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Angela Merkel, un Churchill a Berlino

  • Data 28 Febbraio 2021

“Merita la libertà solo chi deve riconquistarla ogni giorno” J.W. Goethe, “Faust”

 

In quell’ormai lontano 2002 (distanza dilatata dagli enormi eventi successivi), l’America si stava appena riprendendo dallo choc dell’11 settembre, l’Europa introduceva una moneta senza stato chiamata euro e la Germania viveva un dilemma davvero poco drammatico, anche se foriero di inattese conseguenze: chi aveva tagliato i capelli a Frau Merkel? Ben due coifffeur di grido si dividevano l’onore: Martina Acht e Udo Walz che, da Marlene Dietrich a Claudia Schiffer, non si era fatto mancare nessuna delle più belle teste tedesche. Il quotidiano del popolo, fondato dal ricchissimo Axel Springer il principe nero degli editori, soffiava sul fuoco. E giù a criticare: il caschetto non le dona, l’ombra mascolina sul viso tondo e luminoso, non basta per farne un leader, tanto più dopo l’onta del parricidio, la rovinosa caduta del suo mentore, quella montagna (fisica e politica) chiamata Helmut Kohl da lei liquidato con fredda determinazione.

Tutto era cominciato proprio quando la Bild, in occasione della visita di George W. Bush a Berlino, aveva rivelato che Angela Merkel presidente dell’Unione Cristiano Democratica, nonché capo parlamentare della coalizione Cdu-Csu, aveva cambiato look. Ma come, lei che non metteva mai nemmeno il rossetto? Ebbene sì, lo scoop venne confermato dalla diretta interessata e allora apriti cielo. Anche quella donna che sembrava tanto speciale, nata ad Amburgo, ma cresciuta all’est, che aveva addirittura sfilato con le giovani marmotte comuniste, la figlia del pastore Horst Kasner, laureata a pieni voti in Fisica e destinata a una luminosa carriera scientifica, divorziata (Merkel è il cognome del primo marito Ulrich, sposato nel 1977 quando aveva 23 anni) e a lungo convivente con Joachim Sauer, professore famoso e fascinoso, docente di Chimica quantistica a Heidelberg; insomma anche lei alla fine si rivelava come tutte le altre, normale proprio come la Germania del nuovo millennio. Quella stessa Germania che un tempo pensava di possedere un destino tanto singolare da sussumere in sé lo spirito del tempo, il super stato che aveva provocato due guerre mondiali e sperimentato nei suoi confini prima gli orrori nazisti poi la dittatura comunista, la nazione che aveva conosciuto la libertà, l’aveva rinnegata e poi riconquistata, una volta scesa dal piedistallo della storia rischiava di finire nelle mani di una donna color pastello come i suoi improbabili tailleur pantalone, la quale per di più frequentava le star di trucchi e parrucchi. Ebbene vent’anni e molte complicate vicende dopo, la guida normale di un paese diventato normale, è stata capace di sorprendere ancora una volta tutti, compresi i suoi compatrioti.

Nell’ora più buia molti vorrebbero assumere le sembianze di Winston Churchill. Lo volle, disperatamente volle, Boris Johnson il quale all’eroe della Seconda guerra mondiale aveva dedicato una biografia che voleva essere un’autobiografia. Invece, s’è visto com’è finito. Ha tentato anche Giuseppe Conte. Ma ogni tardo imitatore del solenne giuramento del leader inglese (“lacrime, sudore e sangue”) ha dovuto poi ammettere che l’unico altro Churchill nel bel mezzo di questa tragedia paragonabile a un’altra guerra mondiale, è una donna e non risiede a Londra bensì a Berlino. Fra un anno dovrebbe ritirarsi dalla politica, questo l’impegno preso nel 2018 dopo la sconfitta in Assia. Pochi a questo punto ci credono.

Lunedì scorso, quando la Germania è entrata in un semi lockdown che durerà per tutto novembre, Angela Merkel non ha taciuto la verità: “Abbiamo quattro lunghi mesi invernali davanti a noi. La luce alla fine del tunnel è abbastanza lontana. Se ci comporteremo secondo ragione, allora potremo permetterci più libertà. Non credo che ci potranno essere grandi e rumorose feste di Capodanno. Sarà invece un Natale condizionato dal coronavirus, ma non dovrà essere un Natale in solitudine. Ogni persona ha il potere di trasformare questo mese di novembre in un successo di tutti, un punto di svolta verso il tracciamento della pandemia”. La cancelliera può contare su una gestione del Covid19 senza dubbio più virtuosa di molti paesi. Grazie alla capienza degli ospedali, doppia della media europea, e alla disciplina che in realtà andrebbe tradotta come senso civico e spirito di collaborazione. In una Repubblica federale dove i Länder hanno poteri ben più forti delle regioni italiane, non sono mancate le divisioni, le polemiche, tra autorità locali e centrali, sono fioccate le critiche e le impennate autonomiste. Nulla di tutto questo, però, s’è trasformato in conflitto istituzionale, le divergenze sono state ricomposte secondo quella cultura cooperativa che è una delle componenti più importanti della nuova Germania. Mitbestimmung, compartecipazione, nelle aziende come in politica. Il conflitto non viene represso né evitato, ma gli opposti vengono condotti verso la loro sintesi trovando compromessi di volta in volta aggiustabili. Un luogo comune definisce pragmatici gli inglesi i quali, invece, si sono divisi per ragioni ideologiche (si pensi alla Brexit). I veri pragmatici del nuovo secolo, in realtà, sono proprio i tedeschi. Conseguenza delle laceranti ferite della storia, senza dubbio. Quando si parla di “sindrome di Weimar” non ci si riferisce solo all’iperinflazione, che venne domata in pochi anni, ma soprattutto alla instabilità politica e alle lotte intestine. L’economia sociale di mercato, la formula adottata con il ritorno della democrazia, partorita dalla classe dirigente cristiano conservatrice, ma fatta propria anche dai socialisti, è la risposta alle ferite del Novecento.

