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Curare la memoria, sempre

  • Data 29 Gennaio 2023

di Ferruccio de Bortoli

dal Corriere della Sera – 25 gennaio 2023

https://www.corriere.it/editoriali/23_gennaio_24/10-cultura-111corriere-web-sezioni-9ba94592-9c20-11ed-b717-184306d51af5.shtml

La memoria è come un giardino. Va curata. Altrimenti si ricoprirà di erbacce. E i fiori dei giusti scompariranno. Divorati. Quei fiori sono persone che hanno lottato anche per la nostra libertà o hanno pagato, con la vita, per la sola colpa di essere nati. Quello che siamo noi oggi lo dobbiamo a loro. Se li dimenticassimo morirebbero una seconda volta. Ma, senza accorgercene, cominceremmo anche noi — fortunati cittadini di una democrazia e di uno Stato di diritto — a svuotarci di valori, a dare poca importanza al coraggio delle idee, al sacrificio personale per un bene collettivo, a impoverirci nella nebbia storica dei fatti. Inerti. Privi di vaccini per difenderci da nuove barbarie.

Liliana Segre è infaticabile nella sua testimonianza della Shoah. Una tragedia immane nella quale alcuni dei nostri antenati furono anche complici, al di là del racconto rassicurante, e a tratti eroico, degli «italiani brava gente». Ma le pagine buie le abbiamo rimosse. Per convenienza. Chissà che non ci fosse anche qualche nostro parente — che abbiamo certamente e giustamente amato — o loro amici, da quella parte? Magari nello spingere i deportati, ebrei, oppositori del regime, sui vagoni della morte; oppure facendo solo finta di non vedere, adattandosi. Chissà come ci saremmo comportati tutti noi nel 1938 davanti alla vergogna delle leggi razziali?

I camion che dal carcere di San Vittore — con il loro carico di vite, tra cui quella di Liliana Segre — diretti verso la Stazione Centrale, sfilarono in una Milano con le persiane chiuse. Ignara, impaurita. Per quasi tutto il Dopoguerra, fino alla soglia di questo millennio, il sotterraneo della Stazione Centrale di Milano — che vide l’orrore della trasformazione delle persone in pezzi numerati, in oggetti di scarto — era ai nostri occhi un semplice deposito postale. Anonimo nella sua utilità. Nella città medaglia d’oro della Resistenza, pochissimi sapevano quello che era accaduto, lì nel cuore di Milano, sotto il piano dei binari calpestato in tanti viaggi di lavoro, svago, sogni e speranze. Da tutti. Nel nostro comodo oblio quei concittadini, che non erano più tornati, morivano ancora una volta nell’invisibilità della loro storia di ingiuste sofferenze.

La giornata della Memoria è stata istituita solo nel 2000. Se dovesse trasformarsi in un esercizio rituale, di semplice buona educazione, non avrebbe senso. Ed è anche per questo che dobbiamo essere grati alla senatrice Segre, la più anziana signora d’Europa a essere costretta a girare, perché minacciata, con la scorta dei carabinieri. Nel 2023! Segre teme la noia. E ha ragione. Noi temiamo, con lei, l’assuefazione, il rigetto magari per un sovrappeso di avvenimenti, l’insincerità di manifestazioni dovute e non sentite, la voglia di rimuovere il passato nella convinzione che ciò favorisca la costruzione del futuro. «Abbiamo capito, sappiamo, ora però pensiamo ad altro». Ma non è così. Senza memoria non vi è giustizia. I torti si sovrappongo alle ragioni, cancellandole.

Ho accompagnato, per tanti anni, Liliana Segre nei suoi incontri con gli studenti, in occasione del 27 gennaio. L’attenzione è sempre stata totale. Un silenzio assoluto. Una grande partecipazione e momenti di emozione. Soprattutto quando la futura senatrice diceva alle ragazze e ai ragazzi: «Siete fortissimi». E mai vi fu un incoraggiamento così vero, così sentito, così provato sulla propria pelle. Un segno di speranza civica. E lo sbocciare di tante maturità giovanili, fiori bellissimi che non meritano di vivere nel deserto dei sentimenti.

