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Riascoltando Gaber

  • Data 7 Gennaio 2024

Riprendiamo il nostro appuntamento domenicale nel nuovo anno accompagnati da Giorgio Gaber. A Capodanno Rai 3 ha mandato in onda il docufilm «Io, noi e Gaber» che è possibile rivedere a questo link su RaiPlay. Un’occasione straordinaria per rivivere un pezzo di storia d’Italia attraverso la carriera e la vita dell’artista milanese scomparso ventuno anni fa. Eppure a distanza di tanto tempo nel percorso e nelle parole di Gaber possiamo ritrovare intuizioni e suggerimenti spiazzanti che riguardano la nostra vita di oggi. Come scrive Carlo Candiani nell’articolo pubblicato sul quotidiano online ilsussidiario.net, di cui invitiamo alla lettura, il docufilm «non è più il racconto di una carriera artistica, ma quello di un uomo dentro la propria storia e quella del popolo in cui è immerso, con mille contraddizioni, vissuta con l’intero corpo e anima».

Incontri sull’Unione Europea, iscrizioni solo in lista di attesa 

Sono esauriti i posti per partecipare al ciclo di incontri sull’Unione Europea promosso dalla Fondazione San Benedetto, che inizierà venerdì 19 gennaio. Segno evidente di interesse per una proposta, che, come avevamo preannunciato presentando il programma, risponde a un’esigenza diffusa di conoscenza dell’Europa. Invitiamo comunque chi volesse partecipare e non si fosse ancora iscritto a registrarsi in ogni caso sul nostro sito a questo link. Formeremo una lista di attesa e in base alle richieste che riceveremo valuteremo la possibilità di allargare la partecipazione ad altri iscritti.


IO, NOI E GABER/ Il docufilm che racconta il cantante ma anche una generazione

di Carlo Candiani – da ilsussidiario.net del 4 gennaio 2024

1° Gennaio 2024, ore 21,20: mi accingo a godere della visione del docufilm “Io, noi e Gaber” che, meritoriamente, la RAI offre al vasto pubblico televisivo. Scorrono le immagini e il primo sentimento personalissimo è di “magone”. Infatti, l’inizio è dedicato alle origini della carriera di Giorgio Gaber nella Milano dei primi anni ’60, in pieno rimbalzo sociale dopo la ricostruzione post-guerra. Io sono nato in questa città, nella periferia bagnata dal Naviglio leonardesco che sfocia nella Darsena, porto a quel tempo attivo per i barconi che, trainati dai trattori, trasportavano sabbia e materiali edili, e proprio in quei giorni di maggio del 1957 nei quali al Palazzo del Ghiaccio, il rock’n roll entra in Italia e sul palcoscenico di quel Festival debuttano Adriano Celentano ed Enzo Jannacci, ai quali, negli anni immediatamente seguenti si aggiungono Giorgio Gaber e Luigi Tenco: ed è rivoluzione! I ragazzotti scardinano con il loro entusiasmo contagioso le regole della canzone nazionale ancora memore della tradizione melodrammatica e puntano sui ritmi frenetici che arrivano da oltreoceano americano (un misto di rock’n roll e jazz). I teenagers li celebrano subito come loro eroi musicali, ma i testi delle canzoni non sono così rivoluzionari come il ritmo esagitato ed elettrico: cantano la vita delle periferie.

Giorgio Gaber (foto di Luigi Ledda da Flickr)

Soprattutto Gaber (con l’aiuto delle liriche immortali di Umberto Simonetta, dimenticato nel docufilm, ma è l’unica pecca dell’impianto narrativo) con la sua musica fa risplendere la Milano del Giambellino, di Porta Romana, dei trani a gogò, delle osterie dove la piccola malavita si incrociava con il resto di umanità, fotografando un popolo appena uscito dalle temperie belliche della guerra civile e alla ricerca di una stabilità lavorativa e una dignità sociale.

È un primo “step” da gigante della comunicazione artistica: è il Gaber televisivo, quello della neonata RAI, la televisione impegnata nella missione di unire l’Italia ancora non completamente scolarizzata ma aggrappata alle tradizioni delle generazioni precedenti, quella agricola in via di estinzione e quella religiosa/clericale a rischio sclerosi. Sono gli anni “spensierati” in coppia con Jannacci, delle sfide rock con Celentano, dei duetti con Mina.

Ma gli anni ’60 scorrono veloci e arriva prepotente, dalla Francia, l’onda contestatrice del ’68: il conformismo della società borghese viene messo alla berlina. È una specie di un confuso liberi tutti che interroga gli operai, gli studenti e gli intellettuali, mentre le regole religiose vengono travolte. Gaber è attratto da questo vento di cambiamento e la sua nuova produzione musicale si apre alla critica sociale più pungente. La censura televisiva, però, si fa più invasiva e l’artista milanese medita un gesto netto e irrevocabile: se lo spazio televisivo, quello famigliare, si fa sempre più esiguo, tutto lo sforzo creativo sarà gratificato e veicolato dalle messe in scena del “Teatro Canzone”.

