Susanna Tamaro e l’immigrazione senza ideologie
Del tema dell’immigrazione sentiamo parlare di continuo, ma spesso il dibattitto pubblico e le prese di posizione risentono di un punto di vista ideologico nel modo di affrontare il problema. E, comunque la si pensi, questo approccio impedisce di guardare un fenomeno molto complesso nelle sue mille sfaccettature e senza ricadere nelle solite semplificazioni.
Di fronte a una delle sfide più grandi del nostro tempo è invece interessante l’analisi che ne fa la scrittrice Susanna Tamaro in un ampio articolo pubblicato pochi giorni fa sul Corriere della Sera. Un’analisi fondata anche sulla sua diretta esperienza personale, che si sottrae alla trappola dello scontro ideologico pro o contro l’immigrazione. Si chiede subito se «è possibile parlare del problema dell’immigrazione incontrollata senza dare un calcio al principio etico della nostra civiltà — la sacralità della persona — e al tempo stesso senza continuare ad aggirarsi come sonnambuli tra le nebbie del multiculturalismo?». In particolare Tamaro invita a considerare i migranti come persone e non come una categoria sociale generica o astratta, senza nascondere le criticità che emergono soprattutto quando l’immigrazione sia incontrollata. «Santificare un’intera categoria, tendenza sempre più in voga – scrive -, vuol dire non essere in grado di vedere la realtà e dunque l’incapacità di relazionarsi in modo sano con essa». Proprio di questo approccio realista abbiamo bisogno per affrontare una questione decisiva per il nostro futuro.
Incontro con Adriano Sofri e Massimo Camisasca
«Dal ’68 a oggi, il desiderio del cambiamento» è il titolo dell’incontro che la Fondazione San Benedetto promuoverà a Brescia giovedì 13 marzo alle 18.15 con l’intervento di due ospiti d’eccezione: monsignor Massimo Camisasca, allievo di don Giussani e vescovo emerito di Reggio Emilia, e Adriano Sofri, scrittore, editorialista ed ex leader di Lotta Continua.
L’occasione di questo incontro del tutto inedito è data dalla recente pubblicazione del libro «Una rivoluzione di sé» (Rizzoli editore) che raccoglie alcuni interventi di don Giussani, fra il 1968 e il 1970, in un periodo molto turbolento che vedrà anche la nascita del movimento di Comunione e Liberazione. Poterne parlare con due protagonisti di quella stagione, con storie molto diverse, è un’opportunità straordinaria anche per guardare in modo nuovo al momento che stiamo attraversando oggi segnato da grande incertezza. L’incontro, che si svolgerà nell’aula magna del Centro Paolo VI, in via Gezio Calini 30, è aperto a tutti sino ad esaurimento posti e previa registrazione. Invitiamo perciò a registrarsi al più presto cliccando questo link.
Migranti e integrazione, lo sguardo necessario
di Susanna Tamaro
dal Corriere della Sera – 12 febbraio 2025
È possibile parlare del problema dell’immigrazione incontrollata senza dare un calcio al principio etico della nostra civiltà — la sacralità della persona — e al tempo stesso senza continuare ad aggirarsi come sonnambuli tra le nebbie del multiculturalismo? La migrazione è una fisiologica necessità del vivente. Dall’ameba all’essere umano, tutto ciò che vive è in continua ricerca di fonti di nutrimento e dunque di relativi spostamenti per riuscire a procurarsene. Dalla fine dell’Ottocento in poi i nostri bisnonni e i nostri trisavoli non hanno forse sfidato gli oceani per sfuggire alla miseria e cercare migliori condizioni di vita? Un movimento che è continuato per grande parte del Novecento: non poche delle mie compagne di scuola avevano genitori che facevano i minatori in Belgio o i manovali in Svizzera e in Germania. Non è forse la stessa cosa che accade ora con i tanti ragazzi italiani che, avviliti dalle frustranti condizioni di lavoro e dalla totale assenza di meritocrazia, partono alla volta di Paesi con più opportunità? Certo, è un nostro imprescindibile dovere salvare le persone in fuga da conflitti e persecuzioni gravi, come quelle che colpiscono i cristiani, la minoranza più perseguitata del mondo, ma è altrettanto evidente ormai che il nostro Paese non può continuare ad essere la zattera di salvataggio per tutte le persone in fuga da miseria e da Paesi insicuri. L’Italia, geograficamente, è un grande pontile lanciato verso il Sud e l’Est del mondo. Un pontile abitato da popolazioni accoglienti, abituate ad essere da sempre terra di passaggio, ma non credo che sia in grado di dare lavoro e dignità di vita a tutti quelli che vi approdano.
