciamo pure “dall’altro”. L’alternativa quindi per Giussani è semplice: o dipende da ciò che fa la realtà, cioè dal mistero, da Dio, o dipende dal potere umano. Il “paradosso” quindi è che la dipendenza da Dio è la libertà dell’uomo dagli altri uomini, e aver dimenticato questo è “la mancanza terribile”, l’errore terribile della civiltà occidentale. Inebriato della propria autonomia, l’uomo occidentale finisce per essere in balia di ogni potere. Lo vediamo bene oggi, allorché una certa logica sembra condotta all’estremo. Riscoprire, testimoniare la dipendenza dell’uomo da Dio come fonte di libertà è dunque la sfida più urgente.

Come san Giovanni Paolo II mise in guardia tante volte, il pericolo più grave del nostro tempo non è la distruzione dei popoli, l’uccisione, l’assassinio, ma il tentativo da parte del potere di distruggere l’umano. E siccome l’essenza dell’umano è la libertà, cioè il rapporto con Dio, l’“uomo che si sente uomo” è chiamato a una “grande battaglia”: la battaglia tra la religiosità autentica e il potere. La battaglia tra la religiosità autentica e ogni forma di idolatria. Altro che destra e sinistra o liberismo. Senza Cristo, si è destinati a stare necessariamente sotto un padrone. Ma purtroppo, aggiunse don Giussani, a noi cristiani manca proprio l’esperienza di Cristo, abbiamo dimenticato “che Cristo, come dice il Vangelo, alla gente è apparso innanzitutto e soprattutto, al di là dei miracoli, come la voce, la presenza che liberava: liberava dal potere, e per questo ha privilegiato i bambini, i poveri, gli ammalati, cioè i socialmente impotenti, affermando che non si può toccare neanche un capello del più piccolo di loro… Noi cristiani non abbiamo l’esperienza che ci dica, che ci faccia sentire essenzialmente, l’appartenenza nell’oggi a Cristo. Tutti parliamo di Cristo, della parola di Cristo, ma ci manca l’appartenenza nell’oggi a Cristo, vale a dire l’appartenenza alla Chiesa come avvenimento”.

Specialmente per i non “ciellini” presenti all’incontro di Cadenabbia, me compreso, le parole di don Giussani suonarono come una frustata politico-culturale e ecclesiologica. Ricordo ancora il dibattito che fece seguito alla relazione, come pure la conversazione che con Nikolaus Lobkowicz, Rémi Brague, Rocco Buttiglione, Henning Ottmann, Karl Ballestrem facemmo durante e dopo cena. Era evidente che eravamo stati provocati da un pensiero forte, da una ecclesiologia affascinante, che con vigore e semplicità puntava tutto su Cristo e sulla sintesi che i cristiani, ovunque siano, debbono saper realizzare tra fede e vita. Può sembrare strano, ma proprio a quella sera mi capita spesso di ripensare, quando mi imbatto in quello che considero uno dei temi più stucchevoli che ogni tanto assorbono il dibattito pubblico del nostro paese: il rapporto tra cattolici e politica, la eventuale collocazione dei cattolici in questo o in quell’altro schieramento e magari la formazione di un nuovo partito dei cattolici. Se penso infatti alle sfide con le quali la politica deve oggi fare i conti: i nuovi scenari internazionali, la guerra nel cuore dell’europa, il digitale e l’intelligenza artificiale, la biopolitica, la povertà, il degrado ambientale; se penso a queste sfide e le confronto con la cultura politica oggi dominante, mi pare che i cattolici abbiano oggi un compito ben più arduo che quello di scegliere da che parte collocarsi. Siamo di fronte a una “crisi cosmica”, come disse Giussani citando Toynbee, della quale non siamo in grado di comprendere la natura. E’ venuta poco a poco a mancare niente meno che la “trascendenza dell’uomo” e questo, sul piano strettamente politico, significa che il potere ha perso il senso del limite, anzi, è sempre Giussani a dirlo citando Guardini, “il potere si è svolto contro il trascendente”, fissando “se stesso come ultimo limite”.

La crisi della politica di cui oggi tanto si parla è dunque molto di più che una crisi politica; è una crisi culturale e antropologica, sulla quale don Giussani ha avuto il merito di insistere anche quando, fuori e dentro la Chiesa cattolica, erano in pochi a rendersene conto. Purtroppo non mi pare che questi pochi siano oggi cresciuti di numero.

Tag:crisi, Don Giussani, politica

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È la letteratura la vera educazione affettiva
15 Novembre, 2025

In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
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«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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