È dedicata al Natale la nostra newsletter di oggi, l’ultima di questo 2025 ormai agli sgoccioli. Nella distrazione generalein cui siamo immersi forse non facciamo neppure più caso al fatto che gli anni stessi si contano a partire dall’avvenimento storico della nascita di Gesù a Betlemme. Uno spartiacque decisivo di cui, dopo oltre due millenni, godiamo ancora i fruttisenza rendercene conto. La sfida del Natale, anno dopo anno, è dunque a misurarsi con questo fatto storico. Qualcosa di completamente diverso da un’effusione di buoni sentimenti o dalla frenetica corsa consumistica a cui viene invece spesso ridotto il Natale. Proprio pochi giorni fa Papa Leone parlando ai pellegrini francesi ha invitato «a non lasciarci prendere da un frenetico attivismo nei preparativi della festa, che finiremmo per vivere in modo superficialee che lascerebbe spazio alla delusione. Prendiamoci invece il tempo di rendere il nostro cuore attento e vigile nell’attesa di Gesù, affinché la sua presenza amorevole diventi per sempre il tesoro della nostra vitae del nostro cuore».
Marc Chagall, Sacra famiglia
Sulla provocazione alla nostra vita che la nascita di Gesù rappresenta vogliamo proporvi la lettura di un articolo di don Luigi Giussani, pubblicato su Repubblica in occasione del Natale del 1997. Singolare l’esordio: vengono citate e commentate alcune righe di Antonio Gramsci, il fondatore del Partito Comunista, che metteva in guardia dai rischi di una «svalutazione del passato» nella quale «è implicita una giustificazione della nullità del presente». Per Giussani Gramsci «dice il vero: la grande alternativa per la vita di un uomo e di un popolo è, infatti, tra ideologia e tradizione». La rimozione continua del vero senso del Natale a cui assistiamo oggi e la sua sostituzione con simboli vuotibasati sul consumo e sul bisogno di evadere, documentano questa volontà di cancellare il passato, la tradizione che ci è stata consegnata. Tradizione, beninteso, che non ha nulla a che vedere con il tradizionalismo, che è un attaccamento ideologico a un passato che non esiste più e che si vorrebbe vanamente riesumare. «Chi pretendesse di distruggere il passato per una affermazione presuntuosa di se stesso non amerebbe né l’uomo né la sua ragione – scrive Giussani -. E, infatti, un presente così ridotto finisce in “nulla” (nichilismo), cedendo l’uomo alla tentazione di credere che la realtà non esista. E questo è come un veleno instillato nelle vene dell’uomo dal padre della menzogna: una volontà di negare l’evidenza che qualcosa c’è». Eppure l’uomo, continua l’articolo, «non può negare l’evidenza di un impeto irriducibile che costituisce il suo cuorecome tensione a una pienezza, a una perfezione o soddisfazione». È a questo uomo che «ora, proprio dal passato giunge una notizia: il Mistero, ciò che i popoli chiamano “Dio”, ha voluto comunicarsi a tutti gli uomini come un uomo, dentro un pezzo di tutta la realtà. Noi sappiamo – sottolinea Giussani – quanto gli uomini del nostro tempo cerchino anche inconsapevolmente un luogo in cui riposare e vivere rapporti in pace, cioè riscattati dalla menzogna, dalla violenza e dal nulla in cui tutto tenderebbe altrimenti a finire. Il Natale è la buona notizia che questo luogo c’è, non nel cielo di un sogno, ma nella terra di una realtà carnale».
Potete leggere di seguito l’articolo completo.
Buon Natale e buon 2026 a tutti i nostri lettori! L’appuntamento con la newsletter «Fissiamo il pensiero» riprenderà domenica 11 gennaio.
Un luogo in cui riposare e vivere rapporti in pace
di Luigi Giussani – da la Repubblica – 27 dicembre 1997
Caro direttore, leggendo Gramsci avevo scoperto questo pensiero: «Un periodo storico può essere giudicato dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa… Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente» (A. Gramsci, Quaderni, XXVIII). Sembra un canone della Chiesa cattolica. Gramsci dice il vero: la grande alternativa per la vita di un uomo e di un popolo è, infatti, tra ideologia e tradizione. L’ideologia nasce in qualsiasi momento come novità che si impone a prescindere dal passato (e questo non può che diventare un’inevitabile possibilità di andare contro il passato). La tradizione è proprio nella eredità del passato che trova certezza per il presente e speranza per il futuro. Chi pretendesse di distruggere il passato per una affermazione presuntuosa di se stesso non amerebbe né l’uomo né la sua ragione. E, infatti, un presente così ridotto finisce in «nulla» (nichilismo), cedendo l’uomo alla tentazione di credere che la realtà non esista. E questo è come un veleno instillato nelle vene dell’uomo dal padre della menzogna: una volontà di negare l’evidenza che qualcosa c’è.
