Mercoledì sera la Rai ha mandato in onda il monologo di Roberto Benigni «Pietro, un uomo nel vento» (lo potete rivedere cliccando questo link). Un racconto travolgente della storia dell’apostolo Pietro e del suo incontro con Gesù. «Le cose più importanti della vita non si apprendono e non si insegnano, si incontrano», ha detto Benigni. Un racconto non fatto da un uomo di chiesa, ma da una persona come il comico toscano visibilmente affascinato da quella storia, con una forza di immedesimazione che non può non sorprendere.
Roberto Benigni durante il monologo su Pietro (foto da Raiplay)
Su questo vi invitiamo a leggere sul nostro sito l’articolo di Lucio Brunelli pubblicato su Avvenire che insieme al caso di Benigni ricorda anche quello dello scrittore spagnolo Javier Cercasche ha raccontato in un libro bellissimo, «Il folle di Dio alla fine del mondo» (lo avevamo segnalato fra le nostre proposte di lettura la scorsa estate), il suo viaggio con Papa Francesco in Mongolia. Benigni e Cercas, «due artisti dalla biografia totalmente estranea al mondo ecclesiale», i cui racconti sinceri «toccano la mente e il cuore, aprono a una domanda». «Il commovente monologo del premio Oscar, Benigni, e il sorprendente romanzo di Cercas – continua Brunelli – si spiegano con l’innata genialità di questi due artisti e con la fantasia della Grazia, che opera come vuole, quando vuole e in chi vuole. Sono al contempo anche il frutto di una mutata immagine della Chiesa nella considerazione pubblica. C’è forse meno pregiudizio, più simpatia, più disponibilità all’ascolto». Soprattutto si presagisce il fascino di un’umanità più vera. L’annuncio del Natale ormai vicino risponde a questa attesa di verità, di bellezza, di felicitàche è nel cuore di ogni uomo a patto di essere leali con se stessi. Quel Natale che oggi appare spesso soffocato da una quantità di orpelli inutili, da noiosi riti consumistici, da evasione e distrazione di massa, da un intrattenimento vuoto e stordente. Eppure dissotterrare l’attesa profonda che è in noi, riportarla in primo piano, è il primo passo per farsi sorprendere da qualcosa che sia veramente attraente, all’altezza del desiderio infinito della nostra umanità.
Due artisti dalla biografia estranea al mondo ecclesiale, ma attratti dal cristianesimo. Chissà se si può parlare di una mutata immagine della Chiesa nella considerazione pubblica
È un segno dei nostri tempi:milioni di persone solitamente lontane dalla Chiesa sono state provocate quest’anno a porsi domande vere sulla fede o hanno sentito un barlume imprevisto di attrattiva verso il cristianesimo, grazie a due artisti dalla biografia totalmente estranea al mondo ecclesiale: Roberto Benigni e Javier Cercas. Il comico toscano è entrato nelle case degli italiani raccontando con emozione, in tv, l’umanità di san Pietro, con le sue fragilità e i suoi grandi slanci, umanità tanto simile alla nostra, eppure straordinaria perché straordinario fu per lui l’incontro con Gesù; perché «le cose più importanti della vita non si apprendono e non si insegnano: si incontrano». Lo scrittore spagnolo, invece, nel 2025 è stato in testa alle classifiche dei libri più venduti nel mondo con un romanzo no fiction in cui racconta il viaggio di papa Francesco in Mongolia e confida di essere stato conquistato dall’umanità dei missionari cattolici nella patria di Gengis Khan. Entrambe le opere – il monologo di Benigni in Vaticano e il libro di Cercas Il folle di Dio alla fine del mondo – sono piuttosto sorprendenti.