Tag:Giornata della memoria

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piergiorgio

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È la letteratura la vera educazione affettiva
15 Novembre, 2025

In queste settimane la discussione sulla cosiddetta educazione affettiva o affettivo-sessuale nelle scuole è subito degenerata in uno scontro nel quale più si alza il volume delle polemiche pretestuose più diventa difficile comprendere veramente i termini della questione. Da molti anni sulla scuola è stato scaricato qualunque tipo di «emergenza sociale» che avesse a che fare con le generazioni più giovani cercando di approntare risposte con tanto di istruzioni per l’uso e ricette alla bisogna attraverso l’intervento degli immancabili esperti, di sportelli psicologici, etc. L’ora di educazione affettiva è solo l’ultimo anello di una lunga catena. Un vero disastro.

Due settimane fa su Repubblica lo psicoanalista Massimo Recalcati aveva chiaramente sottolineato che l’educazione affettiva «non può essere considerata una materia di scuola tra le altre, non può ridursi a un sapere tecnico perché tocca ciò che di più intimo, inafferrabile e bizzarro c’è nella soggettività umana. L’idea che il desiderio possa essere oggetto di un sapere specialistico rivela un equivoco profondo: la sessualità non si insegna come si insegna la grammatica o la matematica. E poi chi dovrebbe insegnarla? Un biologo? Uno psicologo? Un insegnante di scienze naturali? Un tecnico appositamente formato? La sessualità non è un sapere universale da trasmettere, ma un’esperienza del tutto singolare e incomparabile che deve essere piuttosto custodita». 

Su questa lunghezza d’onda nella newsletter di oggi vogliamo proporvi la lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato sul Foglio nei giorni scorsi. «Questa cosa – esordisce l’articolo – dell’educazione affettiva o affettivo-sessuale, col permesso dei genitori, mi sembra una castroneria». Ferrara suggerisce piuttosto la via dell’educazione sentimentale attraverso la letteratura, cominciando magari da Flaubert. L’ora di educazione affettiva fatta da insegnanti, specialisti, psicologi, in collaborazione scuola famiglia, è solo «un modo di abbrutire e diminuire la personalità degli alunni e delle alunne».  È un’ondata «di affettivismo psicologico priva di carisma e di fascino». «Si rivolgano – aggiunge Ferrara – alla letteratura, se c’è bisogno di apportare un bene patrimoniale sentimentale che integri il bagaglio delle giovani anime in cerca di una strada nella e nelle relazioni affettive e sentimentali». Parole sacrosante che sentiamo molto vere nella nostra esperienza. Non è stato infatti per un pallino culturale che come Fondazione San Benedetto quindici anni fa abbiamo lanciato a Brescia il Mese Letterario riconoscendo nella letteratura, e in particolare nelle opere di alcuni grandi scrittori o poeti, quel fuoco che è alimentato dal desiderio di bellezza e di verità che è nel cuore di ogni uomo e che molto c’entra con l’educazione dei nostri affetti. Per Ferrara quindi  affidare l’educazione dei sentimenti e dell’amore, questo «incunearsi nella spigolosità e nella rotondità delle anime», «a uno spirito cattedratico o a una expertise di tipo sociale», sarebbe «un errore che si potrebbe facilmente evitare con il ricorso a racconti e storie interessanti». Racconti e storie che la letteratura, attraverso la lettura, ci offre a piene mani. 