Ora, proprio dal passato giunge una notizia: il Mistero, ciò che i popoli chiamano «Dio», ha voluto comunicarsi a tutti gli uomini come un uomo, dentro un pezzo di tutta la realtà. Si chiama «Natale» l’iniziale attuarsi del metodo con cui il Mistero si manifesta comunicandosi nella vita: l’incarnazione di Gesù di Nazareth, come risposta all’attesa di ogni cuore umano in tutti i tempi che ha avuto la prima e più dignitosa intuizione nel genio ebraico. Nella sua concreta umanità Gesù non poteva vivere se non in una casa dove c’era un letto, dove c’erano tavoli e sedie, dove c’erano un padre e una madre: la casa di Nazareth, una presenza integralmente umana in cui c’è Dio – questa è l’origine della «pretesa» cristiana –, la Bibbia la chiama «dimora» o «casa di Dio». E noi sappiamo quanto gli uomini del nostro tempo cerchino anche inconsapevolmente un luogo in cui riposare e vivere rapporti in pace, cioè riscattati dalla menzogna, dalla violenza e dal nulla in cui tutto tenderebbe altrimenti a finire. Il Natale è la buona notizia che questo luogo c’è, non nel cielo di un sogno, ma nella terra di una realtà carnale.
Negare la «possibilità» che questo sia vero in nome di un preconcetto non è da uomini ragionevoli.Se, infatti, la ragione può intravedere la possibilità di un significato dell’infinita fatica del vivere – e per chiunque almeno in qualche momento questo è stato evidente –, è più dignitoso per l’uomo cercare questo significato o rinunciarvi, preferendo quella che Pasternak chiamava «la sterile armonia del prevedibile», cioè una vita ultimamente annoiata? C’è un verso di Rainer Maria Rilke da cui parto spesso per una meditazione su di me: «E tutto cospira a tacere di noi/un po’ come si tace/un’onta, forse, un po’ come si tace/una speranza ineffabile». Se l’uomo guarda a se stesso, ha vergogna e noia, ha vergogna fino alla noia, eppure non può negare l’evidenza di un impeto irriducibile che costituisce il suo cuore come tensione a una pienezza, a una perfezione o soddisfazione. Io credo che Dio si sia mosso proprio per essere risposta a questa realistica percezione – a mio avviso l’unica realistica percezione che l’uomo possa avere di se stesso se si pensa con attenzione e tenerezza materna –, all’uomo che ha vergogna o noia di se stesso. Per questo io umano che trova in sé, da una parte limiti coi quali è connivente e, dall’altra, quel grido che è nel suo cuore, quell’attesa che è nel suo animo, Dio si è «mosso» per liberarlo dalla noia di se stesso e dal peso di quel limite che si trova dentro in tutto quello che fa. Per questo dico spesso che il cristianesimo ha una partenza pessimistica circa l’uomo – non per nulla parla di peccato originale come del primo mistero senza il quale non si spiega più niente della contraddizione in cui l’uomo cade inesorabilmente –, ma finisce in un ottimismo profondo e impegnativo, poiché Dio ha preso la realtà di un uomo vero, un uomo concepito nel ventre di una donna, che si è sviluppato come un infante, un bambino, un fanciullo, un adolescente, un giovane, fino a diventare centro di attenzione della vita sociale del popolo ebraico, fino a trascinare le folle e fino ad averle contro di sé per l’atteggiamento di chi aveva il potere in mano, fino ad essere crocifisso, ucciso. E fino a risorgere dalla morte, per una pietà profonda come di padre verso la situazione disperante dell’uomo. O come «grazia» dell’onnipotente Mistero.
