• Chi siamo
  • Attività
  • Video
  • Archivio
  • Sostienici
  • Statuto
  • Organi
  • Contatti
Email:
info@fondazionesanbenedetto.it
Fondazione San BenedettoFondazione San Benedetto
  • Chi siamo
  • Attività
  • Video
  • Archivio
  • Sostienici
  • Statuto
  • Organi
  • Contatti

Fissiamo il Pensiero

  • Home
  • Fissiamo il Pensiero
  • Il barlume della speranza e lo spirito del tempo

Il barlume della speranza e lo spirito del tempo

  • Data 12 Gennaio 2025

Riprende da oggi il nostro appuntamento settimanale con la newsletter domenicale «Fissiamo il pensiero». È il primo del 2025, un anno che coincide con i vent’anni di presenza della Fondazione San Benedetto. Iniziamo questo nuovo tratto di strada ringraziando tutti coloro che ci seguono, con la speranza di poter continuare a offrire ogni settimana un piccolo contributo utile a ciascuno e alla vita comune attraverso la proposta di spunti di lettura. Non un flusso continuo di informazioni e di opinioni, ma semplicemente la segnalazione di un articolo o di un testo su cui fissare l’attenzione e il pensiero, oltre che delle iniziative che la fondazione promuoverà nel corso dell’anno.
Questa settimana vi suggeriamo la lettura dell’intervista al Foglio di Erik Varden, 50 anni, vescovo cattolico in Norvegia.

Erik Varden

«Avere speranza come cristiani – sottolinea nell’intervista – non significa aspettarsi che tutto vada bene. Non tutto va bene. Qui e ora, la speranza si manifesta come un barlume. Questo non vuol dire che sia irrilevante. La speranza ha un contagio benedetto che le permette di diffondersi di cuore in cuore. I poteri totalitari lavorano sempre per cancellare la speranza e indurre alla disperazione. Educarsi alla speranza significa esercitarsi alla libertà». Dopo essere cresciuto in una famiglia agnostica, Varden si è convertito dopo aver ascoltato una sinfonia di Gustav Mahler, abbracciando la fede cattolica a 19 anni. Monaco cistercense ha insegnato a Cambridge prima di essere nominato vescovo in un paese fra i più secolarizzati come la Norvegia. Pubblicata in occasione dello scorso Natale, l’intervista merita di essere letta integralmente per la bellezza e l’intelligenza delle risposte mai appiattite sui soliti cliché. Come ad esempio queste considerazioni sulla secolarizzazione: «La secolarizzazione ha fatto il suo corso. È esaurita, priva di finalità positiva. L’essere umano, nel frattempo, rimane vivo con aspirazioni profonde. Si consideri il fatto che Marilynne Robinson e Jon Fosse sono letti in tutto il mondo; che la gente accorre al cinema per vedere i film di Terrence Malick; che migliaia di persone cercano un’istruzione nella fede. Questi sono segni dei tempi. Dovrebbero riempirci di coraggio. Dovrebbero renderci determinati a non mettere la nostra lampada sotto il moggio. La Chiesa possiede le parole e i segni con cui trasmettere l’eterno come realtà».


«La secolarizzazione si è esaurita»

Intervista a Erik Varden

di Matteo Matzuzzi – da Il Foglio – 24 dicembre 2024

“Il cristianesimo non è un’utopia. La religione biblica è in sommo grado e in modo sconcertante realistica. I grandi maestri della fede hanno sempre insistito sul fatto che la vita soprannaturale deve basarsi su una profonda considerazione della natura. Dobbiamo allenarci a vedere le cose come sono, noi stessi come siamo. Avere speranza come cristiani non significa aspettarsi che tutto vada bene. Non tutto va bene”. Erik Varden è un monaco cistercense che dal 2019 è vescovo di Trondheim e dal 2023 amministratore apostolico di Tromsø, in Norvegia. Ha cinquant’anni, è stato abate trappista di Mount Saint Bernard, in Inghilterra. Ha insegnato teologia a Cambridge. Di famiglia formalmente appartenente alla Chiesa luterana di Norvegia, ma in pratica agnostica, si è convertito a quindici anni dopo aver ascoltato la Sinfonia n. 2 (“Risurrezione”) di Gustav Mahler. Nel 1993 è diventato cattolico e nel 2002 è entrato nell’ordine dei Cistercensi di stretta osservanza. Con il Foglio parla di Natale e di speranza (tema cardine del Giubileo che si apre oggi), di Europa e periferie, di guerra e cristianesimo. Da poco è in libreria il suo ultimo libro, Castità (San Paolo, 208 pp., 20 euro), dove si interroga sul significato più profondo di un tema che può apparire fuori dal tempo.

