Ultima chiamata per l’Europa? Draghi dà la sveglia
Pochi giorni fa è stato presentato il rapporto sulla competitività europea curato da Mario Draghi. Un’agenda che suona come una sorta di ultimo appello, nel quale spicca il coraggio di dire le cose come stanno, evidenziando i ritardi, i compromessi, le incoerenze con cui l’Europa e i suoi Stati membri si sono mossi finora, «con una trazione più intergovernativa che comunitaria», e rimarcando ciò che è indispensabile fare subito per cercare di stare al passo con le sfide di oggi. Diversamente l’Europa e, di conseguenza, anche l’Italia saranno destinati a una progressiva irrilevanza e al declino. Su questo tema segnaliamo l’articolo dell’economista Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera. Riferendosi al rapporto di Draghi scrive: «Siamo di fronte ad una emergenza esistenziale e questo è il messaggio essenziale, lanciato ai tavoli della politica europea e direi soprattutto ai ministri che siedono al Consiglio».
In queste settimane l’attenzione è anche sugli Stati Uniti in vista delle elezioni presidenziali del 5 novembre, un appuntamento che ci riguarda molto da vicino, più di quanto si possa pensare. Le scelte che si faranno oltreoceano avranno infatti ricadute importanti sul nostro continente. Intanto lo scorso 10 settembre si è tenuto il dibattito fra Donald Trump e Kamala Harris. Su questo vi proponiamo l’analisi di quanto è successo fatta da Marco Bardazzi sul Foglio. Bardazzi insieme a Lorenzo Pregliasco, fondatore e analista politico di YouTrend, saranno ospiti a Brescia della Fondazione San Benedetto venerdì 27 settembre alle ore 18, proprio per darci gli ultimi aggiornamenti sulle elezioni americane. Dopo il primo incontro con loro, molto apprezzato, del maggio scorso, l’appuntamento sarà di nuovo al Centro Paolo VI in via Gezio Calini 30. L’incontro è aperto a tutti ma per partecipare è necessario registrarsi a questo link: https://fondazionesanbenedetto.it/2024/08/28/elezioni-usa-verso-lo-scontro-finale/
Un chiaro messaggio per un’Europa più forte
di Lucrezia Reichlin
dal Corriere della Sera – 9 settembre 2024
Con il tono flemmatico che caratterizza i suoi interventi, Mario Draghi ha presentato ieri a Bruxelles il tanto atteso rapporto sulla competitività in Europa. Ma nonostante il tono della presentazione, il rapporto è un grido di allarme con la chiara finalità di scuotere la leadership europea dalla sua paralisi. Il messaggio è chiaro e non è una sorpresa. Le condizioni che hanno garantito la prosperità in Europa non ci sono più e senza un cambiamento di prospettiva l’Unione non sarà in grado di garantire ai suoi cittadini quel livello di benessere di cui hanno fin qui goduto.
Il declino dell’Europa si vede già nei numeri. Il divario con gli Usa è aumentato e gli europei sono oggi il 30% più poveri del loro alleato, soprattutto per via della crescita più debole della produttività. La produttività, in quanto fattore trainante della competitività, è quindi il focus del rapporto. Draghi si chiede come sostenere e accrescere la produttività della Ue in un nuovo contesto caratterizzato dall’inasprimento delle tensioni geopolitiche, da un acceleramento del cambiamento tecnologico e, soprattutto, dalle sfide della transizione energetica. Prosperità, un modello sociale inclusivo e crescita sostenibile sono valori fondanti dell’Unione ma senza un cambiamento di rotta non possiamo più garantirli.
Siamo quindi di fronte ad una emergenza esistenziale e questo è il messaggio essenziale, lanciato ai tavoli della politica europea e direi soprattutto ai ministri che siedono al Consiglio, più che alla presidente della Commissione von der Leyen che il rapporto lo ha commissionato e il cui contenuto non la ha probabilmente sorpresa più di tanto.
