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Quell’ultimo desiderio di bene che vince la sfiducia

  • Data 14 Giugno 2025

«È innegabile che al fondo di tutto il nostro disagio, di tutta la nostra solitudine, di tutto il nostro malessere, al fondo di tutto questo, sta un ultimo desiderio di bene. Se così non fosse, se non fossimo fatti per questo bene, non proveremmo orrore e disgusto per il male. Ma allora è proprio questo infinito desiderio di bene che ci sfida e in qualunque situazione può riaprire la partita. Perché se gli diamo credito ci costringe ad alzare la testa e a cercare». Lo scrive Emilia Guarnieri, insegnante e per molti anni presidente del Meeting di Rimini, nell’articolo che vi invitiamo a leggere questa settimana, pubblicato pochi giorni fa sul quotidiano online il sussidiario.

Lo scenario in cui si gioca questa sfida è quello di oggi segnato da un’esplosione di violenza insensata che, dalle guerre alle pareti domestiche, sembra non conoscere limiti. Insieme ci sono la crisi delle nostre democrazie liberali e il clima di sfiducia che pervade la società e avvelena le relazioni. In questa situazione pensare che la soluzione sia «staccare la spina» e rifugiarsi in una comfort zone è solo una misera illusione. È una forma di alienazione che stacca la spina prima di tutto da se stessi. L’invito è invece a ripartire dal desiderio di bene che resiste nel cuore di ciascuno, a fargli spazio dentro tutte le contraddizioni e le difficoltà in cui ci troviamo. Questo è anche ciò che ci interessa più di ogni altra cosa nelle proposte che facciamo come Fondazione San Benedetto.

Online il video sui vent’anni della San Benedetto

A questo link potete rivedere il video dell’incontro che si è svolto lo scorso 29 maggio a Brescia, nel Salone Vanvitelliano di palazzo Loggia in occasione dei vent’anni della Fondazione San Benedetto.


Da Leopardi a Papa Leone XIV, c’è un punto da cui ripartire?

 È innegabile che al fondo di tutto il nostro disagio, di tutta la nostra solitudine, di tutto il nostro malessere sta un ultimo desiderio di bene

di Emilia Guarnieri – da ilsussidiario.net – 9 giugno 2025

Lo diciamo dei giovani: si nascondono, si isolano, si accartocciano tra gli schermi colorati dei loro smartphone e i cappucci neri delle loro tute. Ma noi adulti non siamo da meno. Anche noi abbiamo poca voglia di guardare la realtà, di capire il mondo, di batterci perché le cose vadano meglio. Siamo sempre alla ricerca di una nostra comfort zone in cui rifugiarci. E la cerchiamo in una vacanza, in un viaggio, nello sport, nel benessere fisico, in qualcosa da cui sentirci protetti, che sappiamo gestire, che in qualche modo, almeno per un certo tempo, ci sottragga all’ansia del quotidiano. In questo mondo in cui toppe cose sono brutte, abbiamo sempre più bisogno di “staccare”, come spesso diciamo, ma staccare che cosa? La spina della vita forse? Dei desideri del cuore?

Fare i conti con il lavoro (e ancor peggio i conti con un lavoro che non sempre c’è), con i figli, che il più delle volte facciamo fatica a guardare negli occhi perché portatori di domande che ci spaventano e che non sappiamo affrontare, con un mondo di relazioni che ci appaiono sempre più estranee, quando non ostili, tutto questo ha a che fare con il nostro perenne malessere.

Ma non è solo questo “nostro” privato quotidiano a farci soffrire. È come se il male che dimora nel mondo non smettesse di inseguirci attraverso le continue immagini che i tanti, troppi, schermi da cui siamo circondati, continuano ossessivamente a riproporci. Siamo feriti dall’orrore della guerra, da quelle sofferenze talmente senza limite e senza fine che ci sembra impossibile siano inflitte da uomini ad altri uomini.

È di questi giorni la constatazione costernata del Cardinale Pizzaballa, Patriarca Latino di Gerusalemme, di fronte ai morti per fame, “Devo confessare che sono allibito nel vedere quelle immagini. Non so quali siano le responsabilità nei fatti, forse saranno accertate. Però mai avrei pensato che nel 2025 saremmo arrivati a questo punto e soprattutto a usare la fame come un’arma di guerra”. E nei luoghi delle guerre, così come nelle nostre città, il male non ha sosta. Siamo sconvolti e inquietati da quella violenza insensata, senza limite, che distrugge vittime e carnefici, che contagia persone sempre più giovani, sempre più vicine tra loro, sempre più impensabili.

