Dal ’68 a oggi, desiderio, lotta, domande: un incontro formidabile
Dal ’68 a oggi, desiderio, lotta, domande: un incontro formidabile
Data 15 Marzo 2025
Adriano Sofri durante il suo interventoIl pubblico numeroso che ha riempito l’aula magna del Centro Paolo VI con una seconda sala videocollegata
Il ’68, il disagio esistenziale dei giovani, la contestazione, la rivoluzione sessuale, la critica radicale dell’autorità, l’autunno caldo del ‘69 e le lotte degli operai, le università occupate, la violenza politica degli anni ’70. Cosa c’entra tutto questo con quanto stiamo vivendo oggi? Moltissimo. Lo si è capito bene nell’incontro che si è tenuto giovedì a Brescia, promosso dalla Fondazione San Benedetto, con monsignor Massimo Camisascae Adriano Sofri. Aula magna del centro Paolo VI con tutti i posti occupati e una seconda sala videocollegata, per incontrare due testimoni di quella stagione con storie completamente diverse, ma che non hanno mai smesso di interrogarsi apertamente. Un’occasione davvero straordinaria. Nei prossimi giorni sarà disponibile sul nostro sito il video integrale dell’incontro.
Il dialogo senza rete aveva come costante punto di riferimento il libro «Una rivoluzione di sé» che raccoglie gli interventi di don Luigi Giussanifra il 1968 e il 1970. In quegli anni l’esperienza di Gioventù Studentesca che aveva riunito sotto la guida di Giussani migliaia di giovani, fra cui anche Camisasca, si era dispersa davanti ai primi fuochi della contestazione. Da lì Giussani inizierà una nuova storia di amicizia che in anni di grande tensione sociale porterà alla nascita del movimento di Comunione e Liberazione. Nello stesso periodo Sofri era il leader incontrastato di Lotta Continua schierata per la rivoluzione classista. La via per costruire la propria individualità passava attraverso l’esperienza del collettivo. Eppure tra CL e LC, due storie che sembravano agli antipodi, c’erano inaspettati punti di somiglianza. Senz’altro un desiderio di cambiamento e di autenticità che aveva le sue radici nel bisogno esistenziale dei giovani. Su queste stesse basi oggi è possibile veder dialogare Camisasca e Sofri in un incontro sorprendente, ricchissimo di provocazioni e di spunti significativiper vivere più consapevolmente il presente.
Questa settimana come proposta di lettura vi segnaliamo infine un recente editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere. Un’analisi molto interessante sulla società e sulla politica italiana e sul ruolo delle cosiddette élitedi fronte al nuovo corso trumpiano degli Usa, che vi invitiamo a leggere con attenzione.
La vera sfida alle élite
di Ernesto Galli della Loggia – dal Corriere della Sera – 12 marzo 2025
Per noi europei fare i conti con Trump non significa solo renderci conto della frattura che egli ha creato nella politica estera americana e nei rapporti tra noi e gli Usa. Deve significare anche capire perché Trump ha vinto, perché una maggioranza di americani si è riconosciuta nel suo programma che ai loro occhi, alla fine, non consisteva altro che in un punto: contrastare l’orientamento progressista che negli ultimi due/tre decenni ha radicalmente mutato il volto ideologico-culturale della società americana e insieme delle nostre.
È dunque questo il cuore della sfida che la presidenza americana pone all’Europa: di natura culturale prima ancora e ben più che politica. Si tratta di una sfida rivolta soprattutto alle élite europee, in modo tutto particolare di questa parte occidentale dell’Europa. Una sfida ai valori, ai modelli, ai comportamenti accreditati, ai costumi, che in tutti questi anni quelle élite hanno alimentato e che si riassumono in una sola parola: nel loro «nuovismo» progressista.
Se n’è accorto in un’intervista a Repubblicaanche una figura centrale di tale élite come Giuliano Amato, il quale sembra concludere che forse è venuto il momento di fare qualche passo indietro. Quello che è avvenuto nel corso degli ultimi decenni nello spirito pubblico dei Paesi del nostro continente è stato un mutamento che le élite europee, lungi dal cercare non dico di contrastare, ma perlomeno di correggere o mitigare, hanno viceversa più o meno sempre assecondato.
