«Fare silenzio», il sacrificio che gli adulti dovrebbero imparare
di Sergio Belardinelli
da Il Foglio – 7 giugno 2022
Sul silenzio regna una certa confusione. Di solito lo associamo alla riflessione, alla preghiera, a una gita in montagna o alla visita a un monastero; continuamente veniamo sollecitati a cercarlo, a coltivarlo senza sapere bene perché; spesso lo associamo anche all’angoscia e nei momenti di depressione ai cimiteri; i poeti ce lo hanno raccontato in tinte diverse. Ma forse, per sapere che cosa esso veramente sia bisognerebbe chiederlo ai bambini. Solo loro conoscono l’inquietudine che sempre l’accompagna e il bisogno di fare rumore quando ci si trovano dentro. Parlare da soli ad alta voce o mettersi a cantare è spesso il loro antidoto preferito. In ogni caso, per i bambini, non c’è niente di più difficile che “fare silenzio”, sebbene a questo essi vengano continuamente richiamati dagli adulti. “Fare silenzio” è il loro primo sacrificio ( sacrum facere), la prima distinzione che separa un mondo da un altro, il sacro dal profano appunto. E forse solo i bambini sono in grado di sentire ancora, con timore e tremore, il significato di questa separazione, così come il bisogno di superarla in modo che sacro e profano divengano una cosa sola. Il silenzio che faticano a “fare” li spaventa e li attrae. Basta vederli quando giocano a nascondino. La frenesia del nascondimento è sempre accompagnata dal dito indice appoggiato sulla punta del naso, quasi a evocare la magia del silenzio che verrà. Dai loro occhi traspare la gioiosa eccitazione del loro piccolo cuore, ma anche un po’ di paura. Non sono capaci di rimanere nascosti troppo a lungo. Basta smettere un attimo di cercarli e loro escono gridando dal loro nascondiglio, gettandosi tra le braccia di chi li cerca. E’ difficile fare sacrifici da soli, stare a tu per tu con il sacro; “sovrumano” il suo silenzio. A meno che là fuori non ci sia qualcuno pronto ad abbracciarti. In questo caso, e i bambini lo danno a vedere chiaramente, sacro e profano si fondono, generando quella gioia che per noi adulti sembra essere invero sempre più difficile.
Con la “morte di Dio”, proclamata ai quattro venti come una liberazione, sembra non esserci più traccia del sacro; del silenzio abbiamo una paura molto più profonda di quella dei bambini; quanto al sacrificio, esso si presenta ormai semplicemente come un ostacolo alla nostra libertà e al nostro desiderio di autorealizzazione. Ma tutto questo è soltanto un’illusione. Nessuna società può liberarsi del silenzio, del sacro e del sacrifico, nemmeno la nostra che pure sembra volerlo fare; al massimo può rimuoverli o proiettarli in pratiche e luoghi i più impensati, abitati esclusivamente dal nostro io, ma liberarsene no. Possiamo vivere in solitudine e da “pensionati della storia”, ma nessuna società potrebbe sopravvivere se i genitori smettessero di sacrificarsi per i loro figli o se tutti i suoi membri decidessero che non valga più la pena sacrificarsi per nulla. Semplicemente perderemmo ciò che più di ogni altra cosa conferisce agli uomini dignità. Senza la disponibilità a sacrificarsi per essi, valori come giustizia, libertà, responsabilità perderebbero il loro significato. Sventurati dunque coloro che del sacrificio hanno paura. Costoro non conosceranno mai la vitalità, la trepidazione, la potenza rivelatrice di ogni autentico “sacrum facere”, il cui primo significato non è quello di una sofferenza o una privazione da temere, ma esattamente quello di rendere sacra una cosa per nostra iniziativa, generando uno spazio che siamo noi a volere così, perché così ci piace vivere insieme agli altri. Esattamente come fanno i bambini quando giocano a nascondino. Quanto al mondo, ridotto a mondo profano e basta, esso apparirebbe sempre più vacuo e inospitale, sempre meno attraente, abitato da uomini sempre più incapaci di penetrare la bellezza inquietante del suo mistero e, peggio ancora, sempre più inclini a “sacralizzare” qualsiasi cosa. Una vera sciagura. Se infatti il sacro induce sempre una sorta di trasfigurazione del profano, la sacralizzazione lo assolutizza e, in quanto tale, è sempre violenta, escludente (Girard docet).
Abitare il mondo, ascoltare il suo silenzio come se fosse un sacrificio, desiderare ardentemente le sue voci e i suoi rumori, predisponendo loro uno spazio accogliente, fiducioso che li renda in questo modo ancora più belli: questo dovremmo imparare dai bambini.