È Natale, si parla tanto di speranza. Spesso si usa questa parola con superficialità, come fosse un augurio di stare bene oppure che “tutto andrà per il meglio”. Invece, pensando alle trincee ucraine, a Gaza, al Libano e alla Siria, la realtà è che questo mondo è in pezzi e che dire che tutto andrà bene pare quasi un insulto. La speranza cristiana ci viene in aiuto: qual è il suo vero significato anche in relazione al mondo in guerra?

“Sperare è avere fiducia che tutto, anche l’ingiustizia, possa comunque avere un senso e uno scopo. La luce ‘brilla nelle tenebre’. Non toglie di mezzo le tenebre; questo avverrà nei nuovi cieli e nella nuova terra in cui ‘non ci sarà più notte’. Qui e ora, la speranza si manifesta come un barlume. Questo non vuol dire che sia irrilevante. La speranza ha un contagio benedetto che le permette di diffondersi di cuore in cuore. I poteri totalitari lavorano sempre per cancellare la speranza e indurre alla disperazione. Educarsi alla speranza significa esercitarsi alla libertà. In una poesia, Péguy descrive la speranza come la fiamma della lampada del santuario. Questa fiamma, dice, ‘ha attraversato la profondità delle notti’. Ci permette di vedere ciò che è ora, ma anche prevedere ciò che potrebbe essere. Sperare significa scommettere la propria esistenza sulla possibilità del divenire. È un’arte da praticare assiduamente nell’atmosfera fatalista e deterministica in cui viviamo”.

Il Natale ha qualcosa di misterioso che cattura anche chi non crede. Viene da pensare a Paul Claudel, che si convertì ascoltando un Vespro a Notre-Dame, nel Natale del 1886. E  a Jean Paul Sartre, l’ateo per eccellenza che scrisse in un suo racconto: “La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo viso è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano”. Qual è questo mistero del Natale che attira tutti? 

“Lo stupore di cui parla Sartre  non appare forse in alcune rappresentazioni della Vergine nell’iconografia bizantina? L’attrattiva del Natale è insita nelle più emblematiche rappresentazioni evangeliche: il bambino appena nato; la proclamazione della pace; l’affermazione che gli uomini sono dopo tutto capaci di ‘buona volontà’; il silenzio pacifico di una notte durante la quale tutto il creato – uomini, animali e stelle – si dispone armoniosamente in attesa intorno a un centro in sé evidente. Claudel scrive ne L’annuncio a Maria, che rileggo ogni Natale:  ‘Molte cose si consumano nel fuoco di un cuore ardente’. Il Natale ci fa intuire il desiderio del nostro cuore. Ci dà il senso di ciò che passa, di ciò che resta. La sfida è lasciare che questa intuizione diventi concreta nelle decisioni che definiscono la nostra vita, non confinata in un sentimento passeggero, fiacco”.

Lei è vescovo in una delle periferie tanto citate da Papa Francesco. Periferia europea, per di più. A sud è evidente come la fede nel Vecchio continente si stia perdendo, incalzata da un laicismo che si fa sempre più forte. Qual è la sua prospettiva, appunto, dalla periferia?

“Una periferia è definita rispetto a un centro. In un’ottica cristiana, il centro non è un punto sulla mappa. Il centro è dove il mistero di Cristo è presente in pienezza. La periferia è chiamata a diventare centro. Vediamo questa dinamica all’opera nella storia della missione della Chiesa. La fiamma della fede risplende sempre di nuovo in luoghi inaspettati. Qual è stato lo stupore di quegli europei sicuri di sé, che arrivarono in India nel XVI secolo, pensandosi arrivati ai margini della civiltà, per poi scoprire che lì il centro lo avevano raggiunto fin dai tempi apostolici, mentre i loro propri antenati adoravano pezzi di legno e pietre? La terminologia delle periferie è spesso utilizzata da istituzioni o persone certe di essere al centro in virtù di privilegi ereditari. La fede sfida questo assunto. Così la terminologia diventa un utile auto-sovvertitore. Ci sfida a chiederci: ‘Dov’è, in effetti, il centro?’. In termini biblici, si tratta di seguire l’Agnello ovunque vada, abbandonando la confortevole convinzione che egli rimanga necessariamente dove sono io”.