I nostri antenati affrontavano viaggi estremamente disagevoli a bordo di transatlantici. C’era un altissimo tasso di mortalità, soprattutto tra i bambini, a causa di epidemie per le scarse condizioni igieniche — un gabinetto ogni 1.500 persone, come scrive la storica Diana De Rosa nel libro Il chirurgo di carta(edizioni Enitreg, 2024) — e non solo. Una volta arrivati ad Ellis Island, venivano sottoposti a esami medici e a test psicologici in grado di valutare la capacità di adattamento e chi non superava i test era costretto a tornare indietro.
Il bellissimo film Io capitano di Matteo Garrone ambientato in Senegal, un Paese privo di conflittualità, mette in luce la tragedia nascosta della grande migrazione africana. Giovani impazienti, curiosi, desiderosi di una vita diversa cadono nelle mani di schiavisti senza scrupoli che li trascinano in un viaggio degli orrori che spesso si conclude in tragedia. Per entrare dentro questa realtà, consiglio la lettura del bel libro di Mariapia Bonanate Io sono Joy (Edizioni San Paolo, 2021).
Di recente, i vescovi africani hanno fatto un appello affinché i giovani non lascino il continente e il governo senegalese si sta da tempo mobilitando per cercare di bloccare questa gravissima emorragia generazionale. Come ormai è noto, il traffico dei migranti economici è gestito da organizzazioni criminali, eredi storici e culturali degli schiavisti dei secoli scorsi.
Per capire la paralisi mentale che ci coglie davanti a questi problemi e che ci fa scivolare in opposti fanatismi — e dunque in opposte cecità — dobbiamo forse renderci conto che il nostro immaginario è saldamente abitato da due fantasmi: il bambino del Biafra che, con i suoi occhioni sgranati e il suo ventre deforme, è stato lo spauracchio agitato davanti a tutti i piccoli inappetenti della mia generazione e di quelle successive, e il fantasma rousseauiano del buon selvaggio che sempre fa cucù dietro le tende delle case che abitiamo. Inguaribili sensi di colpa dunque, e un infantile desiderio che nel mondo non sia presente il principio del male.
Ma se consideriamo le persone migranti come un insieme matematico chiamato M, dobbiamo essere consapevoli che l’insieme contiene altri sottoinsiemi — M1,M2, M3, eccetera — e ognuno di questi comprende uno spicchio della realtà umana. Ci sono le persone per bene, cioè i giusti — solitamente una minoranza —, ci sono persone relativamente per bene e ci sono persone che non si pongono alcun problema di non essere per bene perché la loro etica è quella del più forte e, in questa loro visione, ogni bontà è considerata una debolezza. Santificare dunque un’intera categoria, tendenza sempre più in voga, vuol dire non essere in grado di vedere la realtà e dunque l’incapacità di relazionarsi in modo sano con essa.
La vita mi ha portato in dono, negli anni Ottanta, grandi amicizie con persone africane che mi hanno fatto capire molte cose dell’Africa, anzi delle Afriche, la prima delle quali è che il razzismo non è una esclusiva dell’uomo bianco e che il tasso di tribalismo è pericolosamente ancora molto alto in tutto il continente. Sono questi tutt’ora i grandi mali dell’Africa, ricca di straordinarie risorse minerarie che fanno gola a tutti e in cui il concetto di vita degna è estremamente più labile che da noi.