Torniamo ad Angela Merkel e al suo singolare cammino. Non troviamo nessuna “infanzia di un capo”, non ha mangiato pane e politica, fino al compimento di trent’anni non c’è abbastanza materiale biografico per scrivere un interessante Bildungroman del quale i tedeschi sono maestri. La folgorazione avviene sulla via di Berlino nel 1989 quando la Ddr vacilla e lei si avvicina a un gruppo moderatamente liberale. E’ stato raccontato più volte che la caduta del Muro la colse alla sprovvista il 9 novembre, quando, uscendo dalla sauna del giovedì, incappò in una folla vociante che si dirigeva a ovest. Lei, sorpresa, smarrita, si unì a quel popolo che poi una dozzina d’anni dopo avrebbe cominciato a guidare. Il suo Pigmalione si chiama Lothar de Maizière ultimo capo della Repubblica democratica tedesca, del quale era diventata portavoce nel 1990, ma a portarla sul proscenio fu Kohl, alla ricerca di volti nuovi ancor più se venivano da “oltre cortina”. Anche per questo ha sorpreso tutti il modo in cui Angela Merkel ha lasciato al suo destino il cancelliere della riunificazione accusato di aver incamerato una bustarella di due milioni di marchi versati illecitamente da un uomo d’affari vicino alla Cdu. Una volta capito che il suo maestro si era messo nei guai, ha cavalcato la rottamazione del vecchio gruppo dirigente conquistando così la presidenza, prima donna al vertice di un partito conservatore in tutto e per tutto. Senza essere affatto una Margaret Thatcher. Priva di una precisa dottrina, prudente e meditativa fino a diventare incerta e zigzagante, piena di dubbi e debolezze come mostrò quando, alla sua prima esperienza di governo come ministro dell’Ambiente, ripresa da Kohl per aver preso una decisione senza consultare i suoi colleghi, scoppiò a piangere in pubblico.

I primi anni furono difficili, ancor più quando nel 2005 si trovò a guidare la sua prima Grande coalizione. Allora era chiamata a fare l’infermiera, a fasciare di bende la malata d’Europa (copyright dell’Economist). Il lavoro sporco da chirurgo lo aveva svolto nel quadriennio precedente Gerhard Schröder il capo della Spd che ora sedeva al suo fianco come vicecancelliere. Le riforme, in particolare quelle del mercato del lavoro, gli avevano fatto perdere le elezioni, gli avevano inimicato i potenti sindacati e buona parte della base, e non avevano dato i frutti sperati. A far maturare la semina è proprio Angela, che i tedeschi cominceranno a chiamare per nome (poi diventerà Mutti, mamma, un appellativo introdotto grazie ai suoi buoni rapporti con la stampa sotto l’attenta regia dell’amica e consigliera Beate Baumann). Prima, però, dovrà emanciparsi da Wolfgang Schäuble. Era destinato alla successione di Kohl, ma lo scandalo dei finanziamenti al partito lo aveva trascinato nella polvere. La Merkel non lo aveva certo aiutato anche se poi, per riparare, lo ha portato con sé al governo dove è rimasto per ben 12 anni, prima agli interni poi alle finanze.