Le chiese sono abitate sempre più da persone anziane, si fa fatica a intercettare il bisogno di senso delle nuove generazioni. Che però ce l’hanno: spesso diciamo che pensano solo al divertimento o allo smartphone. Però, come in tutte le età e come per tutte le generazioni, sentono un desiderio “alto”. Cosa può fare la Chiesa per intercettare questa esigenza?

“La mia esperienza è assai diversa. Incontro molti giovani affamati di significato, sinceri nella loro ricerca, lucidi nelle loro analisi. Sorrido un po’ di fronte alle diagnosi, siano laiche o ecclesiastiche, in cui anziani commentatori propongono tesi sui ‘giovani’ come se questi ultimi fossero una specie tenuta in vita artificiosamente in un frigorifero di laboratorio, confinata nei presupposti e nell’habitat culturale dei decenni passati. Come può la Chiesa impegnarsi con i giovani di oggi? Prendendoli sul serio. Non parlando loro con sufficienza. Osando presentare ideali alti e belli. Rispettando il loro desiderio di abbracciare la pienezza della tradizione. Non dando loro sassi, o dolcetti, come pane”.

Nel suo libro “La solitudine spezzata” (Qiqajon, 151 pp., 16 euro), scriveva che “per vivere, si deve imparare a guardare la morte negli occhi. Prima che potessi sapere ciò che significava la parola, ero stanco della superficialità”. Parlavamo dei giovani e della guerra e le chiedo: non è che, forse, in questo clima di assopimento collettivo pesa anche il fatto che da generazioni l’Europa di fatto non sa più cosa sia la guerra e la morte in casa sua? Ci siamo troppo abituati alla pace in casa nostra tanto da non sapere più neanche guardare la morte in faccia?

“Il rischio è quello di dare per scontata la pace, pensando che sia in qualche modo la normalità. Non è così. La storia ce lo ricorda con insistenza. Andando avanti negli anni, sono sempre più toccato dal fatto che la prima morte riportata nelle Scritture sia una morte per fratricidio. È un paradigma che vediamo ripetersi con terribile coerenza fino ai nostri giorni. Il Prologo della Regola di san Benedetto cita un Salmo che dà un’utile prospettiva. San Benedetto ci esorta a ‘cercare la pace e a seguirla’. Ci viene ricordato che la pace è dinamica, una realtà viva da promuovere. Un mezzo secolo europeo senza grandi guerre è stato una specie di miracolo. Ora l’orizzonte si fa oscuro. In Ucraina infuria una guerra ingiusta; il crollo di un governo dopo l’altro, con l’esplosione di fragili coalizioni, genera ansia; la retorica dell’aggressione si diffonde come un fumo nefasto. Ho l’impressione però che il nostro continente, e non da ultimo i suoi giovani, si stiano svegliando. Il Covid è stato un campanello d’allarme. Ha avvicinato lo spettro della morte. Ha infranto l’illusione che il benessere o la competenza scientifica ci tengano al sicuro, che la morte sia solo qualcosa che accade agli altri. Abbiamo riflettuto abbastanza su queste lezioni della storia recente? Io credo di no. La vedo come un’occasione persa, dal punto di vista politico e catechetico”.

Abbiamo visto in mondovisione lo spettacolo dell’inaugurazione della cattedrale di Notre-Dame restaurata dopo l’incendio. Una folla enorme, i potenti in coda per entrare, la gente comune che ha contribuito al finanziamento dell’opera come accadeva nel Medioevo. Allora, nonostante tutto, siamo ancora attaccati a questi simboli che parlano della nostra identità?

“Il fatto che restiamo attaccati ad alcuni simboli sembra evidente. Le manifestazioni di dolore che sono seguite all’incendio di Notre-Dame sono state commoventi. Onore a tutti coloro che hanno contribuito alla sua ricostruzione! Ma a cosa siamo legati? A un grande santuario cristiano? O a un simulacro culturale? Durante l’Avvento la Chiesa ci fa leggere il profeta Isaia. È una lettura sconvolgente. Isaia ci offre meravigliose immagini di consolazione, misteriose profezie dell’incarnazione. Allo stesso tempo dice che la redenzione nascerà dalla rovina. Chiarisce che è il Signore che predispone la distruzione di Gerusalemme e l’esilio del suo popolo, volendo insegnare loro, appunto, a non riporre la loro fiducia in monumenti di forza ma a vivere, invece, secondo la grazia, sostenuti giorno per giorno nell’umana fragilità esistenziale. È compito della Chiesa far sì che il nostro patrimonio architettonico e artistico rimanga un segno potente della bontà di Dio, che permetta l’incontro del nostro essere di terra con lo splendore increato, divino. Abbiamo sufficiente fiducia nella nostra tradizione, per aiutare i nostri contemporanei a vedere cosa significano e implicitamente promettono i luoghi e gli oggetti che formano in superficie la nostra identità culturale? C’è qui un’ampia prospettiva per un esame di coscienza. Spesso, infatti, mi sembra che ci diamo per vinti di fronte alla modernità secolare. Ci sforziamo di rendere il nostro patrimonio ‘rilevante’ alle sue condizioni, mentre i nostri tempi chiedono da noi qualcosa di diverso”.