Mercoledì sera la Rai ha mandato in onda il monologo di Roberto Benigni «Pietro, un uomo nel vento». Un racconto travolgente della storia dell’apostolo Pietro e del suo incontro con Gesù. «Le cose più importanti della vita non si apprendono e non si insegnano, si incontrano», ha detto Benigni. Un racconto non fatto da un uomo di chiesa, ma da una persona come il comico toscano visibilmente affascinato da quella storia, con una forza di immedesimazione che non può non sorprendere. Su questo vi invitiamo a leggere l’articolo di Lucio Brunelli pubblicato su Avvenire che insieme al caso di Benigni ricorda anche quello dello scrittore spagnolo Javier Cercas che ha raccontato in un libro bellissimo, «Il folle di Dio alla fine del mondo» (lo avevamo segnalato fra le nostre proposte di lettura la scorsa estate), il suo viaggio con Papa Francesco in Mongolia. Benigni e Cercas, «due artisti dalla biografia totalmente estranea al mondo ecclesiale», i cui racconti sinceri «toccano la mente e il cuore, aprono a una domanda». «Il commovente monologo del premio Oscar, Benigni, e il sorprendente romanzo di Cercas – continua Brunelli – si spiegano con l’innata genialità di questi due artisti e con la fantasia della Grazia, che opera come vuole, quando vuole e in chi vuole. Sono al contempo anche il frutto di una mutata immagine della Chiesa nella considerazione pubblica. C’è forse meno pregiudizio, più simpatia, più disponibilità all’ascolto». Soprattutto si presagisce il fascino di un’umanità più vera. L’annuncio del Natale ormai vicino risponde a questa attesa di verità, di bellezza, di felicità che è nel cuore di ogni uomo a patto di essere leali con se stessi. Quel Natale che oggi appare spesso soffocato da una quantità di orpelli inutili, da noiosi riti consumistici, da evasione e distrazione di massa, da un intrattenimento vuoto e stordente. Eppure dissotterrare l’attesa profonda che è in noi, riportarla in primo piano, è il primo passo per farsi sorprendere da qualcosa che sia veramente attraente, all’altezza del desiderio infinito della nostra umanità.
Martedì 2 dicembre si è concluso il viaggio di Leone XIV in Turchia e in Libano, il primo del nuovo papa. Un viaggio carico di significati, spesso del tutto ignorati nei servizi dei telegiornali e nei resoconti di molti quotidiani. Significati su cui vogliamo invece soffermarci nella nostra newsletter di oggi proponendovi la lettura di due articoli. Il primo tratto da il Foglio è dedicato alla tappa del papa a Nicea, sulle rovine dell’antica basilica, a 1700 anni dal concilio che là definì il Credo che ancora oggi viene recitato ogni domenica nella messa. Stabilì un punto fermo sconfessando le posizioni ariane che negavano la natura divina di Gesù. Ma, ha sottolineato papa Leone, «se Dio non si è fatto uomo, come possono i mortali partecipare alla sua vita immortale? Questo era in gioco a Nicea ed è in gioco oggi: la fede nel Dio che, in Gesù Cristo, si è fatto come noi per renderci partecipi della natura divina». Non è una questione che riguarda secoli molto lontani. Il papa ha parlato infatti del rischio di un arianesimo di ritorno quando Gesù viene ridotto a una sorta di «leader carismatico o di superuomo». Il secondo articolo, di Andrea Tornielli dal sito Vatican News, riguarda la parte libanese del viaggio papale. Il Libano, caso unico nel Medio Oriente tormentato da guerre e terrorismo, da lacerazioni profonde e da contrapposizioni radicali, è un paese in cui ancora oggi convivono fedi diverse. È un segno che non è inevitabile arrendersi alla guerra e all’odio. È un paese che documenta concretamente che ci sono le condizioni, sia pur tra mille difficoltà, per affermare la pace.
«Quando le persone smettono di leggere – di dare un senso al testo su una pagina – perdono anche la capacità di dare un senso al mondo. In gioco c’è nientemeno che il destino dell’umanità, data l’intima connessione tra la parola scritta e la civiltà stessa». Lo scrive l’economista e saggista britannico Niall Ferguson in un articolo pubblicato il 16 novembre sul quotidiano inglese The Times di cui vi invitiamo a leggere una sintesi sul nostro sito. Un intervento che segue di qualche giorno un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera nel quale veniva evidenziato «il progressivo abbandono della lettura», in questo caso riferito al nostro paese. «Qui ne va davvero dell’avvenire del Paese – scriveva -, della qualità civile e umana degli italiani. Solo la lettura risveglia la mente, alimenta l’intelligenza, rende liberi. Tutte cose di cui c’è un gran bisogno». Il 22 novembre è stato invece Papa Leone a richiamare l’importanza della lettura «oggi più che mai». Leggere aiuta ad «unire mente, cuore e mani».
Apparentemente il crollo della lettura può risultare un dato del tutto secondario rispetto ad altri problemi più impellenti, in realtà rappresenta una regressione pericolosa che mina la stessa libertà delle persone come segnala Ferguson. Nel nostro piccolo ci sembra interessante l’esperienza fatta in questi anni come Fondazione San Benedetto, soprattutto attraverso il Mese Letterario ma anche con la nostra newsletter domenicale, nel far appassionare alla lettura di grandi autori come di articoli dalla stampa o di testi significativi. Per molti è stato anche un percorso di riaffezione «per contagio» all’esperienza della lettura. Una strada sulla quale intendiamo continuare.