A queste osservazioni di carattere generale, devo aggiungere la mia esperienza personale. Nel 2000 ho rinunciato a parte dei miei diritti d’autore in favore di una Fondazione che per vent’anni ha creato progetti di sviluppo in Italia e nel mondo rivolti alle donne. Sono convinta infatti che ogni volta che una bambina studia, ogni volta che una donna acquisisce una professionalità, una piccola parte di miseria sfuma. Ho dato borse di studio a donne e ragazze di molti Paesi del mondo che studiavano in Italia ma il cui fine era quello di tornare, per aiutare a migliorare le condizioni di vita dei loro Paesi d’origine. Un altro progetto, molto più piccolo ma forse non meno importante, è stato quello di stampare dei giornalini a fumetti per spiegare ai bambini come si studia. Il mito dell’eguaglianza degli esseri umani è di origine ontologica, ma non antropologica. Antropologicamente siamo tutti come delle matrioske perché l’essere umano è costituito da invisibili strati succedutisi nelle generazioni: dentro di noi c’è una realtà genetica, una epigenetica, una ambientale, una culturale, una storica e, alla fine, una personale. Se si nasce in un villaggio sperduto della Sierra Leone o in qualsiasi altro luogo isolato e povero del mondo in cui la lotta quotidiana è quella di trovare qualcosa da mangiare, non si vede altro orizzonte che quello della pura sopravvivenza, per questo la scolarizzazione rappresenta il primo passo verso una nuova e più creativa dimensione dell’esistere.
Nel corso degli anni ho incontrato diversi ragazzi arrivati sui barconi e sono rimasta colpita dal fatto che alcuni di loro fossero totalmente analfabeti, così, quando si parla dell’emigrazione come fondamentale salvezza per le nostre pensioni, mi riesce un po’ difficile immaginarlo. In Italia abbiamo un gran numero di posti di lavoro vacanti nell’industria ma sono posti che richiedono ormai una preparazione tecnologica che purtroppo neppure le nostre scuole sono in grado di fornire ai loro studenti. L’immigrazione fuori controllo finisce per lo più nello sfruttamento del lavoro agricolo e nell’ingrassare le organizzazioni criminali che lo gestiscono. Un’azienda del Nord Est ha creato un centro in Ghana dove forma le figure professionali di cui necessita e le fa venire in Italia con un regolare contratto di lavoro, assicurando loro anche un tetto sulla testa. Il progetto sta andando a gonfie vele. Non sarà forse questa una via da percorrere per un’emigrazione che sia davvero proficua per entrambi? Corridoi professionali e umanitari che agiscono in rispetto della legalità?
Tempo fa una donna ormai perfettamente integrata, arrivata da bambina da un Paese centro-africano, mi raccontava di come avesse una profonda ammirazione per la scelta lungimirante di suo padre: al suo arrivo in una ricca città del nord Italia aveva deciso, con grandi sacrifici, di prendere in affitto un appartamento in un quartiere dove non c’erano altri immigrati. Era consapevole del rischio di far crescere i suoi figli in un ghetto.
Il mito del multiculturalismo crolla davanti al muro impenetrabile delle comunità etniche che, arrivate nel nuovo Paese, si chiudono in loro stesse, riproducendo il modus vivendi della terra natale e non manifestando alcuna benevolenza verso le altre comunità. Dove andavano prevalentemente a vivere gli italiani una volta arrivati a New York? A Little Italy. I cinesi? A Chinatown. Nella natura umana la diffidenza verso lo sconosciuto è un sentimento fisiologicamente innato.