Pier Paolo Pasolini e Anna Laura Braghetti, due storie che ci parlano
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Pier Paolo Pasolini, di cui il 2 novembre sono stati ricordati i cinquant’anni della sua uccisione. Anna Laura Braghetti, brigatista rossa, morta giovedì a 72 anni, che fu carceriera di Aldo Moro e che nel 1980 sparò uccidendolo al vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. È di loro, di Pasolini e di Braghetti, che vogliamo occuparci in questa newsletter soprattutto per «fissare il pensiero» su alcuni spunti che la loro storia personale ci offre e che riteniamo significativi per noi oggi. Su Pasolini vi proponiamo un intervento del filosofo Massimo Borghesi, che lo definisce «un grande intellettuale, come pochi in Italia nel corso del Novecento» capace di interpretare con largo anticipo i cambiamenti che ora stiamo vivendo.
In particolare Borghesi si sofferma sulla posizione di Pasolini rispetto al ’68: «L’antifascismo inteso come progressismo, cioè come lotta alla reazione, per Pasolini non era più alternativa democratica, ma il modo con cui si realizzava un nuovo fascismo. Questa è l’intelligenza di Pasolini sul passaggio tra anni Sessanta e Settanta: vede nascere una nuova ideologia apparentemente progressista ma funzionale a un nuovo potere di destra». Per Borghesi Pasolini, a differenza di Marcuse, è disincantato, «capisce che il ’68 è rivolta della borghesia, non del proletariato: non trovi un operaio nella rivolta del ’68. È una rivolta degli studenti, dei figli della buona borghesia delle città. E qual è il messaggio del ’68? Un nuovo individualismo di massa. Serve ad abbandonare – contestare, distruggere – i vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra, e così crea l’uomo a una dimensione: senza radici, senza legami, contro famiglia ed elementi comunitari. Favorisce un individualismo di massa egoistico e solipsistico, trionfo della società borghese allo stato puro».
Pasolini non aveva forse intravisto il mondo in cui oggi siamo immersi?  Per questo val la pena leggerlo e rileggerlo. E come Fondazione San Benedetto l’abbiamo messo più volte a tema negli incontri del Mese Letterario, già sin dalla prima edizione.
Sulla storia di Anna Laura Braghetti vi invitiamo invece a leggere l’articolo di Lucio Brunelli apparso sull’Osservatore Romano. Dopo aver ripercorso le sue tappe come terrorista, Brunelli sottolinea che poi in Braghetti maturò il pentimento: «Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto – questo il paradosso più drammatico di quella storia – in nome di un ideale di giustizia». Fino all’incontro in carcere con il fratello di Bachelet. «Da lui – raccontava Braghetti – ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile».
A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo – ricorda Brunelli -, «la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”». Questa la conclusione di Brunelli: «Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così».

Il Cristo di Manoppello e Sgarbi trafitto dalla bellezza
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«Nei mesi attuali di oscurantismo, immersi nell’orrore di Gaza, nella guerra in Ucraina, nell’oppressione della cronaca, anche personale, mi convinco che vi sia molto più Illuminismo cioè quella tendenza a invadere il reale di razionale – nel pellegrinaggio al Cristo di Manoppello che non nella realtà di oggi, che sembra imporci comportamenti irrazionali». Lo scrive Vittorio Sgarbi in un articolo sul settimanale «Io Donna» a proposito del Volto Santo di Manoppello, il velo che porta impressa l’immagine del volto di Gesù, custodito nella chiesa di un piccolo paese in provincia di Pescara. Una reliquia di origine misteriosa di fronte alla quale passa in secondo piano se sia l’impronta di un volto o un’immagine dipinta. Per Sgarbi «quel volto è il volto di Cristo anche se non è l’impronta del suo volto, perché è ciò che la nostra mente sente essere vero, non la verità oggettiva di quella cosa». Si dice trafitto dalla «sua bellezza, che splende più della sua verità, cioè della sua vera o presunta corrispondenza al volto del vero Gesù, “veramente” risorto». Ecco oggi l’esperienza di cui più la nostra vita ha bisogno è proprio questo essere feriti dal desiderio della bellezza. Solo questa esperienza può mobilitare ragione, intelligenza e volontà a prendere sul serio la nostra sete di infinito, spingendo a non accontentarsi di false risposte tanto comode quanto illusorie. E si può solo essere grati che a ricordarcelo sia un inquieto e un irregolare come Sgarbi.

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