In tal modo esse hanno abbandonato la difesa di valori e principi che avevano pur presieduto alla loro personale formazione e un tempo anche alla loro azione. Parliamo del nostro Paese. Da molto tempo pressoché tutte le élite italiane – quelle intellettuali in primis e insieme a loro quelle del mondo dei mass media, del cinema, dell’informazione, immediatamente seguite anche da quelle del denaro, dell’industria, dalle élite dell’amministrazione pubblica e delle più varie organizzazioni sindacali – tali élite, dicevo, hanno abbracciato ogni novità. Hanno condiviso ogni rottura del costume, ogni adozione di idee nuove, ogni abiura delle tradizioni e dei valori ricevuti.
Che si trattasse della riproduzione della vita e dei modi della morte, dei caratteri della genitorialità o della morale sessuale, del significato della famiglia, della pace e della guerra, di trasformare ogni bisogno in un diritto, che si trattasse del rapporto con l’unione europea e con le sue prescrizioni o della presenza nella Penisola degli immigrati, dell’organizzazione degli studi nella scuola e nell’università, o di mille altre cose, immancabilmente tutta l’Italia che contava, che agiva nella società, in specie tutta quella che aveva una forte immagine pubblica e il modo di farsi ascoltare dal Paese ha abbracciato il partito dell’«ideologicamente corretto» equivalente quasi sempre in un fiducioso impegno a favore del cambiamento e — quando andava bene — in un atteggiamento di supponente superiorità, se non di aggressiva ostilità, nei confronti di chi la pensava diversamente.
Da anni, non l’Italia della politica e dei partiti — la quale da questo punto di vista non conta nulla essendo priva di idee e quindi fungendo solo come eco di quelle altrui — ma l’Italia che in questo genere di faccende davvero conta, l’Italia dei libri e dei giornali, dello spettacolo, dei talk e della pubblicità, è schierata costantemente con chi pensa che si debba essere sempre «aperti» a ciò che rompe con l’esistente, a ciò che cambia le regole e manda in soffitta il passato. È l’Italia — puntualmente imitata dalle altre élite sociali — che crede che quanto è suggerito dalla novità dei tempi, ed è «liberal» e parla inglese sia sempre migliore e più conveniente di quanto esisteva ieri o parla italiano.
«L’uomo che vuole fare senza Dio, fallisce. Alla fine dei conti, arriva a fare esperienza di vuoto. Di vuoto di senso. Non riesce a costruire prospettive a lungo termine. In questa società post secolare l’uomo è rimasto con la fame dentro. Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Mi viene ora in mente l’Inquisitore dei Fratelli Karamazov, “dategli il pane e staranno bene!”. Diamo il pane, diamo la giustizia umana… tutte cose che abbiamo già visto. Poi l’uomo si accorge che resta affamato, alla ricerca di qualcosa che gli riempia la vita e il cuore. Lì la Chiesa deve intervenire con la sua proposta». A parlare così è il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, in un’intervista davvero interessante pubblicata dal Foglio, che vi vogliamo proporre come lettura in occasione di questa Pasqua 2025. Un testo da leggere con grande attenzione che contiene passaggi illuminanti che vanno al cuore dei problemi di oggi. Nell’intervista Pizzaballa si sofferma sull’attuale situazione in Terra Santa, dove «niente tornerà più come prima», per passare poi alla crisi della Chiesa e al tema della fede. «Non dobbiamo temere i cambiamenti – sottolinea il patriarca -, non dobbiamo vivere di paura. Sta finendo un modello di Chiesa. Credo che Benedetto XVI l’abbia detto bene: sappiamo che sta finendo qualcosa ma non sappiamo come sarà dopo. Si definirà col tempo. Anche questa crisi, dunque, produrrà qualcosa. Le nostre valutazioni sono sempre molto umane, c’è la tentazione del potere, dei numeri, della visibilità. Ci sta anche, eh. Dobbiamo essere visibili. Ma non dobbiamo temere più di tanto questo, perché c’è anche Dio, c’è anche lo Spirito Santo. C’è la Chiesa che, attraverso la testimonianza di tante realtà, crea ancora qualcosa di buono. Non avrei troppa paura. Bisogna preoccuparsi, e lo ripeto, di essere autentici, genuini. La Chiesa non deve fare marketing: la Chiesa deve dire che non c’è niente di meglio nella vita che incontrare Gesù Cristo». Quello di Pizzaballa è anche un forte invito a riscoprire la differenza che il cristianesimo introduce nella vita dell’uomo e della società: «Il rischio – spiega – c’è sempre, sia nella Chiesa sia fuori dalla Chiesa, quello di non complicarsi la vita, di stare nell’ordinario, fatto di orizzonti normali, che stanno dentro una comprensione solo umana. Mentre invece l’incontro con Dio rompe sempre gli schemi e su questo il cristianesimo deve fare la differenza. Se non la fa, puoi avere anche tante chiese e belle basiliche, ma diventi irrilevante perché non hai niente di importante da dire».