La narrazione del docufilm è puntuale nel raccontare questo passaggio storico di Gaber, attraverso le cronache politiche e sociali: dall’incontro con il pittore anarchico toscano Sandro Luporini, impegnato nell’ideazione dei testi, scaturirà l’epopea artistica del teatro “civile”, testimone per tre decenni degli avvenimenti della cronaca e della storia politica italiana, sempre pronti a segnalare con ironia sempre più “urgente” e sempre meno “leggera”, le contraddizioni umane ed esistenziali del “nuovo che avanza”. E qui, l’affondo del film è insuperabile.

Attraverso l’encomiabile varietà di interventi fra i testimoni dell’arte gaberiana, provenienti dalle diverse formazioni culturali d’origine, l’atmosfera narrativa si fa più “tesa”; perde necessariamente una certa leggerezza, si adegua ai temi sempre più profondi toccati dal duo Gaber/Luporini, sezionandone e sviscerandone il nocciolo del pensiero. In primo piano, ecco canzoni come “Il dilemma”, “La mia generazione ha perso”, “Scusate se parlo di Maria”, “Quando eravamo comunisti”; e la galleria di voci e volti si snocciola interminabile e curiosa.

Tutti i coinvolti sono portatori di un contraccolpo, di una riflessione estrema e scarnificante, di una domanda ancora attuale, anche permettendosi qualche timido dissenso. Dalle lampanti perplessità dure a morire e dall’imbarazzo dei politici Mario Capanna e Pier Luigi Bersani, al disagio per le provocazioni “gaberiane”, ancora vivo e sanguinante degli autori e attori ‘d’area’ come Gino & Michele, Michele Serra e Claudio Bisio, fino alle citazioni esistenziali del giornalista Massimo Bernardini, nella sua gioventù tra i responsabili del fitto rapporto personale tra Gaber e una certa parte del mondo cattolico, travalicando superati schemi ideologici, e poi le memorie dello stesso Luporini, quelle di Mogol e dei collaboratori della “Fondazione Gaber”, gli aneddoti dei colleghi Gianni Morandi, Ivano Fossati, Ricky Gianco, della figlia Dalia manager in comunicazione musicale e di Massimiliano Pani (figlio di Mina, anche lui produttore discografico della illustre madre), di Lorenzo “Jovanotti” Cherubini (che uno si domanderebbe cosa c’entri con Gaber?), eppure titolare di uno dei più interessanti spunti riflessivi: “Non esistono le generazioni, esistono le persone concrete con nome e cognome”.

Insomma, ormai il docufilm ha voltato pagina: non è più il racconto di una carriera artistica, ma quello di un uomo dentro la propria storia e quella del popolo in cui è immerso, con mille contraddizioni, vissuta con l’intero corpo e anima. Un uomo considerato ormai tra i più grandi artisti italiani dal dopo guerra. Tutto si fa più impegnativo per lo spettatore, il ritmo narrativo scorre fluido ma intenso: il bravo Riccardo Milani nel suo ruolo di regista non censura nessun intervento, non antepone un suo pregiudizio, non strumentalizza ma lascia spazio alle libere voci che testimoniano il libero pensiero di Gaber. È come una seduta di analisi o stare in un confessionale, confrontandosi con le parole del Teatro Canzone. E così i pensieri vengono sostituiti dalle immagini, quelle di vent’anni fa, le ali di folla, i funerali nell’Abbazia di Chiaravalle nell’estrema periferia milanese, in quel freddo gennaio 2003. Fino allo stratagemma narrativo di quell’esodo finale che vede arrivare da ogni parte i testimoni coinvolti per incontrarsi riuniti davanti al palcoscenico e applaudire in un’ultima ovazione l’eroe indimenticato nel suo ultimo e definito monologo.

Che meraviglia ai nostri occhi! Che profondità di pensiero per le nostre orecchie travolte dalle banalità quotidiane! Che respiro di vita per il nostro cuore! E quanto ancora si vorrebbe stare lì, davanti a quel palcoscenico nell’attesa di un nuovo monologo, una nuova canzone, una nuova “urgente” provocazione che ci faccia saltare sulla poltroncina!

Non perdetelo questo gioiello di film (disponibile sul canale RaiPlay), ringraziate per la passione e l’affetto con cui è stato ideato e realizzato, e lasciamo che queste ultime parole di Gaber, quasi un testamento, si insinuino in qualche parte della nostra memoria più profonda:

“E tu mi vieni a dire

quasi gridando

che non c’è più salvezza

sta sprofondando il mondo.

Ma io ti voglio dire

che non è finita

che tutto quel che accade

fa parte della vita”.

Tag:Giorgio Gaber

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
15 Novembre, 2025

In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
8 Novembre, 2025

Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
1 Novembre, 2025

«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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