Inimmaginabili, forse, solo pochi decenni fa.Il Benigni del Pap’occhio s’era alienato le simpatie di molti cattolici con la sua satira irriverente; a torto o a ragione, era visto come il beniamino esclusivo del popolo laico della sinistra postcomunista. Cercas, dal canto suo, si è sempre professato ateo e anticlericale: anche lui letto e amato soprattutto da un largo pubblico che raramente mette piede in una libreria cattolica. Eppure, dal suo avvincente viaggio in Vaticano e in Mongolia è tornato cambiato: caduti molti pregiudizi sulla Chiesa cattolica, sorpreso da una inattesa “nostalgia di Dio”. Cosa altrettanto sorprendente: dopo aver letto il romanzo nessuno dei più affezionati e laici lettori dello scrittore spagnolo si è sentito di criticare il suo cambio di prospettiva circa la Chiesa cattolica. Come anche tra i fan di Benigni non si sono udite voci sarcastiche sulla scelta di contenuti “religiosi” per il suo ultimo spettacolo.
I percorsi esistenziali di Benigni e di Cercas sono diversi e solo loro sanno se e quanto è mutato il loro rapporto personale con il Padre Eterno. Sarebbe ridicolo aspettarsi da loro espressioni dottrinali inappuntabili. Ma i racconti sinceri di questi due popolari artisti toccano la mente e il cuore, aprono ad una domanda. Essi ci parlano anche di una mutata considerazione della Chiesa, di uno sguardo diverso verso la religione cattolica. Forse un effetto collaterale della limpida testimonianza ad extra degli ultimi papi: l’umile e dotto Benedetto, che mette mano con coraggio a riforme importanti per rimuovere la “sporcizia” nella Chiesa e poi, anziano e stanco, sceglie di farsi da parte per meglio servire con la preghiera il Corpo di Cristo; l’uragano Francesco, che scuote molta polvere accumulata sul Vangelo della misericordia, riuscendo a emozionare anche di chi è lontano. Il tempo in cui la barca di Pietro sembrava quasi travolta dai flutti degli scandali finanziari e dall’ignominia degli abusi sessuali del clero, sembra passato; più velocemente di quanto si potesse prevedere durante la lunga tempesta.
Il commovente monologo del premio Oscar, Benigni,e il sorprendente romanzo di Cercas si spiegano con l’innata genialità di questi due artisti e con la fantasia della Grazia, che opera come vuole, quando vuole e in chi vuole. Sono al contempo anche il frutto di una mutata immagine della Chiesa nella considerazione pubblica. C’è forse meno pregiudizio, più simpatia, più disponibilità all’ascolto. Anche nei confronti di un papa come Leone, che concede poco alla personalizzazione mediatica del suo ruolo e vuole anzi «scomparire perché rimanga Cristo». Un clima in parte cambiato, dunque. Questo non significa che le chiese stiano tornando a riempirsi o che ogni ombra sia svanita dal volto umano della Chiesa. Ogni trionfalismo sarebbe fuori luogo. Piuttosto si può vedere in questi cenni di una empatia nuova l’indizio di una possibilità più grande di testimonianza, un segno che richiama ogni fedele e la Chiesa intera ad una maggiore verità di sé, quindi ad una preghiera ancora più umile e consapevole. Affinché ogni essere umano, incontrando un cristiano, possa sentire quella nostalgia di Dio e il fascino di un’umanità più vera che ci hanno fatto presagire, in modo imprevedibile, il libro di Cercas e lo spettacolo di Benigni.