Una mossa importante è stata la nomina di Jens Weidmann alla presidenza della Bundesbank nel 2011. Il giovane economista era il consigliere fidato al quale Angela, digiuna di economia, si affidava, una personalità forte abbastanza da riequilibrare il peso di Schäuble senza per questo mettersi di traverso (anzi la sostanziale sintonia tra i due è stata un ingrediente di successo). Non c’è dubbio che il ministro delle Finanze ha avuto un ruolo prevalente durante la crisi finanziaria, fino all’esplodere del bubbone greco e all’attacco dei mercati ai debiti sovrani. In sostanza fino al 2012. Fu Barack Obama a premere con forza sulla Merkel affinché non abbandonasse la Grecia. E a quel punto Angela diede il primo forte segnale della sua capacità di leadership anche sul piano internazionale. Si è discusso fino alla nausea degli errori commessi allora, soprattutto nella prima fase tra il 2010 e il 2011, se ne discuterà ancora a lungo e continueranno ad accapigliarsi i fautori dell’austerità e i tardo keynesiani, con in mezzo i sovranisti che stanno con gli uni o con gli altri a seconda delle convenienze. Tuttavia è chiaro che il 2012 va considerato l’anno cruciale culminato il 26 luglio nelle fatidiche parole di Mario Draghi: “Whatever it takes”, faremo tutto quel che è necessario per salvare la moneta unica europea. Un colpo alla speculazione, un sonoro rintocco della campana per i politici riluttanti, non solo quelli tedeschi. Fu una mossa concordata? Fioccano le ricostruzioni, ma una cosa sembra chiara: senza il sostegno di Angela Merkel le parole del presidente della Bce non avrebbero avuto la forza, il peso, il seguito necessario. Il bastian contrario Weidmann che non ha mai avuto nessuna remora a votare contro Draghi, quella volta si allineò pur sapendo dove avrebbe portato la svolta: stampare moneta a go go e riempirsi di titoli di stato invendibili sul mercato.

La seconda grande prova è arrivata nel 2015 con l’onda di rifugiati e migranti innescata dalla guerra in Siria.

Matthew Qvortrup che insegna all’Università di Coventry, uno di maggiori esperti della Germania, nella più recente e completa biografia in lingua inglese intitolata Angela Merkel, scrive che a quel punto la cancelliera ha rivelato fino in fondo se stessa, le sue convinzioni, il suo animo, pagando un prezzo, in modo pienamente consapevole, e mostrando grande forza di carattere. Il politologo la definisce un po’ Madre Coraggio, un po’ Machiavelli, anzi Merkiavelli come l’hanno marchiata i suoi oppositori. La Germania ha accolto oltre un milione di profughi e migranti, tra il mugugno della Cdu, l’ostilità della Csu, la sospetta perplessità della Spd, lo strepito di Alternative für Deutschland e la violenta opposizione della destra più estrema. La sostennero solo i Verdi verso i quali lei aveva mostrato simpatia e appoggio quando nel 2011 decise (con scelta improvvisa e radicale) che la Germania sarebbe uscita dal nucleare. Allora l’opinione pubblica, terrorizzata dall’incidente di Fukushima, comprese, anzi fu favorevole, adesso era ben diverso. La ricaduta della bomba migranti poteva essere peggiore per i suoi effetti politici della stessa bomba nucleare. Alle elezioni successive la Cdu prese una vera batosta, ma Angela Merkel rimase a galla ripetendo il suo slogan: “Wir schaffen das”, ce la facciamo.

In molti, in troppi, avevano pensato che la Kanzlerin fosse un peso leggero, senza vere radici intellettuali oltre che politiche, vista la sua provenienza. E per molti versi si è rivelata un concentrato di contraddizioni: fragile e timida, pragmatica fino all’opportunismo, alla ricerca ostinata del consenso da perseguire anche prendendo tempo per smussare gli angoli e spegnere le passioni, eppure determinata, tenace, persino inflessibile una volta arrivata alla decisione finale, per quanto sofferta. Abituata ad analizzare, sperimentare, verificare senza lanciarsi in voli palingenetici, Angela Merkel è dotata di un talento che solo i grandi politici posseggono: intuire quando arrivano le svolte della storia per utilizzarle dopo aver capito dove conducono. Lo scandalo che travolse Kohl, il risanamento economico del suo paese, il salvataggio dell’euro appoggiando Draghi, l’occasione offerta dalla invasione russa in Ucraina per esercitare un ruolo diplomatico di primo piano che la Germania non aveva mai avuto, la crisi dei migranti che ha affrontato con un afflato etico prima rimasto tra le righe. Ora, la pandemia è un altro appuntamento al quale la Cancelliera non si è sottratta. “La Germania sotto la Merkel è diventata uno stato social liberale basato su valori ecumenici cristiani”, scrive Qvortrup. L’Europa ha una leader che, non dimentichiamolo, ha collocato al vertice della commissione un’altra donna, Ursula von der Leyen diversa da lei per cultura e lignaggio, ma con la quale condivide valori e scelte. Figlia di un politico tedesco che svolse un ruolo di primo piano in Europa, Ursula è una perfetta Wessie (come vengono chiamati i tedeschi occidentali), ha trascorso l’infanzia in Belgio e parla un ottimo francese. Angela resta per molti versi una Ossie, una donna dell’est, e la sua seconda lingua è il russo. Tra Parigi e Mosca ha oscillato per secoli la sorte dei tedeschi anche quando non erano uniti. E adesso? La cancelliera ha segnato con chiarezza la rotta all’interno dell’Unione, non per creare un’Europa tedesca, ma per una Germania pienamente e consapevolmente europea che non faccia né da maestra né da guida, ma dia sostegno e serva semmai da esempio. Se è così, dovremmo aiutarla, nel nostro interesse e in quello dell’Europa.

Stefano Cingolani

da Il Foglio – 7 novembre 2020

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