Non leggiamo più. E così la società si sta dissolvendo
Il crollo delle vendite di libri e giornali è un’emergenza. Non sappiamo più argomentare un discorso e parliamo per slogan
di Antonio Socci
da Libero – 11 ottobre 2022
Il sito Artribune ha approfondito i dati Istat relativi ai consumi culturali degli italiani. La situazione è allarmante. La spesa che in media ogni famiglia ha dedicato, nell’arco di un mese, a cinema, teatri e concerti, nel 2019 è stata di 6,23 euro, nel 2020 di 1,70 euro e nel 2021 di 1,57 euro. Alla voce “musei parchi e giardini” – sempre considerando la spesa mensile di ogni famiglia – abbiamo 1,54 euro nel 2019, nel 2020 precipitiamo a 0,67 euro (è stato l’anno del Covid) e andiamo a 1,13 euro nel 2021.
Libri. La spesa media mensile per la narrativa di ogni famiglia è stata di 5,51 euro nel 2019, di 4,68 euro nel 2020 e di 4,96 nel 2021. Alla voce «libri non scolastici diversi da quelli di narrativa» abbiamo 0,10 euro nel 2019, addirittura 0,09 nel 2021 e uno sconcertante 0,04 nel 2021.
Giornali. La spesa media per famiglia, ogni mese, è stata di 3,39 euro nel 2019, di 2,70 nel 2020, di 2,76 nel 2021. Per riviste e periodici andiamo anche peggio: 1,95 euro nel 2019, 1,61 euro nel 2020 e 1,61 nel 2021. Praticamente è la morte della stampa, cioè dei giornali e dei libri. La fine di un’epoca storica.
Ovviamente questi dati non dicono tutto. Perché in Italia ci sono molti eventi culturali gratuiti (concerti in piazza, mostre e spettacoli teatrali), abbiamo visite gratuite ai musei ed è vero che si possono leggere libri e giornali senza acquistarli: in biblioteca o (per i giovani) a scuola e a casa. Inoltre la cultura passa gratuitamente anche per la televisione e per internet (oltreché attraverso il sistema scolastico e universitario). Va pure detto che, negli ultimi anni, le difficoltà economiche hanno avuto un effetto negativo su questo tipo di consumi. Però si tratta di una spesa veramente ridotta al minimo, soprattutto se confrontata con quella per altri beni non essenziali.
LA DOMANDA
La panoramica dell’Istat dunque solleva molte domande. Nella vita di un popolo il Pil non è tutto: la cultura è almeno ugualmente importante. In un suo celebre discorso, del 1968, Bob Kennedy fra l’altro diceva: «Non troveremo mai un fine per la nazione, né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del Prodotto interno lordo». Kennedy faceva notare che il Pil «comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle… Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari… Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei nostri valori familiari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani». La ricchezza di una nazione non è misurabile solo con il Pil. È ricco un popolo che anzitutto conosce e ama la storia da cui proviene, l’arte, la propria civiltà, le città e i paesaggi in cui vive, che ne ricava un’identità e il senso di una missione nel mondo, che è consapevole di sé e del bene che può donare all’umanità e ai posteri.
NON SOLO IL PIL
Il futuro governo di Centrodestra dovrebbe affrontare questi temi con la stessa urgenza con cui affronta quelli economici. Ne va del nostro futuro. Un’altra considerazione. Si diceva che in quei dati si coglie la fine della parola scritta, il tramonto della civiltà del libro e dei giornali. È solo un innocuo passaggio tecnologico? Oppure il formarsi e l’informarsi sui social porta a un depauperamento grave della qualità del dibattito pubblico? Il filosofo Guy Debord, noto autore della Società della Spettacolo, intuì, già in anni lontani, molte dinamiche della società “informatizzata”. Nel suo Commentari sulla società dello spettacolo scriveva: «Il linguaggio binario del computer è anch’esso un’incitazione irresistibile ad accettare in ogni momento, senza alcuna riserva, ciò che è stato programmato così come ha voluto qualcun altro ma che viene fatto passare come l’origine atemporale di una logica superiore, imparziale e totale. Che bel guadagno di velocità e di vocabolario per giudicare ogni cosa! (…) Non sorprende quindi che fin dall’infanzia gli scolari vengano iniziati facilmente e con entusiasmo al Sapere Assoluto dell’informatica, mentre ignorano sempre più la lettura che esige un vero giudizio a ogni riga, e che è anche la sola che può dare accesso alla vasta esperienza umana anti-spettacolare. Perché la conversazione è morta e ben presto lo saranno anche molti che sapevano parlare».
