Il pozzo infernale
La fiction, nostro pane quotidiano, parla spesso di guerra, crimine, passione, destino, e gli sceneggiatori cercano riferimenti nella cronaca, nella storia, per dare radici e senso al racconto. Il reality show è emerso come l’altra faccia chiacchierina o pseudoavventurosa della fiction, con le radici in bella vista e un racconto perfettamente senza senso. Con la serie dedicata ad Alfredino Rampi, un misto di fiction e di reality, la caccia a un vasto pubblico del dolore fa un salto pericoloso nell’intimità. Credo che si guarderà bene dal consumare la serie chiunque abbia visto in diretta, strangolato dall’ansia, le immagini di Vermicino e delle ultime diciotto ore in diretta Rai del tentativo di salvezza di un bambino di sei anni caduto in un pozzo artesiano, concluse con la certificazione della sua morte a sessanta metri di profondità all’alba del 13 giugno del 1981.
Con tutto il rispetto per gli sceneggiatori, per i produttori e distributori, quella storia che per moltissimi è un’astrazione per molti altri, i meno giovani che restarono una notte incollati a fremere di paura, di terrore, per quanto accadeva in una contrada dell’Italia umile e rurale, è un incubo personale dal quale nei casi meno infelici ci si risveglia con una violenta rimozione. Ero solo, a Torino, in un appartamento di Borgo San Paolo, e quelle immagini e suoni interminabili, circensi, in ore bestiali e confusamente luttuose e alla fine macabre, liquidarono nell’emozione profonda anche solo il significato della parola speranza. A nemmeno trent’anni, vissuta l’epoca della guerra civile italiana, in una cupa successione di ammazzamenti, funerali, parole assassine, imparai infine individualmente, in una notte di solitario reality in bianco e nero, il significato della parola disperazione.
Molti anni dopo in televisione rievocai la tragedia sceneggiandola in un’inchiesta di seconda serata, perché lo share of voice ha le sue regole e l’interesse pubblico a sapere era ancora in qualche modo caldo, e me ne sono inquietato e pentito, ne tirai fuori per me e per il pubblico un’angoscia che non pensavo si potesse riprodurre ancora, a tanta distanza di tempo, con le tecniche della serialità. L’informa – zione come intrattenimento ha fatto nel frattempo la sua strada, ha preso il colore, è diventata intrattenimento come informazione. La diretta dal Golgota, per mutuare la formula cinica e sarcastica di Gore Vidal, è progredita e si applica a tutto il dolore del passato, per non dire di quello presente. Ma senza stare a fare del moralismo meschino, trovo più ancora assurdo che ripugnante lo sceneggiato intorno al pozzo, la riproposizione dell’incubo con il suo casting, le tecniche emozionali, la suspense, verso l’approdo disperato di un tentativo vano e senza remissione. La storia fu a suo modo esemplare come tutte le storie in certa misura lo sono, con la folla, i curiosi, i bibitari, i congiunti, il presidente della Repubblica e l’invadente presenza della curiosità della folla, degli strumenti della diretta tv accanto all’onore eroico dei volontari e nel marasma ovvio delle istituzioni di protezione. Il corpo del piccolo Rampi fu riesumato dalla bocca dell’inferno a oltre un mese dalla sua morte. Quarant’anni dopo, non voglio sognare di nuovo quell’incubo, non voglio vederlo.
Giuliano Ferrara
Il Foglio – 22 giugno 2021