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Fissiamo il Pensiero

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Nella notte del mondo passione e compassione

  • Data 29 Ottobre 2023

Le immagini drammatiche di morte e distruzione che di continuo ci arrivano dalla Terra Santa ci lasciano attoniti di fronte al mistero del male. La televisione ce le mostra ogni sera ma tutto scorre via, passando, come se nulla fosse, dalla notizia dell’ultimo massacro al solito gioco a quiz. Nella realtà non è così. Ce lo dicono i due articoli di cui proponiamo la lettura questa settimana. Il primo è di Antonio Socci su Libero. Racconta come l’esperienza della bellezza – in questo caso incarnata dal duomo di Siena – può cambiare la vita. Diventa la fonte di una passione e di una compassione per l’uomo e per la realtà che illumina «la notte del mondo» oppresso da guerre e violenze. Sulla stessa lunghezza d’onda e da punti di vista completamente diversi si ritrovano Adriano Sofri e Roberto D’Agostino citati da Socci. Il secondo articolo pubblicato dal Wall Street Journal e ripreso dal Foglio descrive come le atrocità di Hamas siano la manifestazione di una malvagità dai cui germi nessuno è immune come scriveva Dostoevskij: «l’aberrazione più totale del cuore e della mente umana è sempre possibile». E l’ideologia è sempre stata l’arma utilizzata per giustificare i peggiori crimini, come ha raccontato Solgenitsin. Una possibilità sempre presente da cui stare in guardia.

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Così Wagner trovò a Siena il senso della vita cristiana

di Antonio Socci

da Libero – 22 ottobre 2023

Soffiano venti di guerra. E pensieri dolorosi e confusi riempivano la mia mente, nei giorni scorsi, mentre, tornato a Siena, salivo fino al Duomo. Quando, in cima a via dei Fusari, appare di colpo lo splendore della facciata scolpita da Giovanni Pisano, si è investiti da emozioni che – come diceva Federico Tozzi – «fanno mancare il respiro e scoppiare il cuore». Non si trovano parole. Anche se si sono letti mille studi che spiegano tutti i dettagli di quel capolavoro. Anche se si è nati lì ed è la millesima volta che si torna su quella piazza.

Il libro di marmo della facciata e poi quello dell’immenso pavimento istoriato, lo struggente Pulpito di Nicola Pisano e poi l’opera di Duccio, di Donatello, di Michelangelo… Quella fuga di marmi e di colonne bianche e nere… Si comprende perché Richard Wagner – che arrivò a Siena nell’estate 1880 – ne rimase folgorato. Era il 23 agosto. La moglie Cosima annotò: «Visita al Duomo! Richard si è commosso fino alle lacrime, dice che è l’impressione più forte che abbia mai ricevuto da un edificio. Vorrei ascoltare il preludio del Parsifal sotto questa cupola».

Wagner tornerà più volte nella Cattedrale (il mese successivo ci porterà pure il suocero Franz Liszt): «Gli sembra quasi un miracolo aver trovato in Siena, nel suo duomo – ha scritto Attilio Brilli – l’ambientazione tante volte sognata per la scena conclusiva del Parsifal, e averla trovata proprio nel momento in cui sta ponendo materialmente fine all’opera». Infatti a Siena, a Villa Torre Fiorentina, la porterà a termine. È con lui il pittore Paul Joukovsky a cui fa realizzare dei bozzetti degli interni della Cattedrale grazie ai quali dipingerà la scenografia montata poi a Bayreuth nel 1882, per la rappresentazione del Parsifal (Wagner vedeva il Duomo di Siena come la perfetta Sala del Graal).

Giovanni Minnucci, Rettore dell’Opera del Duomo, ha rievocato questi fatti per spiegare la serie di eventi musicali – dal 20 ottobre al 12 novembre – intitolati “Wagner und Siena” e realizzati in collaborazione con l’Accademia Musicale Chigiana (ci sarà anche l’esecuzione di alcune parti del Parsifal in Cattedrale). Fra l’altro proprio quest’opera sancì la rottura fra Wagner e Nietzsche. Era troppo cristiana. Come sottolinea René Girard, «Nietzsche afferma di essere stato sconvolto dall’abietto cedimento al cristianesimo che il Parsifal rappresenta».

Eppure in uno dei suoi frammenti lascerà scritto che il “Preludio del Parsifal” è «il più grande beneficio che da tempo mi sia stato reso… Non conosco nulla che prenda così in profondità il cristianesimo e che spinga così acutamente verso la compassione… Il più grande capolavoro della sublimità che io conosca, una espressione indescrivibile della grandezza nella compassione al riguardo; nessun pittore ha dipinto un tale sguardo oscuro, triste, come ciò è riuscito a Wagner nell’ultima parte del preludio. Neppure Dante, neppure Leonardo… è come se, dopo molti anni, qualcuno mi parlasse dei problemi che mi preoccupano, non naturalmente con le risposte che tengo pronte in proposito, ma con le risposte cristiane – alla fine questa è stata la risposta di anime più forti di quelle prodotte dai nostri ultimi due secoli».