LOGICA BINARIA
La “conversazione” va intesa anche in senso sociale. Non è forse vero che il discorso pubblico si è ormai incartato nella nefasta logica binaria dei social e, come abbiamo visto anche in questi mesi, tale semplificazione fa perdere la consapevolezza della complessità dei problemi, rendendoci incapaci di argomentare e quindi di dialogare? Parliamo per stereotipi, pregiudizi e slogan (oltreché con insulti). Qualcosa di simile scrive anche Michel Houellebecq nella sua ultima pubblicazione, Interventi, a proposito dei libri: «Un libro può essere apprezzato solo lentamente; implica una riflessione (non tanto nel senso dello sforzo intellettuale, quanto nel senso del tornare indietro); non c’è lettura senza una pausa di riflessione, senza movimento inverso, senza rilettura. Cosa impossibile, e persino assurda, in un mondo in cui tutto evolve, tutto fluttua». Lo scrittore francese spiega: «Minati dall’assillo ormai logoro del politically correct, travolti da un flusso di pseudoinformazioni… gli occidentali contemporanei non riescono più a essere lettori; non riescono più a soddisfare l’umile domanda contenuta in un libro posato davanti a loro: quella di essere semplicemente degli esseri umani pensanti e senzienti in prima persona. A maggior ragione», aggiunge Houellebecq, «gli stessi non possono svolgere un ruolo analogo di fronte a un altro essere». In questa «dissoluzione dell’essere» che è “tragica”, secondo lo scrittore francese, «ciascuno continua, mosso da un rimpianto doloroso, a chiedere all’altro ciò che non può essere: a cercare, come un fantasma cieco, quel tanto di essere che non trova più in se stesso. Quella resistenza, quella permanenza, quella profondità. Da qui l’inevitabile fallimento di ognuno; e la solitudine, che è qualcosa di atroce». C’è da riflettere. Per i popoli, come per gli individui, l’essere viene prima dell’avere.
Per approfondire
Michel Houellebecq: solo la letteratura funziona
La lectio magistralis dello scrittore francese in occasione del conferimento della laurea honoris causa all’Università degli Studi di Enna – 15 giugno 2022
Il fatto che si renda omaggio agli scrittori mi ha sempre stupito. Con una costanza incresciosa, gli autori migliori ci descrivono unanimemente un mondo senza speranza, devastato dall’infelicità, popolato da esseri umani il più delle volte mediocri e talvolta apertamente malvagi. In questo mondo, la felicità, la virtù e l’amore non trovano posto, non sono di casa; appaiono solo come piccole isole sorprendenti, quasi miracolose, in mezzo a un oceano di sofferenza, indifferenza e male.
Peggio ancora, gli autori stessi sono molto spesso maniaci del sesso, a volte pedofili, quasi sempre alcolisti, e talvolta consumatori di altre droghe ancora più pericolose; io, per esempio, ho da più di quarant’anni una forte dipendenza dal fumo. Se hanno bisogno di tutto questo per riuscire a sopportare l’esistenza, è perché la loro visione del mondo – della quale cercano, come meglio possono, di renderci partecipi – è una visione di desolazione e orrore.
Se le cose stanno così, è davvero legittimo ricompensare queste persone additandole all’ammirazione della gente?
Sì.
La letteratura non contribuisce per nulla all’aumento delle conoscenze, né al progresso morale dell’umanità; ma contribuisce in modo significativo al benessere umano, e lo fa in un modo che nessun’altra arte può rivendicare.
Eppure la sessualità, e ancor più la gola, interessano solo aree limitate del corpo umano; il dolore, invece, che in genere scopriamo più tardi e che impariamo a conoscere sempre meglio con l’avanzare dell’età, può colpire qualsiasi parte del corpo, la varietà delle sofferenze che sopportiamo è enorme; non c’è alcun dubbio, purtroppo: la sofferenza è più ricca e più varia del piacere.