Martedì 2 dicembre si è concluso il viaggio di Leone XIV in Turchia e in Libano, il primo del nuovo papa. Un viaggio carico di significati, spesso del tutto ignorati nei servizi dei telegiornali e nei resoconti di molti quotidiani. Significati su cui vogliamo invece soffermarci nella nostra newsletter di oggi proponendovi la lettura di due articoli. Il primo tratto da il Foglio è dedicato alla tappa del papa a Nicea, sulle rovine dell’antica basilica, a 1700 anni dal concilio che là definì il Credo che ancora oggi viene recitato ogni domenica nella messa. Stabilì un punto fermo sconfessando le posizioni ariane che negavano la natura divina di Gesù. Ma, ha sottolineato papa Leone, «se Dio non si è fatto uomo, come possono i mortali partecipare alla sua vita immortale? Questo era in gioco a Nicea ed è in gioco oggi: la fede nel Dio che, in Gesù Cristo, si è fatto come noi per renderci partecipi della natura divina». Non è una questione che riguarda secoli molto lontani. Il papa ha parlato infatti del rischio di un arianesimo di ritorno quando Gesù viene ridotto a una sorta di «leader carismatico o di superuomo». Il secondo articolo, di Andrea Tornielli dal sito Vatican News, riguarda la parte libanese del viaggio papale. Il Libano, caso unico nel Medio Oriente tormentato da guerre e terrorismo, da lacerazioni profonde e da contrapposizioni radicali, è un paese in cui ancora oggi convivono fedi diverse. È un segno che non è inevitabile arrendersi alla guerra e all’odio. È un paese che documenta concretamente che ci sono le condizioni, sia pur tra mille difficoltà, per affermare la pace.
«Quando le persone smettono di leggere – di dare un senso al testo su una pagina – perdono anche la capacità di dare un senso al mondo. In gioco c’è nientemeno che il destino dell’umanità, data l’intima connessione tra la parola scritta e la civiltà stessa». Lo scrive l’economista e saggista britannico Niall Ferguson in un articolo pubblicato il 16 novembre sul quotidiano inglese The Times di cui vi invitiamo a leggere una sintesi sul nostro sito. Un intervento che segue di qualche giorno un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera nel quale veniva evidenziato «il progressivo abbandono della lettura», in questo caso riferito al nostro paese. «Qui ne va davvero dell’avvenire del Paese – scriveva -, della qualità civile e umana degli italiani. Solo la lettura risveglia la mente, alimenta l’intelligenza, rende liberi. Tutte cose di cui c’è un gran bisogno». Il 22 novembre è stato invece Papa Leone a richiamare l’importanza della lettura «oggi più che mai». Leggere aiuta ad «unire mente, cuore e mani».
Apparentemente il crollo della lettura può risultare un dato del tutto secondario rispetto ad altri problemi più impellenti, in realtà rappresenta una regressione pericolosa che mina la stessa libertà delle persone come segnala Ferguson. Nel nostro piccolo ci sembra interessante l’esperienza fatta in questi anni come Fondazione San Benedetto, soprattutto attraverso il Mese Letterario ma anche con la nostra newsletter domenicale, nel far appassionare alla lettura di grandi autori come di articoli dalla stampa o di testi significativi. Per molti è stato anche un percorso di riaffezione «per contagio» all’esperienza della lettura. Una strada sulla quale intendiamo continuare.
Vivere dando tutto per scontato o farsi sorprendere dalla realtà? Un’alternativa davanti alla quale siamo continuamente posti e chiamati a misurarci. Lo racconta in un interessante articolo che vi invitiamo a leggere, pubblicato sul Corriere della Sera, Alessandro D’Avenia, insegnante e scrittore, che parla dell’esperienza fatta in classe all’inizio di una mattinata scolastica facendo ascoltare La primavera di Antonio Vivaldi. È stato «fare esperienza della gratuità – scrive -, cioè sentire che la vita è data, gratis, anche nel ripetersi». Sorprendersi è questo, non è uno shock emotivo per evadere dalla cosiddetta normalità della vita. «Solo l’esperienza della vita data “gratis” e non “per scontata” (che infatti è diventato sinonimo di: “non mi sorprende più”) – continua D’Avenia – provoca risveglio e unione, i due elementi della gratitudine, senza la quale non è possibile esser felici. Il giorno in cui si dà qualcosa o qualcuno per scontato finisce la gioia, perché la felicità è tanta quanta lo stupore: la sorpresa di un volto o un oggetto si spengono». Dare per scontato impedisce di «ricevere l’istante come un dono» e quindi di vedere la realtà per quello che veramente è introducendovi un principio di novità che trasforma la vita.