Girard commenta giustamente che questo frammento «contraddice tutto quanto l’ultimo Nietzsche afferma non solo sul Parsifal e su Wagner, ma, in particolare, sulla volontà di potenza, il risentimento e il cristianesimo, ossia su tutto quanto sembra più indiscutibile nel credo professato dall’ultimo Nietzsche».

Se si considera che Nietzsche è il filosofo di riferimento nella demolizione, in corso, della civiltà giudaico-cristiana, si può capire quanto è significativo il Parsifal che sarà eseguito nel luogo ideale che Wagner aveva immaginato: il Duomo di Siena.

Forse quella «compassione cristiana» contro cui Nietzsche tuonava, ma che poi, tradotta in musica da Wagner, sentiva come la risposta più vera, è proprio il messaggio che ci arriva dalla Grande Bellezza che in Italia ci circonda.

SOFRI E D’AGOSTINO

Mi sono sorpreso, in questi giorni, quando ho ritrovato considerazioni simili in due personaggi lontani (fra loro e da me) come idee: Adriano Sofri e Roberto D’Agostino.

Sofri ha raccontato sul Foglio di un suo girovagare per Firenze dove vive. Quasi per caso è entrato, come tante altre volte, alla Badia Fiorentina («quella dove Dante vide Beatrice») e poi al Bargello che «una volta mi era famigliarissimo». Scrive: «È uno di quei luoghi in cui ci si chiede come sia stato possibile. In cui è troppo». Dove si ha «la sensazione di essere soverchiati, di non saper né voler decidere davanti a quale Michelangelo, a quale Donatello, a quale Verrocchio, a quale Cellini… fermarsi. Viene da chiudere gli occhi. Dimettersi. Lasciare che quell’adunata di opere meravigliose passino inosservate… La bellezza fa soggezione, naturalmente… così impassibile e al tempo stesso così vulnerabile alla guerra mondiale…». Alla fine Sofri confessa di aver provato «una specie di compassione» per la gente che c’era. «Il Bargello mi è sembrato come un rifugio, in cui correre disciplinatamente a ripararsi quando risuonano le sirene d’allarme in tempo di pace».

Roberto D’Agostino – noto per il suo sito scanzonato – ha dato un’intervista a Repubblica dove parla del suo recente film “Roma santa e dannata”, raccontata come una «selva oscura», come «Caput mundi e chiavica der monno». Ma quando gli viene chiesto se considerarla “città eterna” è un luogo comune, dà una risposta folgorante: «No, quello è vero. Roma è eterna perché davanti alla Fornarina di Raffaello, al Mosè di Michelangelo o alla cupola del Pantheon, senti che quelli sono molto più vivi di te. Quando noi saremo polvere, i quadri del Caravaggio a S. Luigi dei Francesi o la Cappella Sistina saranno sempre contemporanei. Una volta a Stendhal chiesero a che serve il Colosseo, lui rispose: a far battere il cuore. È la migliore spiegazione di cosa sia l’arte».

Forse la risposta che cerchiamo, nella notte del mondo, è attorno a noi. È fatta di passione e di compassione.

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Dostoevskij a Gaza

da Il Foglio – 23 ottobre 2023

https://www.ilfoglio.it/il-foglio-internazionale/2023/10/23/news/perche-i-fan-occidentali-di-hamas-sono-pronti-a-giustificare-i-terroristi-5818837/

“Intere famiglie sterminate; donne violentate e torturate; persone vive umiliate e cadaveri maltrattati; bambini assassinati davanti agli occhi dei loro genitori; e, in un caso che sconvolse particolarmente Dostoevskij, una bambina costretta a guardare suo padre scorticato vivo”. Così Gary Saul Morson (un critico letterario slavo-americano noto per il suo lavoro accademico sui grandi romanzieri russi Lev Tolstoj e Fëdor Dostoevskij, e sul teorico della letteratura Mikhail Bakhtin) scrive sul Wall Street Journal.

“Se sembra che solo gli incivili possano essere tali sadici, avverte Dostoevskij, sappiate che la stessa cosa potrebbe accadere anche tra gli europei civilizzati. ‘Per il momento è ancora contro la legge’, scrive, ‘ma se dipendesse da noi, forse, niente ci fermerebbe nonostante tutta la nostra civiltà’. Per il momento ‘la gente è semplicemente intimidita da qualche abitudine’, continua Dostoevskij, ma se qualche esperto progressista avanzasse una teoria che dimostrasse che a volte scuoiare la pelle può giovare alla giusta causa perché ‘il fine giustifica ogni mezzo, e se quell’esperto esprimesse il suo punto di vista usando lo stile appropriato’, allora, ‘credetemi’, ci sarebbero tra noi persone rispettabili ‘disposte a realizzare l’idea’.