Non credo nella paura della morte. Ricordo il ragionamento di Epicuro: quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la morte noi non siamo più; non incontreremo mai la morte, non abbiamo nulla in comune con lei. È un ragionamento semplice, convincente e corretto. La sola paura che possiamo avere è quella della morte degli altri, di quelli che ci sono cari. E la sola paura che abbiamo per noi stessi è la paura di soffrire. La Rivoluzione francese è stata di una ferocia spaventosa; in certi periodi, le persone venivano letteralmente ghigliottinate in serie. La mia tesi è che, nella fila di quelli che «aspettavano il loro turno», come dice Pascal, nessuno aveva paura della morte, tanto più che quasi tutti all’epoca erano cattolici, convinti che avrebbero raggiunto immediatamente il Creatore. Tutti, però, avevano paura di quel momento terrificante, quel momento inedito in cui la lama avrebbe tagliato il collo fino a staccare la testa dal corpo. Ebbene, nella fila di quelli che «aspettavano il loro turno», ce n’erano parecchi che leggevano; e tra quelli che leggevano, come attestano numerose testimonianze, alcuni, subito prima d’essere afferrati dagli aiutanti del boia ed essere trascinati al patibolo, misero il segnalibro alla pagina esatta dove erano rimasti – tutti i libri, a quel tempo, avevano un segnalibro.
Cosa significa, in simili circostanze, mettere il segnalibro? Può significare solo una cosa: mentre leggeva, il lettore era talmente assorto nel libro da aver completamente dimenticato che di lì a pochi minuti sarebbe stato decapitato. Cos’altro, oltre a un buon romanzo, potrebbe produrre quest’effetto? Niente.
Ci sono poche probabilità che nel prossimo futuro si verifichi una nuova Rivoluzione francese, ancora di meno delle probabilità che Jean-Luc Mélenchon perda le elezioni legislative di domenica prossima. Ma c’è un’altra situazione, anch’essa abbastanza angosciante, che si è molto ampliata nell’ultimo secolo, e che è destinata ad ampliarsi ulteriormente: quella degli esami medici. Un secolo fa avevamo solo la radiografia, i raggi X; ora abbiamo la TAC, la risonanza magnetica e altre cose ancora più recenti. Va benissimo, la medicina fa progressi. Ma le persone si trovano a dover affrontare, e sempre più spesso con l’avanzare dell’età, situazioni in cui attendono i risultati di esami da cui dipenderà la loro vita nei mesi, o addirittura negli anni successivi, e da cui potrebbe dipendere anche il tempo che resta loro da vivere.
Ci si trova lì, in sala d’attesa, forse per un’ora, forse per due, è normale, i medici hanno bisogno di tempo per interpretare i risultati.
Cosa si può fare in una situazione del genere? Esattamente la stessa cosa che facevano gli aristocratici condannati alla ghigliottina: leggere.
La musica non va bene, la musica coinvolge troppo il corpo, che si cerca per l’appunto di dimenticare. Le arti plastiche sono del tutto fuori luogo. E anche il cinema, perfino se si tratta di un thriller appassionante, non è sufficiente.
Ci vuole un libro, quindi; ma la cosa è ancor più difficile: non tutti i libri sono adatti. Né la filosofia né la poesia fanno al caso nostro. Un’opera teatrale, sì, al limite; ma la cosa migliore è avere sottomano un buon romanzo. In ogni caso, ci vuole necessariamente una narrazione, preferibilmente di fantasia, perché la biografia non raggiunge mai la potenza del romanzo.
Quando ero giovane, pensavo che la poesia fosse un genere letterario superiore a tutti gli altri; lo penso ancora, in una certa misura. È vero che l’associazione del suono e del significato, cui si aggiunge talvolta l’evocazione di certe immagini, dà risultati incommensurabili per ogni altra forma di produzione letteraria.
Quindi sì, continuo a pensare che la poesia sia quanto di più bello ci sia; ma mi sono convinto che il romanzo sia quanto di più necessario ci sia.
Nel mio ultimo romanzo, Annientare, il personaggio principale si trova alla fine in una situazione di estrema angoscia. Si ammala di cancro e per avere una chance di sopravvivenza deve sottoporsi a operazioni mutilanti, così mutilanti che i chirurghi esitano a proporgliele.