Qualche anno fa ho parlato a lungo con un meraviglioso giovane iracheno che aveva subito violenze di ogni genere durante il lungo viaggio verso l’Italia. Era un laureato — uno di questi nuovi italiani che tanto ameremmo avere — ed essendo arrivato con i barconi, era stato sistemato in un Cara (Centro di accoglienza per richiedenti asilo). Uomo sensibile e intelligente, apparteneva al primo sottoinsieme, quello delle persone rette, e non si dava pace che il centro fosse gestito da bande criminali che imponevano il bello e il cattivo tempo. Scandalizzato dagli abusi e dal fatto che queste persone, invece di essere grate per il salvataggio e l’ospitalità, avessero instaurato un regime di terrore, si era ribellato, diventando a sua volta vittima di aggressioni e soprusi interni. Per salvarlo da questa situazione, gli era stata trovata una sistemazione esterna al Cara. «Come si può andare avanti senza reciprocità, senza gratitudine?» mi aveva chiesto. È una domanda che molti di noi ormai cominciano a farsi, e c’è anche una prima risposta. L’immigrazione fuori controllo, in cui i forti e i senza scrupoli prendono il potere, la prima categoria che danneggia è proprio quella delle brave persone che approdano da noi fuggendo dalle guerre con il sogno di una vita migliore.
I viaggi della speranza verso il Mediterraneo costano in media cinquemila euro, una cifra esorbitante in relazione al reddito annuale di questi Paesi che si aggira su qualche centinaia di dollari. Le famiglie si impegnano, diventando a loro volta vittime della tratta, ma non è difficile immaginare che dietro alla gran parte di questi viaggi ci sia anche la presenza di grandi organizzazioni criminali -— mafie nazionali, terroristi e narcotrafficanti — le quali, offrendo il viaggio alla moltitudine di ragazzi che vaga senza alcuna speranza nelle megalopoli africane, si assicurano una fedele mano d’opera nelle attività criminali nel ricco continente europeo.
C’è poi un altro e non meno doloroso punto su cui riflettere. L’immigrazione fuori controllo colpisce soprattutto le parti economicamente più fragili della società ospitante. Fra le tante criticità che sono sotto gli occhi di tutti, voglio citare come esempio la storia di una donna in una piccola città del centro Italia che aveva come unico bene un modesto appartamento comprato con grandi sacrifici dai suoi genitori. Alla fine, quando è arrivato il momento di venderla per potersi pagare la casa di riposo, non ha potuto farlo perché, nel frattempo, il degrado in cui era caduto l’edificio destinato da una cooperativa esclusivamente a stranieri ne aveva deprezzato il valore, rendendolo invendibile. Dunque prima di pensare che siamo alle soglie del nazismo perché si tenta di regolare qualcosa che è sfuggito di mano, bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, altrimenti la situazione continuerà a degenerare.
L’integrazione di diverse realtà umane è un progetto storico di lungo respiro, che richiede da entrambe le parti tanta pazienza e tanta buona volontà. Se una delle parti non risponde a questi due principi, è chiaro che il rapporto diventa di altro tipo. Popoli che non hanno, nel loro Dna, la democrazia e considerano la fratellanza un sentimento da condividere esclusivamente con la loro etnia, tendono a considerare il Paese che li ospita — senza dare alcun limite e senza chiedere nulla in cambio — un terreno di facile conquista da cui trarre giovamento.
Dobbiamo nuovamente ispirarci alla natura per capire gli orizzonti che si aprono davanti a noi. Nel vivente l’abbondanza di cibo porta a due realtà di tipo diverso: la prima è la simbiosi — entrambi gli organismi si sostengono a vicenda creando una nuova forma di vita, come il fungo che, insieme all’alga, costituisce il lichene — la seconda è la sopraffazione. Tanto quanto la prima cerca il bene comune dell’organismo, altrettanto la seconda segue una logica darwiniana e in questa logica, la storia ce lo insegna, non sono i miti a sopravvivere, ma i forti senza scrupoli.