In questi ultimi decenni ci eravamo illusi che il tema dei diritti potesse rimettere un po’ in sesto il mondo, individuando riferimenti comuni, diritti appunto condivisi. Ma dobbiamo amaramente constatare che non esistono diritti condivisi, perché non esiste un’idea condivisa di ciò che sia buono, giusto, vero. Neppure relativamente a ciò che sia la vita umana. Tutto è ormai consegnato al più tragico relativismo e alla più irragionevole e soggettivistica prepotenza.

Basta guardare le dinamiche internazionali di questi tempi per constatare che anche le più elementari norme del diritto internazionale e umanitario sono relegate in un iperuranio sconosciuto.

Se ci concentriamo poi sull’aria che tira relativamente a punti di riferimento comuni nel nostro Paese, non troviamo segnali positivi. Il Rapporto Censis del dicembre 2024 evidenziava come si stesse assistendo a una “messa in discussione dei grandi valori unificanti del passato modello di sviluppo” e individuava alcuni dati.

Innanzitutto il ritirarsi dalla vita pubblica, con un tasso di astensionismo che alle Europee aveva raggiunto il 51,7%. Aggiungiamo che anche la recente tornata amministrativa di maggio si è attestata sul 56,29%, confermando il 56,32% delle precedenti amministrative. A questo il Censis aggiungeva “la sfiducia crescente nei sistemi democratici”, con il 68,5% degli italiani che ritengono che le democrazie liberali occidentali non funzionino più.

Se a questo, ancora citando il Censis, aggiungiamo un manifesto antioccidentalismo nel 70% degli italiani e il convincimento nel 71,4% che l’Ue sia destinata a sfasciarsi definitivamente e la persuasione nel 51,1% che l’Occidente sia destinato economicamente a soccombere a Paesi come la Cina e l’India, completiamo il quadro di un Paese sfiduciato e sicuramente privo di punti di riferimento cui ancorare quel desiderio di bene che sopito, nascosto, magari anche maltrattato da noi e dagli altri, resta però come segno incancellabile della nostra natura umana.

Può sembrare un paradosso, ma proprio nel momento in cui manca ogni punto di riferimento, possiamo veramente chiederci se la natura ci abbia buttato nel mondo e nella storia per essere succubi di ogni potere di turno (o padroni noi di un qualche potere), o se ci abbia dotato di qualcosa di assolutamente irriducibile che proprio nell’impatto con la realtà vediamo manifestarsi.

Perché anche se ci impaurisce, il dolore e la sofferenza ci commuovono. Anche se non abbiamo il coraggio di muovere un dito, l’ingiustizia comunque ci fa insorgere. Anche se non troviamo parole adeguate di fronte al disagio dei nostri giovani, però la loro ansia ci interroga. Anche se non osiamo sfidare apertamente le tante menzogne della cultura dominante, quello che però non corrisponde alla nostra umanità lo avvertiamo falso.

È innegabile che al fondo di tutto il nostro disagio, di tutta la nostra solitudine, di tutto il nostro malessere, al fondo di tutto questo, sta un ultimo desiderio di bene. Se così non fosse, se non fossimo fatti per questo bene, non proveremmo orrore e disgusto per il male.

“L’anima umana – ci ricordava Leopardi nello Zibaldone – desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, al piacere, ossia alla felicità”. E aggiungeva: “Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché è congenita coll’esistenza, e non può avere fine in questo o quel piacere che non può essere infinito”.

Ma allora è proprio questo infinito desiderio di bene che ci sfida e in qualunque situazione può riaprire la partita. Perché se gli diamo credito ci costringe ad alzare la testa e a cercare. E se in questa ricerca si affacciasse all’orizzonte qualcosa di imprevisto, qualcosa che proprio non avevamo messo in conto? Qualcosa di infinito, come il nostro desiderio? Qualcosa che ha a che fare con il Mistero dell’Essere? I cristiani lo chiamano Spirito Santo. Tanti forse non saprebbero darne definizioni rigorose, ma sanno che nella vita c’è stato un incontro umano a seguito del quale proprio la loro vita è cambiata.

Per tanti è successo quello che con forza domenica mattina papa Leone ha riproposto in Piazza S. Pietro. “Lo Spirito Santo viene a sfidare in noi il rischio di una vita che si atrofizza, risucchiata dall’individualismo”. “Lo Spirito di Dio ci fa scoprire un nuovo modo di vedere e vivere la vita”. “Lo Spirito apre le frontiere nelle nostre relazioni”. “Lo Spirito apre le frontiere anche tra i popoli”.

Non c’è da gonfiare i muscoli, ma solo da accogliere la compagnia del Mistero. Siamo di fronte a una promessa per la vita che merita almeno il rischio di una verifica e la libertà di cercare uomini con i quali accompagnarsi in un cammino.

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piergiorgio

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In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

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