Domanda al vescovo che opera in Norvegia: noi europei del Terzo millennio abbiamo forse un problema d’identità? Sappiamo ancora chi siamo e da dove veniamo?

“Da tempo il consenso non è mai stato così teso su questioni fondamentali: cosa significhi essere un uomo o una donna, cosa sia un essere umano, cosa debba essere una società. Per molto tempo i dibattiti pubblici sembravano ronzare in modo sinistro come nidi di vespe. Chiunque vi partecipava correva il rischio di essere punto. Ho l’impressione che ora la tendenza si stia gradualmente invertendo: un numero maggiore di persone si pone domande, cerca ragionamenti validi e parametri affidabili. La tradizione intellettuale cattolica ha un immenso contributo da dare in questo senso. Senza voler per nulla sminuire l’importanza del lavoro caritativo o delle cause di giustizia e di pace, credo che l’apostolato intellettuale sia fondamentale per i prossimi decenni. Il Verbo si è fatto carne per impregnare di logos la nostra stessa natura, creata a immagine del Verbo. Accogliere questo aspetto del nostro essere e articolarlo significa iniziare a ricordare la nostra dignità”.

Non è raro sentire nella cosiddetta “opinione pubblica” che la Chiesa propone qualcosa di anacronistico, soprattutto sul piano della morale e perfino della bioetica: dopotutto, si dice, perché bisogna dire no all’eutanasia se una persona soffre? La via più semplice è quella che piace di più. Il problema è che spesso sono anche tanti uomini di Chiesa che, sui media, chiedono di “cambiare” e “riformare” perché il messaggio non arriva più al Popolo di Dio. Qual è la sua opinione? Quanto è utile o rischioso dare ascolto allo Zeitgeist (lo spirito del tempo)?

“Lo Zeitgeist – dice mons. Varden – è volubilissimo! Certo, dobbiamo ascoltarlo: trasmette messaggi di cui dobbiamo tenere conto. Ma cercare di seguirlo è un atto di sfida verso se stessi. Quando siamo arrivati al punto in cui si trovava un momento fa, è già più in là. La Chiesa per sua natura si muove lentamente. C’è il rischio che ci impegniamo in quelle che riteniamo siano tendenze contemporanee quando già non sono rimaste altro che braci morenti. Così passiamo senza fortuna, e in modo leggermente assurdo, da un falò spento all’altro. È sicuramente più promettente, interessante e gioioso rimanere aggrappati a ciò che resiste. Questo è ciò che parlerà ai cuori e alle menti umane nella nostra epoca come in ogni altra epoca. Il Concilio Vaticano II è stato caratterizzato dalla sollecitazione a bere con abbondanza dalle fonti. La maggiore vitalità della vita cattolica del XX secolo è scaturita dall’entusiasmo di scoprire pozzi dimenticati, trovando in essi acqua limpida e fresca. Dov’è finito quell’entusiasmo? Perché ora sentiamo di dover abbandonare i pozzi per allestire invece pieghevoli stand accanto a distributori automatici?”.

Un’ultima domanda: si dice spesso che il nostro mondo, quello occidentale, è ormai post-cristiano. È d’accordo con questa definizione? Non c’è il rischio di generalizzare troppo? E poi, come può l’uomo di oggi che si definisce cristiano rendere viva la sua presenza in questa realtà?

