Il potere sovversivo della lettura
di Antonio Gnoli
da Robinson – 4 giugno 2022
È la terra inesausta della letteratura quella che da anni Giuseppe Montesano coltiva. Una sorta di archivio-mondo che tutto raccoglie, conserva, fa crescere, mettendo la ricchezza delle sue numerose letture a disposizione del lettore. Figura questa totemica che ogni volta sembra rinascere come avamposto di civiltà perdute al quale rendere onore prima che davvero sia troppo tardi. Prima che le ombre inghiottano ciò che ancora resta di vivo. La vita è davvero per Montesano l’ultima chance, l’ultima prova di resistenza prima che si venga seppelliti dalle chiacchiere, dal conformismo, dalle mezze verità che poi sono quasi sempre piccole viltà. Ho letto, lasciandomi andare al grande flusso dei suoi due libri monstre, Lettori selvaggi e Baudelaire è vivo.
Opere che non temono il rumore del tempo e anzi lo scalpellano fino a ritrovare una forma di decoroso silenzio. Vive a Sant’Arpino un paesino in provincia di Caserta e insegna filosofia in un liceo. Ha da poco pubblicato una nuova edizione di Come diventare vivi, una guida per i “lettori selvaggi”: gente che non si accontenta di vivere una sola vita e che scopre il potere sovversivo della lettura e che fa essere la realtà diversa da una prigione.
Si può evadere con i libri?
«Non si fa altro, ma occorre vedere da quale prigione si scappa».
Tra questa edizione di “Come diventare vivi” e la precedente che risale a cinque anni fa le cose sembrano decisamente peggiorate. Sospetto anche nella testa dei lettori, categoria che lei ama e sprona.
«La velocità con cui si producono i buchi nel nostro tessuto sociale e mentale è enorme. Al contempo rallenta la capacità di confrontare i pensieri con le emozioni. La malattia sembra inarrestabile. Diventare vivi è sempre più difficile».
Perché diventare e non esserlo già?
«Perché la vita è una difficile conquista».
E leggere aiuta, immagino. Lei ha scritto che a vent’anni leggeva Nietzsche ossessivamente.
«Rilessi in due, tre anni alcuni suoi libri anche quattro volte. Rilessi con due amici ad alta voce tutto Zaratustra. Arrivai a Nietzsche forse spinto da qualche sua frase che avevo orecchiato su Dostoevskij o su Baudelaire, e perché un amico mi aveva parlato misteriosamente di lui. Sentii, dopo un po’, che era illuminante e rovinoso, come un veleno o una droga. Per curarmi leggevo testi come La città di Dio di Sant’Agostino o i Dialoghi di Platone o Le lettere di San Paolo. Leggevo per tenere a bada Nietzsche e le sue insidiose seduzioni. Ho sempre fatto così con tutti quelli che considero maestri».
Ci sono ancora i maestri?
«Ci sono sempre, credo: siamo noi a non vederli, per egocentrismo o per mancanza di umiltà. Maestro è semplicemente chi possiede una conoscenza che vale la pena fare di tutto per possedere. Io ho avuto molti maestri e continuo ad averli: ma la grandissima parte di essi non erano e non sono vivi. Li ho incontrati ascoltando, leggendo, guardando. Sono grato a tutti e lo sono in particolare a mio padre».
Perché?
«Ero solo un bambino quando cominciò a raccontarmi I miserabili di Hugo. Ricordo che a dieci anni mi regalò I tre moschettieri in una edizione integrale. In quel periodo, nella nostra casa piccola e semplice, comparve la collana “i classici del mondo” della Utet. Mio padre disse che erano per me. Lui non era uno studioso o un accademico, era un maestro elementare. Ma leggeva molto e con passione, e io lo imitavo. Mi affascinava il suo volto concentrato nella lettura dei romanzi: un volto che era quello di chi vive il piacere profondissimo di stare in un altro mondo e che quando ne riemerge è felicemente diverso».
È il potere taumaturgico di certi romanzi. Ancora oggi “I tre moschettieri” non ha perso la sua forza.