Il documento è ricco di proposte concrete e granulari e poggia su due pilastri essenziali. Il primo è il contenuto di una strategia per la competitività, il «cosa»; il secondo, è la modalità con cui metterla in pratica, il «come». Sul «cosa», Draghi sostiene con analisi e dati il cambiamento di strategia che aveva già cominciato ad emergere negli ultimi tempi sia dalle think-tanks europee che da parte politica. Si propongono politiche dell’innovazione che siano attente non solo alla produzione di tecnologia ma anche alla loro commercializzazione, si vede la decarbonizzazione come un’opportunità per la crescita e si pone enfasi sulla sicurezza economica per difendere la capacità industriale dell’Unione. Innovazione e resilienza — è il messaggio — devono quindi essere la chiave per le nuove politiche della concorrenza. I dati e le proposte del rapporto saranno certamente di ispirazione al lavoro della nuova Commissione che ha già accolto la gran parte di queste idee nella lettera di missione che verrà presentata mercoledì dalla presidente von der Leyen. Più complicato è il «come». Il rapporto è chiarissimo nell’affermare che gli strumenti necessari debbano essere a livello europeo per poter usufruire della scala e in generale dei vantaggi in termini di efficienza e costi di un approccio cooperativo. Inoltre, come era già stato affermato dal rapporto Letta, si argomenta che le politiche industriali di cui abbiamo bisogno, se non eseguite e pensate a livello europeo, distruggerebbero il mercato unico e penalizzerebbero i Paesi con meno spazi di bilancio. Per questo l’Unione deve dotarsi di una governance adeguata, flessibile ed efficiente che permetta di prevalere su interessi nazionali contrastanti e che richiede profonde riforme rispetto a quella esistente. Ma soprattutto, la produzione di questi beni va finanziata con investimenti sia pubblici che privati. Ed è qui il messaggio del rapporto che troverà più resistenze. Per raggiungere gli obbiettivi, Draghi stima che ci sia bisogno di un minimo di investimenti annuali addizionali di 750-800 miliardi di euro, il 4,4-4,7% del Pil dell’Unione nel 2023. Questo numero è enorme e contrasta con l’anemia di investimento privato e pubblico degli ultimi 20 anni.
Molto c’è da fare per incanalare il risparmio privato in investimenti produttivi, ma soprattutto — questo è il messaggio — questa cifra può essere raggiunta solo con un grande contributo dell’investimento pubblico. Come? Riforma del bilancio comune, concentrandosi sulle priorità comuni e maggiore ruolo della Banca europea degli investimenti nel finanziare investimenti a grande scala e alto rischio, ma anche ad essere ottimisti su questo intricatissimo dossier, non basterebbe. L’Unione europea, e qui è la proposta più controversa del rapporto, deve continuare sulla strada intrapresa per il programma Next Generation Eu, i Pnrr, messo in cantiere dopo il Covid e decidersi a emettere debito comune per il finanziamento di priorità comuni. Qui Draghi insiste su un punto molto importante. Il debito comune è lo strumento più adeguato per finanziare progetti a lungo termine ed è essenziale per creare un mercato liquido del debito europeo che è la condizione per avere un mercato comune dei capitali. Quindi il debito comune serve a sostenere sia gli investimenti privati che quelli pubblici.
Il tema del finanziamento non è centrale nel rapporto, ma è chiaro che senza questa mobilitazione di risorse comuni le politiche proposte non hanno gambe. Ma difficile pensare che in questa situazione di incertezza politica, con Francia e Germania quasi fuori gioco, e un’Italia ai margini della politica europea, questo grido di allarme porti ad una discontinuità su un tema così controverso. Questo Draghi lo sa e quindi insiste sull’importanza del partire dalla diagnosi, dall’individuazione dei problemi. Se su questo c’è terreno comune si penserà poi agli strumenti. Quindi nelle prossime settimane ci sarà soprattutto da vedere come il consiglio, espressione delle democrazie nazionali, reagirà al messaggio.
Se il grido d’allarme verrà recepito sarà comunque un passo avanti, ma non credo ci si debba aspettare una forte discontinuità. Una via potrebbe essere quella di accordi tra nazioni su priorità specifiche e contratti à la carte mentre per il finanziamento si potrà forse negoziare di spostare la data della restituzione del prestito Ngeu, magari indirizzandolo verso la spesa per la difesa comune, il tema che i governi trovano oggi più urgente. Soluzione pragmatica che non richiede mettere mano ai trattati, ma anche piena di insidie, come si accenna nel rapporto. È quindi lecito porsi la domanda seguente: se l’Europa è di fronte a un momento esistenziale che richiede una forte discontinuità, ma questo messaggio non è recepito o comunque l’azione necessaria è ostacolata da incentivi politici perversi, dobbiamo aspettarci un forte ridimensionamento sia politico che economico dell’Europa e una drastica riduzione delle ambizioni dell’Unione in tema di integrazione? Saranno le nostre democrazie nazionali sufficientemente vitali e creative per fermare il declino ed esprimere una leadership europea più forte e riformatrice?