Ma è in un’altra circostanza legata alla cura, non particolarmente angosciante, solo fisicamente gravosa, che riscopre i benefici del romanzo. Deve fare delle flebo che durano da quattro a sei ore; e per dimenticare la flebo, per sottrarsi al desiderio continuo di strapparsela, la cosa migliore che trova da fare è leggere Conan Doyle. Conan Doyle, vi ricordo di sfuggita, è un autore inglese che ha scritto a mio parere molte cose bellissime, ma la sua opera più famosa è senza dubbio il ciclo di racconti con Sherlock Holmes. E qui, vorrei richiamare la vostra attenzione su un punto, perché la scelta di Conan Doyle potrebbe prestarsi a malintesi. Si potrebbe credere che la qualità più importante di un romanzo che debba aiutarci a evadere da una situazione mentalmente dolorosa – una flebo interminabile, l’attesa dei risultati di un esame – sia di essere quello che gli anglosassoni chiamano un page turner, e cioè un libro così accattivante che è difficilissimo interromperne la lettura.
Questa è una qualità importante, è vero, molto importante; ma non credo sia la più importante. Vi invito a fare un semplice esperimento. Andate in spiaggia, in un bel pomeriggio d’estate. Immergetevi in un racconto di Sherlock Holmes. In meno di una pagina, se così ha deciso Conan Doyle, vi troverete catapultati a Londra, in una fredda e piovosa notte d’inverno, con la nebbia che invade le strade, o nell’appartamento di Baker Street, dove la stufa a carbone ronza sommessamente. Conan Doyle ci porta dove vuole, quando vuole, e ci fa entrare nell’interiorità dei personaggi che ha scelto. E lo fa, davvero, in meno di una pagina.
Ci si potrebbe aspettare da una Lectio magistralis che vi indichi come ci riesce, quali sono i dettagli rilevanti in grado di trasportare il lettore nel mondo che l’autore ha creato. Invece no. Non tutti gli scrittori hanno lo stesso metodo, per la semplice ragione che i loro universi percettivi sono diversi.
Ci si potrebbe aspettare, allora, che uno scrittore lo illustri a partire da una pagina dei propri libri, quel che si chiama un’esercitazione pratica. Invece no. Non si può, perché la riflessione cosciente non gioca alcun ruolo; si scrive si sente ciò che è importante nel momento in cui, ma lo si dimentica appena si passa a un’altra pagina. A volte lo si ritrova, quando ci si rilegge anni dopo, e ci si dice: però, questo o quel dettaglio non è male; ma è esattamente come se a scrivere il libro fosse stato qualcun altro. È inutile quindi in genere, quando ci si domanda perché certe pagine siano della buona letteratura, chiedere spiegazioni all’autore, che non ne sa nulla. È molto meglio lasciare all’accademico il compito di individuare i dettagli importanti, le idiosincrasie, i metodi.
Sono un autore, certo, ma sono soprattutto, nella mia vita, un lettore; ho passato molto più tempo a leggere che a scrivere. E la mia vita di lettore, a differenza della mia vita di autore, mi ha portato ad alcune conclusioni definitive, che vi esporrò in questo breve intervento. La ragione d’essere fondamentale della letteratura di finzione è che l’uomo ha in generale un cervello fin troppo complicato, fin troppo ricco per l’esistenza che è chiamato a condurre. La narrativa, per lui, non è solo un piacere, è un bisogno. Ha bisogno di altre vite, diverse dalla sua, semplicemente perché la sua non gli basta. Queste altre vite non devono per forza essere interessanti; possono essere perfettamente monotone. Possono essere piene di eventi di grande portata, o non prevederne alcuno. Non devono essere per forza esotiche; possono svolgersi cinque secoli fa, in un continente diverso, o nell’edificio accanto. L’unica cosa importante è che siano altre.
Può darsi che questo bisogno di altre vite sia politico, nel senso più ampio del termine; ma finora non sembra sia stata proposta alcuna soluzione politica valida. Ritengo più probabile che sia anzitutto intimo, fisico, emotivo; ma anche in questo caso non sembra sia emersa alcuna soluzione pertinente.
Non credo affatto che passi attraverso il virtuale, o il metaverso; queste sono solo un mucchio di chiacchiere.
La verità è che la letteratura resta, a tutt’oggi, l’unica cosa che funzioni. Naturalmente, questo bisogno di altre vite raggiunge il suo picco massimo quando le circostanze della nostra vita diventano difficili e dolorose. Ecco perché, malgrado tutto ciò che ho detto all’inizio, forse è giustificato rendere omaggio ai romanzieri. Vi ringrazio per la vostra attenzione.
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