Mentre dai diversi fronti di guerra (Ucraina, Medio Oriente, Sudan, ecc.) non arrivano segnali che possano far sperare in un cessate il fuoco in tempi brevi, questa settimana vogliamo proporre un’interessante testimonianza del filosofo Rocco Buttiglione su Papa Giovanni Paolo II e sulla sua posizione nel 2003 di fronte alla guerra in Iraq che stava per scoppiare e che ha poi lasciato uno strascico infinito di morte e distruzione senza arrivare a una vera pacificazione dell’area. «Non contestava – scrive Buttiglione – il diritto dei governi di fare la guerra per tutelare l’ordine internazionale. Era però deciso a chiarire che si trattava di una guerra tutta politica, non una guerra di religione, non una crociata, non una guerra in cui la Chiesa dovesse o potesse prendere partito. Intuiva che quella guerra poteva scatenare un conflitto epocale fra le religioni ed era deciso a fare tutto il possibile per evitarlo. Alla fine del colloquio mi disse: “Noi abbiamo lottato per la verità e la giustizia sotto il regime comunista con le armi della non violenza. Non avevamo altra arma che l’appello alla coscienza dell’avversario e alla fine abbiamo vinto. L’Occidente ha tanti mezzi per convincere Saddam a rispettare l’ordine internazionale. Possibile che si decida comunque, alla fine, di fare ricorso alla forza delle armi?”». Una domanda estremamente attuale anche di fronte agli scenari di guerra di oggi.
Intelligenza artificiale, dipendenza dagli smartphone e dai social network, multitasking mediatico, uso sempre più pervasivo delle tecnologie digitali, difficoltà a distinguere le notizie vere dalle fake news. Sono solo alcuni aspetti contrastanti del mondo in cui siamo quotidianamente immersi. Su questi temi, tra luci e ombre, vogliamo soffermarci nella nostra newsletter per stimolare la riflessione. Lo facciamo attraverso due articoli, che consigliamo di leggere, dell’epistemologo Gilberto Corbellini sul Sole 24Ore, e del direttore dell’Istituto Mario Negri Giuseppe Remuzzi su La Lettura. Entrambi gli interventi, che partono da approcci e punti di vista diversi, documentano alcune ricadute che l’impatto con le tecnologie digitali sta avendo sulle nostre vite e sul cervello umano, di cui occorre essere consapevoli. Un impatto che rischia di essere particolarmente aggressivo sui più giovani.
foto uberoffices.com
Non si tratta assolutamente di demonizzare la tecnologia con inutili battaglie di retroguardia, fuori tempo massimo, o con altre idiozie del genere. Ci interessa invece utilizzarla in modo critico e consapevole; e questo è possibile. Tutto, come sempre, dipende dal soggetto, da ciascuno di noi. Come ha scritto recentemente lo scrittore Alessandro D’Avenia, se l’homo curvatus (quello che passa le sue giornate con lo sguardo curvato sullo smartphone e non si accorge più della realtà) «ha meno occhi non è colpa del telefono, ma di un cuore che quel telefono ha trovato vuoto». Così qualche giorno fa sul Corriere un lettore descriveva in una piccola lettera una scena emblematica: «Per un piccolo intervento, sono da pochi giorni in una camera d’ospedale a tre posti. Fino a ieri c’era anche Paolo, un degente boomer come me, andato via stamani. Da oggi ecco arrivare due sui 40 anni. Completamente rapiti dal cellulare, stanno distesi sul letto a guardarlo come un dio. Zero saluti, zero sguardi, zero di tutto. Con Paolo, invece, è bastato uno sguardo per conversare, sapere dove vive, che ha una figlia, che lui è in pensione, che non ha paura dei medici, prende farmaci e sta bene. In due giorni ci si è confidati giusto un po’, per rendere meno vuoto il tempo e non sentirsi soli. I due digitali 40enni invece… che tristezza l’adorazione di quel loro dio tascabile».