Il corpo a corpo
Al dibattito tv la politica si fa facce, mani strette e sguardi altrove. E Harris fa tutto bene
di Marco Bardazzi
da Il Foglio – 12 settembre 2024
Doveva essere l’anno dell’impatto dell’intelligenza artificiale sulle elezioni, della raccolta di finanziamenti che fa la differenza e delle strategie social per conquistare il popolo di Tiktok. Ma il dibattito tra Donald Trump e Kamala Harris ha confermato che la politica, in America e non solo, nei momenti decisivi è ancora e soprattutto un corpo a corpo. A Filadelfia, la città di Rocky Balboa, non si sono visti colpi da ko e il palco non è stato un ring: per una notte si è fatta campagna elettorale non solo con i guantoni, ma a colpi di body language e mimica facciale. Era già successo a giugno nel confronto fra Trump e Biden, con il presidente umiliato dalla rigidità del suo ingresso sul palco, dall’immobilità dei suoi sguardi e dalla difficoltà a esprimersi con i muscoli del volto. Kamala Harris è stata l’opposto del suo capo. E se buona parte degli opinionisti la ritiene la vincitrice del dibattito non è solo per le cose che ha detto – il suo programma elettorale è ancora povero di dettagli – quanto per come si è presentata agli americani e allo stesso Trump. E’ dai primi dibattiti televisivi della storia delle presidenziali, quelli tra John F. Kennedy e Richard Nixon, che gli elettori americani sono abituati a trattenere percezioni e impressioni molto “fisiche” di questi scontri e a tradurle in intenzioni di voto. La rigidità di Nixon gli costò nel 1960 la presidenza, quando fu messa a confronto in tv con l’energia di Kennedy.
La vicepresidente la notte scorsa ha segnato il primo punto un istante dopo essere comparsa sul palco, raggiungendo Trump dietro il suo podio e costringendolo a una stretta di mano. “Kamala Harris”, si è presentata guardandolo dritto negli occhi (non si erano mai incontrati). Era dal primo dibattito fra Trump e Hillary Clinton nel 2016 che i rancorosi candidati alla Casa Bianca non si scambiavano una stretta di mano in un evento come questo. Per Joe Navarro, un ex agente dell’fbi specializzato in body language che ha analizzato il dibattito per Politico, “Harris lo ha colto alla sprovvista ed è tornata al suo posto col sorriso sulla faccia: ha ottenuto quello che voleva e lo sapeva”.
Ciò che ha incassato è stato far capire subito a Trump e al pubblico di non essere intimorita. Per novanta minuti l’ex presidente non ha mai girato la testa nella sua direzione e non l’ha mai guardata, mentre Harris ha trascorso un’ora e mezzo dividendosi tra parlare agli americani direttamente nella telecamera e rivolgersi a Trump. Specialmente nei momenti in cui parlava lui, la vicepresidente ha esibito una vasta gamma di posizioni (inclusa la mano sotto il mento, per esprimere stupore e curiosità) e mimica facciale che nel complesso hanno dato una sensazione di sicurezza e leadership. Con qualche momento di difficoltà, che Navarro ha individuato osservando i muscoli del collo che tradivano forte tensione.
Trump era stato dominante con Hillary Clinton nel 2016, a tratti anche invadendo il suo spazio in un dibattito in cui si potevano muovere sul palco, ma stavolta è apparso sempre sulla difensiva. Il doppio schermo con le immagini dei candidati affiancati lo aveva avvantaggiato a giugno con Biden, dando subito un’impressione di energia e dominio della scena. Stavolta lo sguardo degli spettatori è stato calamitato dalla mimica facciale della Harris.
Gli analisti repubblicani hanno attaccato l’eccesso di risate della vicepresidente, ritenendolo un gesto di debolezza. Molti americani probabilmente la pensano allo stesso modo e i social sono pieni di battute pesanti su “Kamala ridens”. Ma in generale l’umore in casa repubblicana è stato quello di una serata andata male, nonostante Trump ripeta che è stato il suo miglior dibattito.
Questo non significa che il dibattito abbia necessariamente cambiato qualcosa. Servirà qualche giorno per avere i primi sondaggi affidabili, soprattutto nei sette stati chiave che decidono la partita, che al momento sono in totale parità. L’impressione è che Kamala Harris possa ridare slancio a una campagna che dopo l’entusiasmo di agosto cominciava a mostrare segni di stanchezza. L’endorsement di Taylor Swift, da questo punto di vista, più che per spostare voti è importante per creare mobilitazione.
Da Filadelfia arriva comunque la conferma dell’importanza del confronto diretto, faccia a faccia, anche nelle campagne presidenziali dell’èra digitale. Niente aiuta gli elettori a farsi un’idea come assistere per un’ora e mezza a un corpo a corpo tra chi aspira a guidare il paese.