“Su questo non mi trovo d’accordo. Teologicamente, il termine ‘post-cristiano’ non ha senso. Cristo è l’Alfa e l’Omega, e tutte le lettere intermedie. Egli porta costituzionalmente la freschezza della rugiada del mattino: non per niente durante l’Avvento tempestiamo il cielo cantando ‘Rorate!’. Il cristianesimo è dell’alba. Se a volte, in determinati periodi, ci sentiamo avvolti dal crepuscolo, è perché sta nascendo un altro giorno. Se vogliamo parlare di ‘pre’ e di ‘post’, mi sembra più appropriato suggerire che ci troviamo alle soglie di un’epoca che definirei ‘post-secolare’. La secolarizzazione ha fatto il suo corso. È esaurita, priva di finalità positiva. L’essere umano, nel frattempo, rimane vivo con aspirazioni profonde. Si consideri il fatto che Marilynne Robinson e Jon Fosse sono letti in tutto il mondo; che la gente accorre al cinema per vedere i film di Terrence Malick; che migliaia di persone cercano un’istruzione nella fede. Questi sono segni dei tempi. Dovrebbero riempirci di coraggio. Dovrebbero renderci determinati a non mettere la nostra lampada sotto il moggio. La Chiesa possiede le parole e i segni con cui trasmettere l’eterno come realtà. La scrittrice inglese Helen Waddell ha detto: ‘Avere anche una minima concezione dell’infinito è come togliere la pietra dalla bocca di un pozzo. Non è forse questo il compito cristiano fondamentale per il momento attuale? Sursum corda!”.

Tag:Chiesa, cristianesimo, Erik Varden, fede

  • Condividi
piergiorgio

Articolo precedente

Non siamo autosufficienti, ecco perché ci serve il Natale
12 Gennaio 2025

Prossimo articolo

Siamo uomini o risultati?
18 Gennaio 2025

Ti potrebbe interessare anche

Benigni e il fascino di un’umanità più vera
13 Dicembre, 2025

Mercoledì sera la Rai ha mandato in onda il monologo di Roberto Benigni «Pietro, un uomo nel vento». Un racconto travolgente della storia dell’apostolo Pietro e del suo incontro con Gesù. «Le cose più importanti della vita non si apprendono e non si insegnano, si incontrano», ha detto Benigni. Un racconto non fatto da un uomo di chiesa, ma da una persona come il comico toscano visibilmente affascinato da quella storia, con una forza di immedesimazione che non può non sorprendere. Su questo vi invitiamo a leggere l’articolo di Lucio Brunelli pubblicato su Avvenire che insieme al caso di Benigni ricorda anche quello dello scrittore spagnolo Javier Cercas che ha raccontato in un libro bellissimo, «Il folle di Dio alla fine del mondo» (lo avevamo segnalato fra le nostre proposte di lettura la scorsa estate), il suo viaggio con Papa Francesco in Mongolia. Benigni e Cercas, «due artisti dalla biografia totalmente estranea al mondo ecclesiale», i cui racconti sinceri «toccano la mente e il cuore, aprono a una domanda». «Il commovente monologo del premio Oscar, Benigni, e il sorprendente romanzo di Cercas – continua Brunelli – si spiegano con l’innata genialità di questi due artisti e con la fantasia della Grazia, che opera come vuole, quando vuole e in chi vuole. Sono al contempo anche il frutto di una mutata immagine della Chiesa nella considerazione pubblica. C’è forse meno pregiudizio, più simpatia, più disponibilità all’ascolto». Soprattutto si presagisce il fascino di un’umanità più vera. L’annuncio del Natale ormai vicino risponde a questa attesa di verità, di bellezza, di felicità che è nel cuore di ogni uomo a patto di essere leali con se stessi. Quel Natale che oggi appare spesso soffocato da una quantità di orpelli inutili, da noiosi riti consumistici, da evasione e distrazione di massa, da un intrattenimento vuoto e stordente. Eppure dissotterrare l’attesa profonda che è in noi, riportarla in primo piano, è il primo passo per farsi sorprendere da qualcosa che sia veramente attraente, all’altezza del desiderio infinito della nostra umanità.