«È sempre così eccitante leggerlo. Ma non so il segreto di questa forza. Forse parla dell’avventura che ci manca. È drammatico, ma anche comico e frivolo, insensato ed eroico e all’improvviso è profondo e inarrivabile e tutto con una leggerezza inaudita. Insomma, il mistero resta».
Come riconosce un grande romanzo?
«Grandi romanzi sono quelli a cui so che devo tornare. Ci torno e scopro cose che non avevo capito. Non appartengono più ai loro autori perché hanno assunto una vita autonoma. Sono montagne che scalo e scalandole imparo cos’è scalare una montagna».
Leggere un grande romanzo è un po’ anche ricrearlo, inventarlo?
«No, sono i grandi romanzi che inventano te. A patto di essere umile e capire che sei tu che devi andare da loro; non loro comodamente darsi a te. Leggere un grande romanzo è una forma lucida di erotismo, una forma dell’amare, che è allo stesso tempo cosciente e inconscia. Un grande romanzo come un grande amore ti chiede tutto ciò che hai: ma ti dà sempre più di quanto gli darai».
Un grande amore letterario è per lei Baudelaire. Lo ha tradotto, commentato, biografato. Fino a farne una sorta di romanzo personale.
«L’incontro con Baudelaire è stato a 15 anni, la vera svolta fu dieci anni dopo. Baudelaire non lo capivo molto e gli preferivo i “ragazzini maledetti”: Rimbaud, Corbièr e Lautréamont. Ho scritto Baudelaire è vivo perché desideravo che Les Fleurs du mal apparisse a chiunque come ciò che è in realtà e che in genere non si vede: un romanzo fatto di poesie, con molti personaggi che entrano in scena. Un romanzo in cui la poesia si scontra sempre con la prosa».
Per ogni poesia ha scritto un commento-racconto, aggiungendo letteratura a letteratura.
«Lo trova strano?»
È come se ogni suo libro proliferi come un organismo vivo.
«Volevo esplorare la vita di Baudelaire a Parigi, città molteplice e proliferante, la prima capitale moderna dell’Occidente».
Descrive Baudelaire come lo spartiacque della modernità. In anticipo, perfino su Nietzsche, Baudelaire vede con chiarezza tutti gli elementi della modernità, cogliendone immediatamente la decadenza: Dio, eros, progresso, lusso, moda, arte, giornali, denaro, costituzione, democrazia. Per citarne alcuni. È questo il suo lascito?
«Baudelaire restò profondamente colpito dal fatto che la modernità nel momento stesso in cui nasceva veniva tradita. Le promesse della modernità erano molte e tra esse c’era il cambiamento sociale ed esistenziale che spinse il poeta, ancora giovane, sulle barricate della rivoluzione. Ma quelle promesse si rivelarono inattendibili di qui una delusione immensa, come immenso era stato il suo entusiasmo. Scrisse che saremmo morti di ciò di cui avevamo creduto di vivere».
Che cosa intendeva dire?
«Alludeva alla sciagura del progresso quando è visto solo come progresso tecnologico. Nel descrivere la realtà in cui stiamo distruggendo le fonti stesse della vita – l’acqua, l’aria, la terra – aggiungeva che l’orrore non sarebbe partito dalla politica o dalla tecnica, ma dalla corruzione dei “cuori” ovvero dal modo di vivere e sentire la vita, avvilito dal narcisismo di massa e dalla divinizzazione dell’economico».
Come fosse la religione del nuovo?
«Il nuovo, ma è un nuovo fasullo, da circa un secolo e mezzo sta nella formula con cui Walter Benjamin definisce l’economia ammalata dallo sfruttamento dell’uomo che diventa servo e non padrone dell’economia: il sempre uguale nel sempre nuovo. La religione del nuovo è l’uomo che è diventato mezzo per l’economia: mentre dovrebbe essere l’economia il mezzo e l’uomo il fine. L’economia è trattata oggi come un tempo si trattava Dio: non è più una tecnica ma una fede, per giunta cieca. Siamo in presenza di un fenomeno che è diventato velocissimo negli ultimi trent’anni».
