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Morire senza una lacrima: perché la Resurrezione ci riguarda

  • Data 9 Aprile 2023

di Giovanni Testori

dal Corriere della Sera – 1 marzo 1981

Sono un necroforo del Comune di Milano. Domenica scorsa ho fatto un funerale all’ospedale di Niguarda. Una vecchietta chiusa in una bara gratuita del Comune, avvolta in un lenzuolo. Nessuno si è degnato di vestirla. Non un parente o un amico o un conoscente o un prete o qualsiasi sguardo umano si sarebbe posato su quel volto pallido, freddo ma sereno e pulito. Per lei anche il portone della chiesa era sbarrato. Una pietà immensa sconvolse la mia mente e in un gesto d’Amore sollevai quel coperchio trovato già posato sulla bara per donarle il mio sguardo miope ma amoroso e fraterno.Ed è qui, in quest’attimo di eternità in cui la mia coscienza si smarrisce e rifiuta di concedersi a Dio, che vorrei chiedere a un qualsiasi Testori chi siamo e dove andiamo.

Gatto Mario – necroforo

Semplice, tenera e insieme agghiacciante, straziata d’amore e di carità, tutta avvolta da un sentimento e da una consapevolezza pagati, giorno per giorno, nella carne e nell’anima, questa lettera dovrebbe metterci tutti lì, in ginocchio, a domandare perdono all’uomo che è in ogni uomo per dove abbiamo lasciato che l’uomo arrivasse. La vecchietta, chiusa nella bara gratuita» e senza nessuno che la segua, è l’immagine della nostra vergogna; ma è anche la speranza di salvarci come uomini che, con totale indifferenza lasciamo che venga seppellita, ogni giorno, giù nella terra.

Lei mi chiede, «chi siamo e dove andiamo». Sempre, le assicuro, mi sono sentito e mi sento «qualsiasi»; ma le sue parole m’hanno fatto sentire molto meno che «qualsiasi»; indegno, ecco; se, appunto, ho lasciato e lascio che queste accadano qui, nella mia e nostra città, nel mio e nostro Paese, sulla mia e nostra terra.

La risposta che mi sollecita, non sono io che posso darla a lei; è lei che l’ha data a me e a tutti noi, col gesto che ha compiuto; sollevare il coperchio della bara e far scendere, anzi come lei dice, «donare» alla povera vecchia il suo sguardo miope, ma amoroso e fraterno». Il mondo, l’uomo e la speranza della loro salvezza, in quel momento, li ha raccolti nelle sue braccia lei; e li ha raccolti anche per noi, occupati, come siamo, nel difendere l’indifendibile: una vita che fa i conti sempre e solo con se stessa, col proprio interesse e col proprio egoismo.

In quell’attimo, che lei così giustamente chiama «d’eternità», dice che la sua coscienza s’è smarrita e s’è rifiutata «di concedersi a Dio». E come, se proprio compiendo quel gesto lei ritrovava e riaffermava, anche per chi li aveva dimenticati, il senso e il valore della vita? Come, se proprio per quell’Amore, che lei scrive con la A maiuscola, si rimetteva, e completamente, nelle braccia di Dio?

Siamo o, meglio, dovremmo essere quello che è stato ed è lei, miopi, forse, ma amorosi e fraterni; e andiamo, anche se lo neghiamo, verso quell’Amore che ci ha creati e che l’ha spinta a donare alla povera, santa morta di Niguarda, il suo sguardo; e, chissà, un suo bacio. Lei ha fatto tutto quello che ha potuto; e in quel modo ha preso il posto dei parenti, degli amici, dei conoscenti e dei preti che non c’erano. Se anche il portone della chiesa, per la povera vecchia, era sbarrato, lei l’ha accompagnata al cuore che non si chiude mai: quello di Cristo. Tutto le sarà reso; e centuplicato; così ha detto proprio lui, Cristo. Ma ci sembra giusto (e Cristo vuole anche questo) che tutto si faccia perché tutto le sia reso centuplicato, anche qui, sulla Terra.

Un modo, non certo il primo, può essere quello di scrivere e gridare quali e quante mai indegnità lasciamo che vengano compiute sul cuore e sul corpo dei nostri vecchi; e, insieme, di segnalare e illuminare i gesti d’umanità e di fratellanza che, invece, teniamo nascosti per far scendere nei crani di chi legge, vede e ascolta giornali, radio e televisioni, solo i gesti del clamore, della disumanità e dell’odio.

Che società possiamo mai pensare di costruire se non ci decidiamo a ricollocare al centro della nostra vita il rispetto, l’amore e la venerazione pei nostri fratelli e per le nostre sorelle quand’essi si trovano nei momenti più difficili, cioè a dire nell’infanzia, nella vecchiaia, nella malattia, nella solitudine, nella fame, nella miseria, nella disperazione e nella morte?

«Seppellire i morti»; era un’altra delle opere di misericordia che m’è accaduto di rammentare proprio domenica scorsa e che il nostro tempo ha preferito, invece, scordare. Ma così facendo, dovremmo perlomeno sapere che, come uomini, moriamo ben prima che la nostra vita fisica si chiuda.

Gatto Mario, necroforo del Comune di Milano. No, non necroforo; portatore di fratellanza, di pietà, d’amore e anche di fede, seppur le sembri di non conoscerla e di non «saperla» abbastanza, la fede. In mezzo a un mondo che va sprofondando in una girandola di parole finte e vuote, sono i gesti, gli atti che incarnano fratellanza e amore ciò di cui tutti abbiamo bisogno. Di questo, della sua umiltà e di quel suo sentirsi incerto su una certezza che, pure, ha così naturalmente praticato, noi la ringraziamo.

Una volta le si sarebbero resi gli onori sul campo; non sul campo dell’armi; ma sul campo, che abbiamo lasciato disseccare, dell’umana coscienza e dell’amore. Bene, quegli onori bisognerà pur cominciare a renderli di nuovo. E poiché così è stato, qui, sul nostro giornale, cominciamo a renderli a lei.

Tag:Giovanni Testori

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È la letteratura la vera educazione affettiva
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In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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