Messaggi dal viaggio di Leone in Turchia e Libano
6 Dicembre, 2025

Martedì 2 dicembre si è concluso il viaggio di Leone XIV in Turchia e in Libano, il primo del nuovo papa. Un viaggio carico di significati, spesso del tutto ignorati nei servizi dei telegiornali e nei resoconti di molti quotidiani. Significati su cui vogliamo invece soffermarci nella nostra newsletter di oggi proponendovi la lettura di due articoli. Il primo tratto da il Foglio è dedicato alla tappa del papa a Nicea, sulle rovine dell’antica basilica, a 1700 anni dal concilio che là definì il Credo che ancora oggi viene recitato ogni domenica nella messa. Stabilì un punto fermo sconfessando le posizioni ariane che negavano la natura divina di Gesù. Ma, ha sottolineato papa Leone, «se Dio non si è fatto uomo, come possono i mortali partecipare alla sua vita immortale? Questo era in gioco a Nicea ed è in gioco oggi: la fede nel Dio che, in Gesù Cristo, si è fatto come noi per renderci partecipi della natura divina». Non è una questione che riguarda secoli molto lontani. Il papa ha parlato infatti del rischio di un arianesimo di ritorno quando Gesù viene ridotto a una sorta di «leader carismatico o di superuomo». Il secondo articolo, di Andrea Tornielli dal sito Vatican News, riguarda la parte libanese del viaggio papale. Il Libano, caso unico nel Medio Oriente tormentato da guerre e terrorismo, da lacerazioni profonde e da contrapposizioni radicali, è un paese in cui ancora oggi convivono fedi diverse. È un segno che non è inevitabile arrendersi alla guerra e all’odio. È un paese che documenta concretamente che ci sono le condizioni, sia pur tra mille difficoltà, per affermare la pace.

Non rinunciamo alla lettura
29 Novembre, 2025

«Quando le persone smettono di leggere – di dare un senso al testo su una pagina – perdono anche la capacità di dare un senso al mondo. In gioco c’è nientemeno che il destino dell’umanità, data l’intima connessione tra la parola scritta e la civiltà stessa». Lo scrive l’economista e saggista britannico Niall Ferguson in un articolo pubblicato il 16 novembre sul quotidiano inglese The Times di cui vi invitiamo a leggere una sintesi sul nostro sito. Un intervento che segue di qualche giorno un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera nel quale veniva evidenziato «il progressivo abbandono della lettura», in questo caso riferito al nostro paese. «Qui ne va davvero dell’avvenire del Paese – scriveva -, della qualità civile e umana degli italiani. Solo la lettura risveglia la mente, alimenta l’intelligenza, rende liberi. Tutte cose di cui c’è un gran bisogno». Il 22 novembre è stato invece Papa Leone a richiamare l’importanza della lettura «oggi più che mai». Leggere aiuta ad «unire mente, cuore e mani».
Apparentemente il crollo della lettura può risultare un dato del tutto secondario rispetto ad altri problemi più impellenti, in realtà rappresenta una regressione pericolosa che mina la stessa libertà delle persone come segnala Ferguson. Nel nostro piccolo ci sembra interessante l’esperienza fatta in questi anni come Fondazione San Benedetto, soprattutto attraverso il Mese Letterario ma anche con la nostra newsletter domenicale, nel far appassionare alla lettura di grandi autori come di articoli dalla stampa o di testi significativi. Per molti è stato anche un percorso di riaffezione «per contagio» all’esperienza della lettura. Una strada sulla quale intendiamo continuare.

Cerca

Categorie

  • Fissiamo il Pensiero
  • I nostri incontri
    • I nostri incontri – 2015
    • I nostri incontri – 2016
    • I nostri incontri – 2017
    • I nostri incontri – 2018
    • I nostri incontri – 2019
    • I nostri incontri – 2021
    • I nostri incontri – 2022
    • I nostri incontri – 2023
    • I nostri incontri – 2024
    • I nostri incontri – 2025
  • Mese Letterario
    • 2010 – I Edizione
    • 2011 – II Edizione
    • 2012 – III Edizione
    • 2013 – IV Edizione
    • 2014 – V Edizione
    • 2015 – VI Edizione
    • 2016 – VII Edizione
    • 2017 – VIII Edizione
    • 2018 – IX Edizione
    • 2019 – X Edizione
    • 2021 – XI Edizione
    • 2023 – XIII Edizione
    • 2024 – XIV Edizione
    • 2025 – XV Edizione
  • Scuola San Benedetto – edizioni passate
  • Tutti gli articoli

Education WordPress Theme by ThimPress. Powered by WordPress.

VUOI SOSTENERCI?

Siamo una fondazione che ha scelto di finanziarsi con il libero contributo di chi ne apprezza l’attività

Voglio fare una donazione
Borgo Wührer, 119 - 25123 Brescia
info@fondazionesanbenedetto.it

Resta sempre aggiornato

Iscriviti subito alla nostra newsletter per non perderti le attività e gli eventi organizzati dalla Fondazione San Benedetto.

Iscriviti

Sito Web sviluppato da Nida's - Nati con la crisi.

Copyright © Fondazione San Benedetto Educazione e Sviluppo

Mappa del sito | Privacy Policy | Cookie Policy

Sito Web sviluppato da Nida's - Nati con la crisi.

Privacy Policy | Cookie Policy