Come possibile via di uscita lei suggerisce: “leggere per sentirsi vivi”, leggere in profondità come alternativa al conformismo letterario. Ma cosa significa profondità?
«La lettura profonda non è solo leggere libri, ma è viverli e farli diventare parte di sé stessi. Si tratta di esistere e leggere senza far diventare la propria vita, che è unica per ognuno, la “stucchevole estranea” di cui parla Kavafis. La lettura profonda è soprattutto un mezzo per tenere accesa l’immaginazione e l’intelligenza, per consentire a noi di costruire i pensieri e le immagini: e non permettere di essere invasi da immagini e pensieri prefabbricati».
Concretamente cosa significa leggere un romanzo in profondità?
«Attivare il pensiero, ma anche tutti i sensi. Devo immaginare un personaggio in un luogo, entrare nelle sue emozioni come anche in quelle dell’altro personaggio da cui è attratto o respinto. Devo immaginare le facce, i corpi e i pensieri. E se due si toccano devo immaginare il tatto delle dita sui corpi, il profumo della pelle, il sapore della saliva e così via: un esercizio straordinario in cui tutte le facoltà mentali devono essere adoperate al massimo».
È un esercizio quasi medianico quello che lei richiede ai suoi lettori selvaggi.
«È un’azione che sviluppa una gran quantità di piacere, accresce e potenzia la nostra capacità emotiva oltre che mentale. Anche i neuroscienziati sostengono che la lettura profonda è fondamentale. Al contrario la lettura surf, che si ferma alla superficie, impoverisce le connessioni cerebrali, quindi il pensiero e le emozioni. Chi è in grado di esercitare una lettura profonda può capire e sentire meglio gli altri. La lettura profonda rende liberi dall’egoismo narcisistico. Questo cambiamento interiore è indispensabile a tutti gli altri cambiamenti, persino sociali».
Non è chiedere troppo a un libro?
«Non si chiede mai abbastanza».
Lei è un insegnante di filosofia, in un liceo di provincia. Che cosa ama del suo lavoro?
«Ciò che mi piace dell’insegnare è che sono costretto a rendere essenziali le cose e so che per riuscirci devo capirle bene io. Non posso spiegare Platone a dei sedicenni riempendogli la testa di muffa rimasticata. Devo spingerli a pensare. Farlo con ragazzini che praticano la lettura di superficie è una sfida che mi appassiona. Preferisco che scavino in pochi concetti piuttosto che sappiano molte cose. A volte mi sorprendono: fra i 16 e 19 anni i ragazzi sono dei nativi pensanti, altro che nativi digitali! Capiscono le idee di Platone e li faccio “giocare” a costruire sillogismi aristotelici».
Loro come la vedono?
«Come uno che esce dal suo mondo di scrittore, un mondo solitario e ossessivo. È come se ogni volta facessi un bagno nei modi diversi di essere adolescenti. Per far fronte al loro cambiamento sono costretto a restare vivo».
Quali libri consiglia ai suoi studenti?
«Da molti anni non ne consiglio più: cerco di farglieli balenare come qualcosa di unico. Accade che alcuni di loro mi chiedano una lista di libri indispensabili da leggere: solo allora, dopo molte insistenze, consiglio dei libri e gli spiego come usarli e quando. Tutto questo avviene in provincia, ma potrebbe accadere ovunque».
Colpisce nelle sue opere il continuo intreccio con il romanzo. Quasi non ci fosse vera distinzione di generi. Al tempo stesso lei è anche scrittore di romanzi.
«Il romanzo, ma insieme al romanzo la poesia, è per me il modello di qualsiasi scrittura: anche critica. Scrivendo romanzi ho la libertà di immaginare la realtà in maniera tale da sentirla e da vederla con più attenzione, più in dettaglio, più concretamente: poesia e romanzo sono i mezzi di una conoscenza non astratta, bensì emotiva e corporea. Per quanto mi riguarda, questa è la sola conoscenza che ci libera e ci risveglia dai sonni dogmatici e dall’orrore della ripetizione. Non penso che nasciamo vivi: vivi lo diventiamo. E cercare di riuscirci, accada pure quel che deve, è tutto ciò che importa».
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