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Le prove non ci sono ma la sentenza c’è già

  • Data 23 Gennaio 2022

Come dice Holmes: “Elementare, Watson”. Ciò che conta è avere metodo. Dal metodo discende, e dipende, il risultato. Nell’indagine indipendente dello studio legale Westpfahl Spilker Wastl sugli abusi sessuali nella diocesi di Monaco e Frisinga dal 1945 al 2019 il metodo è di tipo indiziario. Si basa, per i 497 casi individuati, su testimonianze, interviste, dichiarazioni. Nel rapporto della commissione Sauvé, in Francia, “la parola delle vittime” era stata “la matrice del lavoro” e l’indagine supportata da un metodo sociologico deduttivo: tot anni, tot preti, tot abusi presunti. L’inchiesta bavarese, meno extra large, commissionata dalla stessa arcidiocesi, chiama in causa in quattro occasioni Joseph Ratzinger nei cinque anni in cui fu arcivescovo di Monaco: per copertura degli abusatori o omesso controllo. Il Papa emerito ha inviato una memoria, 87 pagine, in cui confuta le accuse. Ma, stando alle dichiarazioni riportate dalla stampa, per gli autori del dossier “lui sostiene che non era a conoscenza di certi fatti, noi crediamo che non sia così”. Avere il metodo dalla parte del manico è decisivo, Watson. Le accuse o dichiarazioni che sorreggono i 497 abusi censiti sono credibili (“la matrice del lavoro”), le osservazioni della difesa invece no. C’è ovviamente clamore mediatico: se il metodo da solo fa sentenza, il titolo di giornale è già giurisprudenza. Anche se il portavoce vaticano Matteo Bruni ha dovuto precisare che non è stato ancora possibile prendere visione delle mille pagine del dossier. Ma al di fuori della schermaglia giudiziaria, che sarebbe pure necessaria – a meno che, nel metodo di questo tipo di inchieste indipendenti, la difesa non sia prevista: ma sarebbe un ben strano foro, persino ecclesiastico –, il Vaticano e la Chiesa cattolica in generale farebbero bene a riflettere su un aspetto: quale senso hanno indagini indiziarie, senza contraddittorio né obbligo di pistola fumante, svolte senza tenere conto del contesto storico né culturale? Nemmeno nei cold case si fa così.

Si potrebbe anche dire: elementare, Zollner. Inteso l’uo – mo che questo metodo dovrebbe conoscere e saper arginare, per il ruolo autorevole che ricopre. Padre Hans Zollner è tedesco e gesuita, è psicologo, è uno dei maggiori esperti in Vaticano nel campo della tutela dagli abusi sessuali. E’ molto stimato da Francesco, che lo ha nominato alla pontificia commissione per la Protezione dei minori. E’ un intransigente, non sembra indulgere al garantismo, non è uno che stia tanto a contestualizzare o sottilizzare. In tal senso, probabilmente non trova nulla da ridire sul metodo dello studio legale Westpfahl Spilker Wastl. Intervistato dalla Stampa, dopo un generico “siamo sotto choc” (non se lo aspettavano?), dice soprattutto una cosa decisiva: “Que – ste indagini condotte in modo oggettivo e pubblicate servono assolutamente. E servirebbero anche in Italia”. Forse trascurando che la Chiesa italiana si sta ponendo qualche domanda proprio sui metodi con cui procedere. Non perde tempo in difese d’ufficio del Papa emerito, ma va al sodo: sulla storia della pedofilia nella chiesa “paradossalmente ormai tutto è chiaro” e dopo le inchieste che auspica a tappeto si dovranno “modificare i rapporti di potere nella Chiesa… e aprirsi alle verifiche con la possibilità di essere giudicati anche da altri esperti fuori dal recinto cattolico”. Il dubbio che il metodo indiziario statistico senza contraddittorio sia inadeguato, non lo sfiora.

Non è una critica personale, sia chiaro: è che se il dubbio non sfiora lui, massimo esperto, è probabile che nessuno nella Chiesa ci abbia mai pensato. Nonostante lo stesso Francesco sul caso francese abbia espresso, a voce, qualche perplessità su una generalizzazione che rischia di essere antistorica. Massimo Franco sul Corriere ha tratteggiato ancora una volta il quadro di un porto delle nebbie ecclesiali che però appare invecchiato, non adeguato ai tempi e alla situazione: progressisti contro conservatori, e gli scandali sessuali come un’arma a disposizione di tutti. Ma oggi è chiaro, persino forse a Francesco, che le armi non sono nella disponibilità di nessuno, e che il metodo elementare è colpire il bersaglio grosso, cioè l’istituzione in sé. Quando la Chiesa avrà definitivamente accettato il metodo inquisitorio che farà? Quando toccherà magari allo stesso Bergoglio ( già si sentono i rumors argentini) o a qualche prelato non per forza in pensione, non per forza del fronte avverso? Il bersaglio è l’istituzione Chiesa cattolica, questo si sa da tempo. Ma la Chiesa sembra non soltanto non avere la forza, ma neppure la lucidità per reagire al metodo inquisitorio che intende smantellarla. Il coinvolgimento di Joseph Ratzinger, fatto in nome di un concetto di trasparenza assolutizzato, tanto da sembrare un vezzo del narcisismo ecclesiale, i buoni e puri, significa esattamente questo. Va detto che sotto accusa nel mondo sono le istituzioni tradizionali in sé, non solo la Chiesa cattolica. Il metodo statistico è applicato anche alla famiglia: anziché sanare gli abusi, meglio condannarla in quanto tale. L’istituzione dovrebbe sapersi difendere, ma non può. Elisabetta può dolorosamente far fuori un figlio che minaccia la stabilità del regno. La Chiesa può far fuori i suoi figli, e i suoi capi?

Maurizio Crippa

da Il Foglio – 22 gennaio 2022

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È la letteratura la vera educazione affettiva
15 Novembre, 2025

In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
1 Novembre, 2025

«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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