Dopo l’11 settembre si è scoperto che i terroristi erano spesso benestanti e istruiti. La crudeltà spesso prospera tra le persone sofisticate. Dostoevskij ricorda il Terrore francese, quando le persone venivano umiliate e uccise in nome dei più alti principi, ‘e questo dopo Rousseau e Voltaire!’. Ma non poteva immaginare che durante i terrori staliniani milioni di persone sarebbero state torturate nel modo più degradante possibile; e che durante la collettivizzazione dell’agricoltura, altri milioni sarebbero stati fatti morire di fame deliberatamente, con i giovani idealisti bolscevichi introdotti per imporre la carestia e togliere pezzi di cibo ai bambini. In occidente, gli intellettuali giustificavano tale comportamento perché veniva fatto in nome del socialismo e dell’antimperialismo. Dostoevskij aggiunge che non è necessario ricorrere a esempi del passato perché la stessa dinamica può verificarsi in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento in cui il lato oscuro della natura umana si manifesti, rivestito del linguaggio di ciò che passa per progressista e illuminato. ‘Credetemi’, si rivolge Dostoevskij ai suoi lettori, ‘l’aberrazione più totale del cuore e della mente umana è sempre possibile’.

È un terribile errore immaginare che gli atti criminali vengano compiuti solo da delinquenti. Ricordando gli inizi della sua carriera di rivoluzionario, Dostoevskij sostiene che il suo gruppo, che avrebbe potuto facilmente compiere gli atti più terribili, era composto da persone sofisticate con l’equivalente russo dell’istruzione dell’Ivy League. Ma nonostante si considerino un’élite colta – o forse proprio perché lo facevano – pochi ‘di noi… potevano resistere a quel noto ciclo di idee e concetti che aveva una presa così salda sulla giovane società’. Allora era ‘socialismo teorico’, ma avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, e non c’è alcuna buona ragione per ‘pensare che anche l’omicidio… ci avrebbe fermato, non tutti, ovviamente, ma almeno alcuni di noi… circondato da dottrine che avevano catturato le nostre anime’. Dostoevskij ricorda che nel suo romanzo ‘I demoni’ ha mostrato come anche i cuori più innocenti possano essere trascinati a commettere azioni mostruose e sentirsi orgogliosi di averle commesse. ‘E qui sta il vero orrore: che… si può commettere l’atto più ignobile e più scellerato senza essere minimamente un cattivo! E questo accade… in tutto il mondo, fin dall’inizio dei tempi’. ‘La possibilità di considerarsi – e talvolta anche di essere, di fatto – una persona onorevole mentre commette una malvagità evidente e innegabile’, aggiunge, è una possibilità che trascuriamo a nostro rischio e pericolo. Un secolo dopo, Alexander Solgenitsin, contemplando gli idealisti russi che si unirono alla tortura e gli intellettuali occidentali illuminati che la mascherarono, si chiese perché i cattivi di Shakespeare uccisero solo poche persone mentre i bolscevichi ne uccisero milioni. Per rispondere a questa domanda, riflette, bisogna comprendere che nessuno si considera malvagio. Per compiere azioni malvagie una persona deve trovare ‘una giustificazione per le sue azioni’, in modo da poter considerare come un bene il furto, l’umiliazione e l’uccisione. ‘Le autogiustificazioni di Macbeth erano deboli’, e quindi la coscienza lo trattenne. Non aveva alcuna ideologia, osserva Solgenitsin, niente come ‘antimperialismo’ o ‘decolonizzazione’ per alleviare i sensi di colpa. Solgenitsin conclude: ‘L’ideologia è ciò che dà al male la giustificazione a lungo cercata e dà al malfattore la necessaria fermezza e determinazione’.

Ho sentito commentatori preoccupati che la cancellazione della cultura e la soppressione delle diverse opinioni possano portare a un ‘totalitarismo morbido’. Dobbiamo riconoscere che alcuni di coloro che giustificano le atrocità di Hamas sarebbero pronti a commetterle contro i nemici designati. E a differenza dei turchi di Dostoevskij o dell’Hamas di oggi, avrebbero a disposizione mezzi ad alta tecnologia per estendere il loro raggio d’azione. Temo che gli orrori del XX secolo possano rivelarsi solo un assaggio di qualcosa di molto peggiore nel prossimo futuro”.

Tag:Adriano Sofri, Antonio Socci, bellezza, Dostoevskij, Gaza, Nietzsche, Roberto D’Agostino, Wagner

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
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«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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