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Per non accontentarsi di tornare alla normalità

  • Data 13 Giugno 2021

«Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla». Il copyright è di papa Francesco e non mi ha stupito che don Julián Carrón sia partito proprio da lì. Il teologo spagnolo è in libreria con C’è speranza? Il fascino della scoperta (Editrice Nuovo Mondo), un volume che fa i conti con le domande che la pandemia ha suscitato in noi e che sono state al centro degli Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione del 2021. Verrebbe voglia di contarle perché persino la banale quantità ci darebbe il segno della profondità delle riflessioni che abbiamo maturato in quest’anno di travaglio e che trovano una sintesi in questa formula: la pandemia ha interrogato la modernità. L’ha fatto molto più delle crisi precedenti.

Ci siamo abituati a chiamare Grande Crisi la doppia recessione degli anni tra il 2008 e il 2015 e abbiamo scelto quel nome per indicare il suo impatto economico. Ma con il senno di poi dovremmo ammettere che da essa abbiamo appreso molto poco — l’abbiamo sprecata, direbbe papa Bergoglio — e la mole di riflessioni che ha generato non ha coinvolto nella giusta misura la dimensione antropologica. Il dibattito di oggi, seppur più giovane, sembra invece più ricco: a cominciare dalla presa di coscienza che tra il virus e il climate change c’è un legame seppur indiretto. O ancora: abbiamo maturato una consapevolezza dell’importanza dei nostri corpi, di cui ormai sembrava interessarci solo il versante estetico. E ci siamo accorti che la scienza non è una verità ma un processo, con tutte le conseguenze del caso. «Avendo paura del rischio cerchiamo di tamponare tutto» riassume Carrón e la parola rischio ci porta alla lezione del sociologo più coerente nell’indagare le contraddizioni della seconda modernità, il tedesco Ulrich Beck.

Leggendo il libro ho apprezzato da subito lo sforzo di rivolgersi a tutti, di non cercare solo platee amiche e lo dimostra l’ampio materiale selezionato dall’autore per costruire un lessico comune. In fondo tutta la tessitura del saggio è orientata a trovare convergenze, a utilizzare l’intero spettro del pensiero contemporaneo al fine di fornire risposte. E troviamo citazioni che a prima vista possono risultare sorprendenti come quelle di Brecht, Houellebecq, Montale, Vargas Llosa e molto Pavese. È proprio una frase dello scrittore piemontese che dà la chiave di lettura di uno dei passaggi più fecondi dell’elaborazione di Carrón. «Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettare niente che è terribile». E non si può non pensare a quante volte nel mondo prepandemico avessimo smesso di aspettare perché carichi di «uno scetticismo preventivo verso ciò che supera la nostra misura». Attesa è, dunque, una parola chiave di Carrón e ci spinge a non accontentarci del ritorno alla normalità. Non sarà il vaccino che potrà rispondere a tutte le domande, «non riuscirà a dissolvere la nebbia della nostra infelicità», per dirla con Susanna Tamaro.

Se l’autore si concentra sull’individuo che aspetta, viene da aggiungere che anche le società si interrogano, invocano soluzioni tecniche sul piano sanitario insieme a risposte ai problemi dell’umano assai più complicate da elaborare persino se parliamo di smart working, figuriamoci se scendiamo in profondità fino al dolore e alla morte. Ma quello che è ancor più interessante nella trama di Carrón è che l’attesa si presenta come una condizione di apertura al punto da scrivere «attraverso la crepa entra la luce». Mi sono chiesto quanti laici sarebbero disposti a sottoscrivere questa frase e se la tessitura di un lessico comune non sia destinata a interrompersi proprio qui. L’autore la elabora perché crede che dal suo imprevisto — la fede — venga la risposta alla domanda se c’è speranza. Il laico invece è costretto a inseguire: l’imprevisto lo stressa e lo porta a formulare continuamente previsioni. Più ansiogene sono, più appagano la sbandierata «voglia di futuro», se le sbaglia — come può capitare — le riformula imperterrito. Ha tanta fiducia nel suo metodo che procede di task force in task force nello sforzo di illuminare in anticipo la strada da percorrere. Basta guardare in libreria quanti sono gli studi che si sforzano di spiegare al lettore cosa succederà nel 2030, nel 2050 o persino nel 2100. Ma così non si imprigionano le esperienze, i soggetti e persino la libertà? E non si finisce per sprecarla davvero questa crisi?

Dario Di Vico

Corriere della Sera – 9 giugno 2021

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«È innegabile che al fondo di tutto il nostro disagio, di tutta la nostra solitudine, di tutto il nostro malessere, al fondo di tutto questo, sta un ultimo desiderio di bene. Se così non fosse, se non fossimo fatti per questo bene, non proveremmo orrore e disgusto per il male. Ma allora è proprio questo infinito desiderio di bene che ci sfida e in qualunque situazione può riaprire la partita. Perché se gli diamo credito ci costringe ad alzare la testa e a cercare». Lo scrive Emilia Guarnieri, insegnante e per molti anni presidente del Meeting di Rimini, nell’articolo che vi invitiamo a leggere questa settimana, pubblicato pochi giorni fa sul quotidiano online il sussidiario.

Lo scenario in cui si gioca questa sfida è quello di oggi segnato da un’esplosione di violenza insensata che, dalle guerre alle pareti domestiche, sembra non conoscere limiti. Insieme ci sono la crisi delle nostre democrazie liberali e il clima di sfiducia che pervade la società e avvelena le relazioni. In questa situazione pensare che la soluzione sia «staccare la spina» e rifugiarsi in una comfort zone è solo una misera illusione. È una forma di alienazione che stacca la spina prima di tutto da se stessi. L’invito è invece a ripartire dal desiderio di bene che resiste nel cuore di ciascuno, a fargli spazio dentro tutte le contraddizioni e le difficoltà in cui ci troviamo. Questo è anche ciò che ci interessa più di ogni altra cosa nelle proposte che facciamo come Fondazione San Benedetto.

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